Il dispositivo, diceva Foucault, è un insieme eterogeneo di formazioni, che ha come prerogativa la manipolazione dei rapporti di forza e il condizionamento di certi tipi di sapere: un (non sempre rivelato) elemento operante, che lascia la sua impronta sul reale. Ma è altresì strumento che media l’agire di un soggetto, dandogli potere o corso. Tale soggetto, che fa uso del dispositivo o vi partecipa, ne è a un tempo adiuvato e plasmato.
Il dispositivo nasce, filosoficamente parlando, per accompagnare e strutturare una soggettivazione, cioè l’affermazione del singolo sul tangibile circostante. È un braccio potenziato, struttura mentale, ausilio materiale o tecnologico; struttura intellettuale, spirituale, associativa, istituzionale per ordinare la realtà, attutirne l’urto, codificarne le classificazioni. Eppure, ogni dispositivo adottato esercita un’azione retrograda sull’individuo che ne fa uso, ridefinendolo in contorni ed essenza. L’esito può essere, per l’utente, un adeguamento, un appiattimento massificato sulla norma comune, che lo conduce a un’inattesa, paradossale desoggettivazione.
Il processo originario di auspicata soggettivazione e quello refluo di desoggettivazione, come suggerisce Agamben in esergo, nell’epoca odierna del capitale, «sembrano diventare reciprocamente indifferenti e non danno luogo alla composizione di un nuovo soggetto, se non in forma larvata e, per così dire, spettrale»; così come Bianchi, evocando Foucault, ci ricorda che il soggetto contemporaneo, lontano dalle solidità ignee dell’io cartesiano o agostiniano, è oltremodo plasmabile da quei dispositivi sociali (burocratici, istituzionali) che, creati come strumenti organizzativi, divengono, nel tempo storico, «forze dinamiche» che si fanno emanazione del potere; e, in ultima istanza, direzione di metamorfosi per l’individuo.
In questo scenario già delimitato, frazionato, in cui la libertà di espressione dell’uomo è vincolata a innumerevoli sovrastrutture, Stefano Guglielmin ci regala Dispositivi (Marco Saya 2022), silloge sorprendente, tra le altre cose, per la vigorosa attitudine speculativa.
La raccolta si apre con la sezione Dispositivi del poetico, una disamina in versi, non scevra d’umorismo, sugli strumenti retorici adottabili in poesia: i rimandi e i richiami a opere proprie o di altri, l’estro sperimentale nel disporre visivamente l’elemento verbale nella pagina, l’arguzia che scompiglia in agile salto il panorama semantico del verso, smantellando, come nella «collocazione dei nomi» di Costa, ogni automatismo induttivo; nondimeno sa essere lieve, accorta la poesia, quando evita la barbarie, le grossolane incompetenze del dire troppo e male, e si pone gentile come sintassi tra le cose, illuminandone le relazioni, con delicata sapienza.
Le dichiarazioni programmatiche di stile o contenuto, sembra voler rammentare il poeta, tra inane citazionismo, ostentazioni morali, perbenismi e furbizie lessicali, si rivelano goffe e irrilevanti, inutili a veicolare un messaggio che aneli a esser franco, potente, idoneo mediatore di complessità: «È una questione di tatto, piuttosto: / mettere la mano nel verminaio / aprire i pori, dimenticare».

