In collaborazione con la rivista messicana Circulo de Poesia

Dalla prefazione di Mario Bojórquez

Una delle figure plastiche più impressionanti nell’opera di Eduardo Lizalde è la mutilazione e la lacerazione, come  nella poesia 3 del “Ritratto parlato della fiera”, dove dice “che l’amore era una fiera lentissima: / mordeva con le zanne zuccherate / e addolciva il moncone nello staccare il braccio.”, o nella poesia “Bellissima” di La zorra enferma dove afferma: “Se fosse solo un poco meno bella, / se avesse solo un piccolo difetto, / un dito mutilato ed evidente”. E più avanti insiste: “e mi dispero volendo capire / che anche se mutilata sarebbe ancor più bella / come certe statue”.
Il riferimento messicano a quest’uso poetico in cui si uniscono bellezza e mutilazione lo possiamo trovare  in una bella poesia, “Delicta carnis”, di Amado Nervo, dove il poeta di Nayarit si duole pregando per la sua anima che si perde fra i tormenti della passione carnale, respinge l’Afrodite impura per raggiungere la calma dei giusti, ma nei suoi sogni spaventosi, la Venere di Milo lo insegue: “E non trovo speranza, né rifugio né asilo, / e nelle mie notti, piene di febbrili chimere, / mi insegue l’immagine della Venere di Milo, / con i suoi lattei monconi, col suo volto tranquillo / e le curve trionfali dei suoi ampi fianchi.”
La poesia di Eduardo Lizalde ha tracciato una linea di estrema bellezza e orrore nella poesia iberoamericana, dal suo primo libro La mala hora del 1956 fino a Algaida del 2004. La sua opera è stata raccolta in volumi singolarissimi come le prose del Manual de flora fantástica del 1997 o l’elegia Tercera Tenochtitlan del 1983. Questi libri e altre poesie sparse sono state poi riunite in Nueva Memoria del Tigre del 2005.
Quando leggiamo una poesia, leggiamo anche di nuovo l’uomo nella sua semplicità, nella modesta convenzionalità non eroica dei suoi infiniti atti, leggiamo in quel verso la stessa pulsione che ha governato il battito dell’aedo, e leggiamo il poeta futuro, quello che ritornerà a cantare con nuovi accenti le melodie antiche. Quando ci avviciniamo all’opera di un poeta vero, come Eduardo Lizalde, ci avviciniamo alla storia dell’anima umana.

da Tutto l’amore è sogno (La Vita Felice 2021)

Poesia dell’acqua dolce

Il vecchio guerriero Achille
era un uomo invulnerabile
ma uno dei suoi talloni
era debole; il resto
del suo corpo assomigliava
a un’armatura di carne,
una conchiglia che lo faceva
sembrare una tartaruga;
e poi, siccome il guerriero
era veloce nella corsa,
Achille era come un misto
di lepre e tartaruga.

Nella carne dei poveri
non solo il tallone è fragile:
essi hanno tutto il corpo
costruito con talloni;
la fame li può ferire
ovunque, perché non hanno
la corazza di Achille:
sono lenti come tartarughe,
vulnerabili come lepri.

Ma non sempre il ferro deve vincere.
Gli scogli hanno fatto all’acqua tanti tagli
da renderla più liquida, più dolce,
le hanno lasciato la pelle così debole
che è molto facile ferirla:
La lingua del cervo ferisce l’acqua
senza neanche sanguinare,
un solo sguardo indifferente
penetra per diversi metri nell’acqua
più torbida;
ma, a poco a poco, l’acqua
schiumosa e repentina come un cane feroce
fa fuggire gli scogli dall’oceano
fino alla costa,
li arrotonda e li leviga perché le loro punte
non mordano nessuno.

Poema del Agua Blanda

El viejo guerrero Aquiles,
era un hombre invulnerable,
pero uno de sus talones
era débil; lo demás
de su cuerpo semejaba
una armadura de carne,
una concha que lo hacía
parecerse a la tortuga;
y además, como el guerrero
fue un rápido corredor,
Aquiles era una mezcla
como de liebre y tortuga.

En la carne de los pobres
no sólo el talón es frágil:
ellos tienen todo el cuerpo
construido con talones;
por todas partes el hambre
los puede herir, pues carecen
de la coraza de Aquiles:
lentos son como tortugas,
vulnerables como liebres.

