«Lo scrivere è insieme conoscere e conoscersi di più» , scrive Franco Loi, eminenza senza cui questo libro non sarebbe forse mai potuto venire alla luce. Sì, perché Davide Romagnoli al suo esordio in poesia ci offre col suo El silensi d’i föj druâ (Marco Saya Editore 2018) un dialetto lombardo deciso, di chiara ascendenza loiana, che come in un bozzetto in carboncino ci riporta alla pianura. Finalmente alla pianura.
È Milano, nemmeno a dirlo, ad agitarsi tra le scansie di questi versi che la velano come sotto una nebbia, ma la città pare vista dalla specola d’eccezione di San Giuliano, San Donato, Peschiera Borromeo, da quella città nella città che raramente appare tra i tetti quadrati di Metanopoli, in luoghi, insomma, in cui la bruma ancora divora il panorama e la parola e le figure possono confondersi.
Di queste fosche sfumature cromatiche è colmo il testo di Romagnoli, preso com’è a mettere a posto, un concetto dopo l’altro, l’Odissea quotidiana dell’uomo comune costretto, suo malgrado, a registrare il quotidiano tramite poche, significative parole chiave (si parlerebbe, forse, di fonosimbolismo). Così niente, nulla, silenzio, nessuno acquistano, in lingua, un ritmo cantilenante, depressivo.
«Ogni cosa che senti ti muove dentro», scrive Loi in prefazione, «nella poesia di Romagnoli c’è il bisogno di sentire questo più approfonditamente: quel mistero dell’uomo davanti alla vita» . Così è. Romagnoli sente infatti fortissima la voglia di Parlà del nient, intend el nient / e vardà tuti i fàcc del noster vèss (Parlare del niente, capire il niente / e guardare le facce del nostro essere), in un dettato poetico finissimo che lascia, nel lettore, un profondo vuoto, che dà il via a una lenta nullificazione. Una poesia dialettale, certo, ma vicina, vicinissima alla radice più autentica dello scrivere contemporaneo: quella spossatezza, quella mancanza di convinzione (sia essa politica e religiosa non importa) che lascia a chi ha in sé forte il senso religioso null’altro che il freddo mistero.
Ciò che ne risulta è una poesia autentica, che dimostra «Il proprio dubbio e la propria convinzione di fronte al non sapere, in un rapporto simpatetico con le cose e il mondo intero» .

Quel che’el ghè de guardà l’è nò tüt quel che’el ghè:
i öcc se trànn nel vöj e ne l’erba cume fiö al sȗ
cun la vista che g’han i telecamer dell’iphone
ne la cunesiȗn cui mund, cui prà, cun la nèv.
Su nesun a drè a guardà, se el mar o el ciel,
la nèbia o’ilatt stravacà, la pèll 0’1 paltò
s sun mi che me guardi al pece d’i pagin
o i paròl ch’ù dì eh me guar l n al freg de la nòtt.
Sù nò e sùn a drè a dì, se l’è che pödi pensà
quand tàsi e senti in là di sass, di cà e di muntagn.
El spirit el sà de sàl e i öcc de sàbia.
Guardi el nient, e el nient l’è tutt quel che’el ghè.

Quello che c’è da guardare non è tutto ciò che c’è:
gli occhi si gettano nel vuoto e nell’erba come ragazzini al sole
con la vista che hanno le telecamere degli iphone
nella connessione col mondo, coi prati e con la neve.
Non so cosa sto guardando, se il mare o il cielo,
se la nebbia o il latte versato, la pelle o la giacca
se sono io che mi guardo nello specchio delle pagine
o le parole che ho detto che mi guardano al freddo della notte.
Non so che sto dicendo, che cosa posso pensare
quando taccio e sento oltre i sassi, le case e le montagne.
Lo spirito sa di sale e gli occhi di sabbia.
Guardo il niente, ed il niente è tutto quello che c’è.

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