Citazioni e rimandi sono di aiuto nel fare, della pagina, una dimora di significati: è così che il poeta sceglie di ridursi a parziale ospite del proprio testo: opera musiva che, con le voci in visita, s’arricchisce, s’innalza; mentre l’autore, dei numerosi e multidirezionali vettori di forza, diviene risultante: si moltiplica e cede spazio, elevandosi: teso e assottigliato connettore, tende a zero e a infinito, ospitando la molteplicità, ma senza disciogliersi in essa.
Guglielmin, questo va detto, è poeta di forma essenziale, stillata; nondimeno, rizomatico nel pensiero: secondo quella suggestione tutta zanzottiana di libertà che, in Sovrimpressioni (Andrea Zanzotto, Mondadori 2001) faceva delle diramazioni erbacee, delle ramificazioni infestanti un simbolo di evasione, almeno morale, dall’aritmetica della produzione.
Il rizoma, con il suo premere orizzontale e ramificato, sovverte l’idea di spazio striato come ripartizione razionale orientata all’intento, in favore di uno spazio liscio fluido, complesso e mutevole, naturale; pensiero che riporta a Deleuze e Guattari (Millepiani: Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi 2010), laddove la botanica, col suo essere interamente rizomorfica, rappresenta efficacemente quella filosofia in grado di stabilire nessi fecondi in ogni direzione, tenendo fede al composito e al molteplice che è proprio dello stato nativo, del naturale non vincolato.
E, in effetti, Deleuze è apertamente evocato, ma in una riflessione sullo scrivere pressoché antitetica, dove è proprio il rizoma a farsi percorso-dispositivo-attitudine che, nelle continue derivazioni, smarrisce il cammino: «in debito d’ossimoro (o d’aria o soggetto) nel bulbo dell’evento / sperperare quando la talpa-tenebra percorre tutti i buchi / e fa la parola presta, molto». Un’immagine variegata, arborescente, in equilibrio sul giudizio, che delinea tuttavia l’ombra del dispositivo in una scrittura che preme incontrollata, che dirama in radici aeree e diviene anche, a tratti, anemica di senso, o ne assume di momentanei; e rimane comunque, per il poeta, l’alternativa di un’opposta disciplina, di astensione, di ritorno alla concretezza del vivere, che ridia la giusta proporzione al valore delle cose: «Se scrivo una poesia al mese e muoiono / un milione di esseri al minuto, l’argine che la parola / mette, mente, non serve a niente. // Se scrivo un milione di poesie al minuto, meglio / smettere: è solo un moto compulsivo, una mia / malattia morale». Dunque, nel perenne fluire delle esistenze e delle azioni, se ognuno è superfluo quanto imprescindibile, sta al singolo, pur in un’esistenza che ci delimita in orizzonti oscuri, «tra neri ratti e sangue nei forconi» (come in Seanus Heaney), il ridarsi quotidianamente in premura e assenso: con il proprio transitorio, inessenziale contributo, donarsi in nuova creazione: «amare quel buio infetto, rifondare».
Se la comunicazione è difficile, tra umani incalzati di allarmi che, cercando «rimedi all’estinzione» «si fanno guerra imbavagliati», la poesia è una fenice. Ancorché preceduta da millenni di già detto, se pur talora materia collosa, opaca, non ancora mondata dall’amnio e dalla doglia che le danno il varco, la poesia rinasce al mondo, quasi residuo, gravità di «neve sporca sui rami», che ne provoca lo «scuro deviare che gemma / quando vorrà». C’è «attesa e disgelo» dice il poeta, c’è un suo «crescere di bocca in bocca» ed è un’immagine aurorale, potente, di umanità unificata in lingua madre, in unico afflato, che è sete di significati rinnovati, aurei, lucenti.
La poesia, come essenziale meditazione dell’uomo su sé stesso, introduce alla seconda sezione: Dispositivi della salute, in cui numerose suggestioni riprendono vie tematiche di Caproni, Sereni, Houellebecq, Montale, Bernhard, Leopardi; e, all’ombra di Sofocle, nel tempo sincronico di una Tebe edipica arcana, eternamente presente, l’allegoria di un tragico umano interminato.
Guglielmin dona aperture su numerosi aspetti dell’esistenza, a volte centrato, nitido; a volte sdoppiandosi in ironia: la ciclicità del vivere, nella perenne trasfigurazione del fluire da linea a cerchio, da cerchio a spirale; il numeroso continuo deviare, errare, rioffrendosi al mondo in «parto misericordioso», in avvenire come «lussazione del tempo» mediante il dispositivo «risolutorio» dell’assoluzione; gli interrogativi religiosi, che incarcerano l’uomo in filosofie come cattedrali, il nichilismo sereniano della fine, nel suicida che è «uno nessuno che non conta / niente»; quel «nulla nessuno in nessun luogo mai» che ci attanaglia, ma che viene normalizzato, già in Sereni, da evento tragico, individuale ad accadimento nel flusso, mediante i dispositivi dell’archiviazione: il «pennino dello scriba», la «pagina frusciante» la «polvere d’archivi» che riportano ogni cosa a ordine e oblio.
Ma Guglielmin va oltre, e guarda negli occhi l’osceno della morte, il «pasto funereo» di «mosche, larve, batteri», «l’ingegno taciuto della cura» che viene riservata ai nostri morti «per ridarci l’amore nostro / intatto, senza odori, prima di chiudere la cassa / e di nuovo, scucire per noi, ignari, dall’angelo / l’osceno».