Pero no siempre el hierro ha de vencer.
Las rocas han dado al agua tantos cortes,
que la han hecho más líquida, más blanda,
han dejado tan débil su epidermis
que es muy fácil herirla:
la lengua del venado hiere el agua
sin siquiera sangrar,
una sola mirada indiferente
penetra varios metros en el agua
más turbia;
pero, a la larga, el agua,
espumosa y repentina como el perro bravo,
hace huir a las rocas del océano
hasta la costa,
las redondea y las pule para que a nadie
muerdan sus filos.

(Da La mala hora, 1956)

*

E io dico alla roccia:

su, roccia, intenerisciti,
risvegliati, stiracchiati,
passa il ponte del regno,
sii te stessa, sii mia,
dimmi il pietroso nome
di roccia appassionata.

E non me lo sa dire,
Non c’è uno spillo di labbra
nel suo corpo senza volto.
Ma io so il suo nome:
roccia, le dico,
e inizia a intenerirsi.

Ma la parola roccia non viene dalle rocce.
La parola è più densa della roccia,
spacca la roccia, è il barbaglio di luce
armato, che conosce la sua immagine,
è l’acqua intenerita da quello che riflette.

È vero, la parola viene dal poeta.
La parola roccia
non è figlia del marmo,
e non viene dall’uomo, così come l’uccello
fa immaginare di essere l’invenzione dell’albero.
Il mondo del poeta
non concede il suffragio
neanche alle più alte rocce.
Ma il mondo senza rocce del poeta
pur proviene dal mondo della roccia.

Y le digo a la roca:

muy bien, roca, ablándate,
despierta, desperézate,
pasa el puente del reino,
sé tú misma, sé mía,
dime tu pétreo nombre
de roca apasionada.

Y no sabe decirlo,
no cabe un alfiler de labios
en su cuerpo sin rostro.
Pero yo sé su nombre:
roca, le digo,
y comienza a ablandarse.

Aun la palabra roca no viene de las rocas.
La palabra es más densa que la roca,
resquebraja la roca,
es el cardillo armado, que sabe de su imagen,
el agua enternecida con lo que refleja.

Es cierto, la palabra viene del poeta.
La palabra roca
no es criatura del mármol
y no viene del hombre a la manera
que el pájaro aparenta ser invención del árbol.
El mundo del poeta
no concede el sufragio
ni a las más altas rocas.
Pero el mundo sin rocas del poeta
procede, en fin, del mundo de la roca.

(Da Cada cosa es Babel, 1966)

*

C’è un tigre nella casa

che lacera all’interno chi lo guarda.
Ha solamente artigli per colui che lo spia,
e solo può ferire all’interno,
ed è enorme:
più lungo e più pesante
di altri grossi gatti
e predatori pestiferi
della sua specie,
e con facilità perde la testa,
odora il sangue anche attraverso il vetro,
dalla cucina fiuta la paura
nonostante le porte più robuste.

È di notte che cresce:
mette la testa di tirannosauro
sopra un letto
col muso che gli pende
ben oltre le coperte.
Il dorso si dilata per tutto il corridoio,
da parete a parete,
e solo arrivo al bagno strisciando sul soffitto
come attraverso un tunnel
di fango e miele.

Non guardo mai l’alveare solare,
i favi anneriti dal crimine
dei suoi occhi
i crogioli di saliva avvelenata
delle sue fauci.

Non lo annuso neppure
affinché non mi uccida.

Però so chiaramente
che c’è un immenso tigre segregato
in tutto questo.

Hay un tigre en la casa

que desgarra por dentro al que lo mira.
Y sólo tiene zarpas para el que lo espía,
y sólo puede herir por dentro,
y es enorme:
más largo y más pesado
que otros gatos gordos
y carniceros pestíferos
de su especie,
y pierde la cabeza con facilidad,
huele la sangre aun a través del vidrio,
percibe el miedo desde la cocina
y a pesar de las puertas más robustas.

Suele crecer de noche:
coloca su cabeza de tiranosaurio
en una cama
y el hocico le cuelga
más allá de las colchas.
Su lomo, entonces, se aprieta en el pasillo,
de muro a muro,
y sólo alcanzo el baño a rastras, contra el techo,
como a través de un túnel
de lodo y miel.

No miro nunca la colmena solar,
los renegridos panales del crimen
de sus ojos,
los crisoles de saliva emponzoñada
de sus fauces.

Ni siquiera lo huelo,
para que no me mate.

Pero sé claramente
que hay un inmenso tigre encerrado
en todo esto.

