Nel momento in cui, d’un tratto, cessi le lacrime, ecco l’inattesa chiarezza.

«(…) se / pure i primi istanti ogni cosa appare / sterile, e scivola dai campi il profumo / della vita, nello straziante eccidio del /dissolversi e morire, arriva un’ora in /cui l’esausto pianto ammutolisce.»

In friulano c’è una parola, salustri, che dice l’intensità nitida della luce e del cielo dopo il temporale, quando dalle montagne vedi la pianura o le valli ridestarsi. Concluse le lacrime per ogni assenza, per ogni distanza così tangibilmente reale e ferente, ecco che il vetro torna limpido, pulito, non più opaco. Ti trovi improvvisamente innondato di luce, ancora.

«(…) ma vinto l’orrore / le lacrime vivono infine commosse / l’amore che il mondo introduce / alla carne intrecciandola al sogno, / sciogliendone il sangue nella / radura di un pianto incantevole.»

Chi ha smesso di piangere? Solamente tu. Chi è morto nel proprio sé per ridarsi vivo, con verità, in una maniera onesta anche solo intuitivamente? Solamente tu, volendoti. Preghi ancora come disperato per la tua vita ma davvero non essendolo più.

«(…) un solo mormorio, / definitivo, leggerissimo: “primavera” / ovunque, come fosse un destino.»

 

da Desiderio del vero, plaquette inedita

Non l’oscurità della sera il
nostro immaginare atterrisce ed
inchioda, non quell’incanto furtivo
dei boschi, riscossi da un vento
sferzante che fin dall’infanzia
alimenta il fantastico. E lo
sfumare rosato del buio celeste
che sanguina in chiome di
fiori e corolle slavate fa luogo
all’altare notturno del vuoto, dove
l’aurora di un bacio lunare è
terribile, certo, ma vinto l’orrore
le lacrime vivono infine commosse
l’amore che il mondo introduce
alla carne intrecciandola al sogno,
sciogliendone il sangue nella
radura di un pianto incantevole.

*

Nell’infanzia il primo fiore si
sostiene sul pendio dei nuovi
affetti, lievemente: non riesce a
immaginare quella roccia sgretolarsi,
il porto delicato farsi oceano e
smarrimento. Eppure è ciò che
avviene, per la furia degli eventi
che ci strappano all’origine, e
la fredda noncuranza che con
gli anni è più sensibile; l’istinto
suggerisce che è più semplice
annientarsi, farsi vento nella
polvere, schiuma tra le onde in
un deserto temporale. Ma il senso era
in quel seme, custodirlo con la
cura disperata del pregare, l’attenzione
che ogni cosa ha ormai perduto,
tranne questa: il dono della grazia
che sostiene chi precipita, voragine che
accoglie un destinato rifiorire.

*

L’esperienza della perdita costringe a
confrontarsi con la voce degli esclusi: se
pure i primi istanti ogni cosa appare
sterile, e scivola dai campi il profumo
della vita, nello straziante eccidio del
dissolversi e morire, arriva un’ora in
cui l’esausto pianto ammutolisce. Ed
in quell’ora ascolterai il lamento dei
reclusi, la voce di chi ha perso ogni
speranza o tenerezza, e con inaspettata
gentilezza di bambino, trafiggerà un
dolore, non più tuo soltanto, pieno.
Dal vento di infelici autunni intenderai
il principio, e nella carne alcuna smania,
ma destinazione: un solo mormorio,
definitivo, leggerissimo: “primavera”
ovunque, come fosse un destino.

 

Mario Famularo (Napoli, 1983)  esercita la professione di avvocato a Trieste. Suoi testi sono apparsi su antologie e riviste letterarie, tra cui il blog Rai “Poesia, di Luigia Sorrentino”, “Poetarum Silva”, “YAWP”, “Argo”, “Inverso”, “ClanDestino”, “Il Segnale”, “Digressioni”, “Atelier” e tradotti in lingua spagnola dal “Centro Cultural Tina Modotti”. È redattore della rivista trimestrale “Atelier” e dei lit-blog “Laboratori Poesia” e “Niedern Gasse”. Collabora con il ciclo di incontri di poesia e letteratura “Una scontrosa grazia” e il blog Rai “Poesia, di Luigia Sorrentino”. Suoi contributi critici appaiono su “Nazione Indiana” e in prefazione a diverse pubblicazioni di poesia. Ha pubblicato le raccolte di poesia L’incoscienza del letargo (Oèdipus 2018, terzo posto al premio Conza 2019) e Favēte linguis (Ladolfi 2019).

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