Ecco che il dispositivo in Guglielmin diviene un concetto sempre più preciso: ausilio, metodo, facilitazione; talvolta difesa, salvaguardia, accudimento; ma anche matrice, che agisce col suo conio a ritroso, in modo tutelare, diminutivo, riducente. Perché, come accade nella genitorialità, ciò che protegge sottrae, in parte, alla pienezza del vero, e rende indifesi, potenzialmente feriti: «Un sorriso placentare, che ti regala mamma / e tu regoli a tempo, a sedativi».
Anche la scrittura, persino la poesia, se utilizzata come mezzo terapeutico, è un ingannevole dispositivo: attraversando la distanza che separa la psiche dalla sua quiete, si rilascia in un linguaggio dalla «metafora pedante», dalla «parola malata, introflessa» che porta in sé il peso dell’essere che ancora ama sé stesso. Lo scrivere in tal modo non guarisce, anzi «alimenta / l’intrigo, ammalia come Medusa». Lo stile, diceva Cristina Campo, è «vittoria sulla legge di gravità», che oltrepassa il proprio greve sentire per giungere alla «casta, asciutta attenzione».
Sorprende, in Guglielmin, un certo discorso di genere, che sembra appena polarizzato in favore del femminile: nella decadenza tardo-imperiale che ci affligge, l’uomo sembra più smarrito della donna, benché entrambi fuori baricentro. Ma conserva, il principio femminile, quella passività florida, accogliente, che è madre di vita, possibile fonte di una palingenesi che, se data, sarà spaccatura sanguinante, riarsa in splendente ustione: «Esce del sangue dalla tua vagina, esce del / mondo, un rivo che ci mette in salvo, nel bene / della specie. Rompe quel cerchio, l’asciutto / della pertica, che pesca dall’ignoto, lo indora, / delineandone la via. Moriremo arsi dal lindore». Così, l’eco di testi antichissimi: «Lo spirito della valle (non) muore; questo si chiama la Femmina Oscura. La porta della Femmina Oscura, questa si chiama la radice del (Cielo) e della Terra. È continua come vivesse, è usata e non si affatica» (Lao-Tzu. Il libro della virtù e della via, a cura di Lionello Lanciotti, SE 1993).
Ecco che Guglielmin, intellettuale vasto, teneramente vigile, affilato, pure non è lontano dai varchi della più alta spiritualità; estasi mistica che ha in sé l’inquieto, il perturbante, a un tempo si mantiene golosamente candida: «Ha le convulsioni, spesso, o il Demonio / dentro, con la scabrosa e l’orrida / a farle da ancelle. Oppure indossa / la potenza distruttiva del cavallo […] Indifesa / la strepitosa viene, bianca da far voglia».
Il poeta ha, anche qui, mano lievissima: lascia che le cose si dispieghino in potenza, tenendole sul palmo, spesso chiudendo le liriche con un lieve motteggio. Matrice sua peculiare, un «sublime» nell’ossimoro tra tema e tono, uno schilleriano «contegno», una resistenza morale che accantona di lato il profluvio emotivo, stagliandosi ortogonale, in sorridente lucore.
Questo accade in molte liriche, come quelle che riducono alcuni eventi ed emozioni al loro neuromediatore, o quando il poeta sembra prendere distanza dall’amaro sarcasmo del secondo Montale, o dalle cupe meditazioni di Bernhard, per scegliere, tutto considerato, cieli sereni, affetti e sentieri di montagna: ecco il sapere dell’uomo colto, che attraversa la conoscenza e filtra, mette da parte il residuo avvilito, respira nonostante.
In una realtà sociale afosa, in cui i dispositivi sono il canone, accerchiati da un dibattito culturale vacuo e conflittuale, spintonati dalla sistematica narrazione della paura, sospinti da impulsi neuroendocrini atavici, ci si può isolare in stanze di palazzo, fingendo l’ordine di un ancien régime che accondiscenda alle nostre pavide strutture mentali; oppure prendere coscienza che c’è, all’esterno di questo arroccarsi, nel dispiegarsi del concreto quotidiano, un universo complesso, dove ogni cosa si rovescia nel suo opposto, in assenza di assunti stabili e di fondate, rassicuranti certezze. Ed ecco che, da un quadro esistenziale caotico, in cui si fanno compravendita oggetti dell’immaginazione e situazioni surreali: «Prego la Vergine Maria di spostare il piede. / Cerco angelo con vertigine per gita subacquea. / Scambio collera di Amleto con collirio e ghetto / con gatto, gitto con altro verbo arcaico», il poeta dà l’idea di voler planare alla resa, al commiato: «Compro sentenza d’assoluzione o scambio / con la fine di questo incanto. Cedo la parola».
Ma se ancora, del saggio taoista si dice che: «(tempera) la sua brillantezza, uguaglia la sua polvere, smussa le sue cose affilate, dipana le sue cose imbrogliate: questo è detto il misterioso accordo», ebbene Guglielmin non ristagna, ma sempre si risolleva in spiraglio, in fenditura: docente di mestiere, non elargisce un dettato rigido ma, al cospetto dell’altro, di fronte allo stesso studente, si pone in dialogo: «Prendi un corpo, chiamalo studente, prendi una mente / prendi una griglia, spezza il corpo e la mente. […] Oppure prendi la mano / da’ spazio alla sua mano, fa’ una pausa, poi, e lascialo parlare, / siediti al banco, impara».