(Da El tigre en la casa, 1970)

*

Bellissima

E se uno di quegli angeli mi stringesse
d’improvviso al suo cuore
soccomberei affogato
dalla sua forte presenza.
RILKE, di nuovo

Bellissima, mi ascolti,
non sopporto il suo amore.
Mi guardi, osservi come
il suo amore mi nuoce e mi distrugge.
Se fosse solo un poco meno bella,
se avesse solo un piccolo difetto,
un dito mutilato ed evidente,
un qualcosa di aspro nella voce,
un taglietto vicino a quelle labbra
di frutto in movimento,
una qualche lentiggine nell’anima,
con un brutto ritocco impercettibile
nel sorriso…
io potrei tollerarla.

Però la sua crudele bellezza è implacabile,
bellissima;
non c’è fronda in riposo
per la sua luce acuta
di stella sempre in fuga
e dispero di capire
che anche se mutilata sarebbe ancor più bella
come certe statue.

Bellísima

Y si uno de esos ángeles
me estrechara de pronto sobre su corazón,
yo sucumbiría ahogado por su existencia
más poderosa.
RILKE, de nuevo

Óigame usted, bellísima,
no soporto su amor.
Míreme, observe de qué modo
su amor daña y destruye.
Si fuera usted un poco menos bella,
si tuviera un defecto en algún sitio,
un dedo mutilado y evidente,
alguna cosa ríspida en la voz,
una pequeña cicatriz junto a esos labios
de fruta en movimiento,
una peca en el alma,
una mala pincelada imperceptible
en la sonrisa…
yo podría tolerarla.

Pero su cruel belleza es implacable,
bellísima;
no hay una fronda de reposo
para su hiriente luz
de estrella en permanente fuga
y desespera comprender
que aun la mutilación la haría más bella,
como a ciertas estatuas.

(Da La zorra enferma, 1974)

*

Boscaglia

Ô Nature, ô ma tante!
(A. Rimbaud)

La Terra, questa testa di un titano sgozzato.
Di forme, vita, vuole parlare l’animo,
che in nuovi corpi si mutano.
Tempesta burrascosa, uragano del tempo,
soffia sulle nostre ossa,
inodore, aspro vento sottocutaneo, impercettibile,
ugualmente impalpabile, un battito e un passaggio
d’invertebrato tuono.
Treno silenzioso di sabbia senza ferrei binari,
senza convoglio, senza materia.
Mi trascina, boscaglia, fisso verso ponente,
a granello a granello, corpuscolo a corpuscolo
‒polvere in piedi finissima che siamo‒
per ricostruirmi in un altro punto, età e ora
e in un ordine identico soltanto in apparenza.

Alle spalle la traccia, la nana cordigliera
delle indistinte dune che noi fummo,
gialle e pietrificate, dune morte
del brumoso, remoto o del recente esistere.
Sull’alto della spalla guardo tornare immagini
dell’esteso sentiero che ho percorso.
Raffiche repentine di una materia molto diluita.
Candide nubi altissime che riposano sopra
azzurre colonne,
prodighi dei o navi gigantesche
che sembravano abbattersi sopra l’orto rurale.
Territorio magnanimo del verdeggiante verde;
il frondoso limone che è soltanto un arancio
a cui s’inacidì il carattere,
sempre al centro tutelare del giardino,
gli aciduli e perfidi cotogni,
le bibliche mele gongorine d’ipocrita rossore
e le intruse e pallide perucce
‒ di genetica stirpe bastarda e giardiniera,
umana e puritana ‒, di anemica epidermide,
il prestigioso fico leggendario
di Romolo, il divino primo re,
di bianco sangue e gran fogliame mendicante e palmare;
il bambù, ferro verde, e i ligustri in fila militare
che fiancheggiano l’erba e i minuscoli seminati
di geometrico smeraldo,
i mazzi di campanule viole che aspettano
il sempre assente campanaro pigmeo;
la violacciocca selvatica e bianca, dal rustico profumo,
che si vantava d’essere un altezzoso giglio
tra le citrine e tra le grezze tife.
E quell’albero antico che soffriva come un cane, don José,
piantando nell’inferno gli artigli intirizziti,
come la sua ceiba con spaventosa angoscia
di tabaschegna* scultura.

All’orizzonte, la tagliente ossidiana
levigata fino all’osso di una sotterranea lucentezza
vive il silenzio più puro
nella penombra del suo preistorico verde ramarro.
Assoluto tacere incapsulato nell’ampolla
di rocciosa voluta cristallina.
Murato mondo, ferroso frutto del tempo immemoriale,
e punto morto, sdrucciolevole luce imbalsamata,
cuore ardente della montagna immobile
e salda calamita degli uccelli necrofagi più alti.