E così, riposti i dispositivi, spoglio di sovrastrutture e pregiudizi, tra attenzione e spontaneità, tra l’esser nudamente autentico, distratto in percezione, e l’essere inquadrato in ragionamento, il poeta non professa, non pretende, ascolta: «Senza dispositivo, sedersi / vedendo, nella gran nuvola che passa, / la gran nuvola che passa, e le due virgole, / una in testa e l’altra in coda. Stare seduti / sullo scarto tra il corsivo e il tondo».
Tra il corsivo e il tondo, tra enfasi e normalità tra loro in osmosi, nel decoro di un annuncio pacato, in un amor fati brioso e quieto, la mente tenta la libertà: osserva, accoglie i segnali in nudità ed essenza, e costantemente si ridispone a quella lealtà intellettuale che è anticamera casta, superba di ogni umana innocenza.

da Dispositivi (Marco Saya 2022)

 

Serotonina

Dici: sto bene, le cose mi vanno bene, non ho bisogno di niente,
sono in pace con me stesso. Credi che dipenda da come sei,
da come sono le cose, dal modo in cui tu e le cose state insieme.
Se sei felice invece, per dirla senza antifona, è grazie al triptòfano,
una linfa benedetta da cui sboccia un alcaloide detto del buongiorno.

Il paradiso è un’isola di cioccolato senza rischi iperglicemici
e Dio è femmina, col suo nome tonico, da bambina: Serotonina.

 

Punto cieco

Ami guardare fuori, gli astri
le scolopendre, il tre per due con cui
misuri il qui è il là, il conveniente. La tua
è una sincera inclinazione a osservare gli altri,
dalla tua posizione o disperazione, da dove
puoi smarcarti per non guardare dentro,
lo sconveniente.

 

Caterpillar

L’ermo colle, dice, sarà spianato
dalle ruspe. Lui vede lontano: finisce
l’orizzonte con la biro e prevede,
per noi, un controllato naufragio.

Da ogni lato, tecnici piantano chiodi
e un pugno di tracce da seguire:
il futuro cresce sugli assi cartesiani
su siepi-silvie rase al suolo. Tace l’assiolo.

 

Stefano Guglielmin è nato nel 1961 a Schio (VI). Laureato in filosofia, insegna lettere presso il locale liceo artistico. È membro della Società filosofica Italiana e fa parte dell’associazione culturale Anterem. Gestisce il blog di poesia italiana contemporanea «Blanc de ta nuque». Ha pubblicato le sillogi Fascinose estroversioni (Quaderni del gruppo «Fara» 1985), Logoshima (Firenze libri 1988), come a beato confine (Book editore 2003), La distanza immedicata /the immedicate rift (Le Voci della Luna 2006), C’è bufera dentro la madre (L’arcolaio 2010), Le volpi gridano in giardino (CFR Edizioni 2013), Maybe it’s raining. Poems 1985-2014 (Chelsea Editions 2014), Ciao cari (La Vita Felice 2016) e i saggi Scritti Nomadi. Spaesamento ed erranza nella letteratura del Novecento (Anterem 2001), Senza riparo. Poesia e finitezza (La Vita Felice 2009), Uno sguardo (dalla rete) sulla poesia italiana contemporanea voll. 1 e 2 (Le Voci della Luna 2011, Dot.com Press 2016), Le vie del ritorno. Letteratura, pensiero, caducità (Moretti & Vitali 2014) e La lingua visitata dalla neve. Scrivere poesia oggi (Aracne editrice 2019). È inserito in alcune antologie, fra le quali Il presente della poesia italiana, a cura di C. Dentali e S. Salvi (LietoColle 2006), Dall’Adige all’Isonzo. Poeti a Nord-Est, a cura di A. Ramberti (Fara 2008), Caminos del agua. Antologia de poetas italianos del segundo Novecientos, a cura di E. Reginato (Monte Avila 2008), Dizionario critico della poesia italiana 1945-2020, a cura di M. Fresa (Società Editrice Fiorentina 2021). Suoi saggi e poesie sono usciti su numerose riviste italiane ed estere e su siti web. È stato tradotto in inglese, spagnolo e bulgaro. Ha pubblicato anche racconti; l’ultimo in AA.VV., L’occhio di vetro. Racconti del Realismo terminale, a cura di D.M. Pegorari (Mursia 2020).

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