Nel giardino si fa più nera nel goloso mezzogiorno
la breve ombra di ogni pera che matura.
È andata via la notte lasciando le sue orme,
quelle tracce profonde di pesante animale
sotto la planetaria volta
ai piedi delle creature e delle cose,
sotto le fronde, le valve, le radici.
Ancoraggi, piste, segnali, legature, ormeggi
della madre maggiore, della gran cieca
per il suo esatto e tenebroso ritorno quotidiano.

Sul far della sera ci sono meno foglie
che penne tra le fronde,
piene di volatili specie
nascoste ed eccitate in frenetico delirio,
contenendo il riso d’infantili ottoni
alla vista di umani trasgressori,
diceva quello della Terra desolata*.
Le selvagge innumerevoli legioni volanti,
indomabili e chiassose
che non rispondono ai nostri fischi
ma percepiscono forse i nostri canti
e nei giorni propizi ripetono nota per nota
la musica orchestrale di un registratore
o la correggono con dodecafonica e saggia
melodia ancestrale.
L’assoluto udito primigenio che ripara il disastro.
L’ultimo giardino della memoria,
un bosco tenero popolato dalle sue bestie placide
e dai suoi piccoli mostri:
gli scarafaggi laboriosi nel loro protervo
e sotterraneo eden,
e sulle travi legnose della vecchia tettoia,
i neri scorpioni dall’innocente puntura
ma rapida lancetta posteriore,
pernottando nel loro infimo cannibale vicinato.

*Dello stato messicano di Tabasco
* Celebre poemetto di T. S. Eliot

Algaida

Ô Nature, ô ma tante!
(A. Rimbaud)

La Tierra, esta cabeza de un titán degollado.
De formas, vida, quiere el ánimo hablar,
que a nuevos cuerpos se mudan.
Galerna, vendaval de tiempo,
sopla contra nuestros huesos,
inodoro, áspero viento subcutáneo, inaudible,
impalpable también, un solo pulso y paso
de invertebrado trueno.
Tren silencioso de arena sin férreos andadores,
sin convoy, sin materia.
Me arrastra, algaida, fijo hacia el poniente,
grano a grano, corpúsculo a corpúsculo
‒polvo en pie delgadísimo que somos‒
para reconstruirme en otro punto, edad y hora
y en un orden sólo en apariencia idéntico.

A nuestra espalda el rastro, la enana cordillera
de los borrosos médanos que fuimos,
amarillosos y petrificados, dunas muertas
del brumoso, del remoto o del reciente existir.
Por encima del hombro miro retornar imágenes
del difuso sendero recorrido.
Súbitas ráfagas de muy diluida materia.
Albas nubes altísimas que descansan sobre
azules columnas,
pródigos dioses o naves gigantescas
que parecían derrumbarse sobre el huerto rural.
Territorio magnánimo del verde verdecido;
El frondoso limón que no es más que un naranjo
al que se le agrió el carácter,
siempre al centro tutelar del jardín,
los aviesos membrillos acidosos,
las bíblicas manzanas gongorinas de hipócrita arrebol
y los advenedizos pálidos perones
‒de genética estirpe bastarda y jardinera,
humana y puritana‒, de anémica epidermis,
la prestigiosa higuera legendaria
de Rómulo el divino primer rey,
de blanca sangre y gran follaje mendicante y palmario;
el bambú, fierro verde, y los truenos en línea militar
que bordeaban la grama y los minúsculos sembrados
de geométrica esmeralda,
los mazos de campánulas moradas esperando
al siempre ausente campanero pigmeico;
el alhelí silvestre y blanco, de muy rústico aroma,
que la dragoneaba de altanero lirio
entre las cetrinas y toscas espadañas.
Y aquel árbol antiguo, que sufría como un perro, Don José,
clavando en el infierno sus garras ateridas,
como su ceiba con angustia espantosa
de tabasqueña escultura.

Al horizonte, la filosa obsidiana
pulida hasta su hueso de subterráneo brillor
vive el silencio más puro
en la penumbra de su prehistórico verde lagarto.
Absoluto callar encapsulado en la ampolla
de rocosa voluta cristalina.
Tapiado mundo, ferroso fruto del tiempo inmemorial,
y punto muerto, escurridiza luz embalsamada,
encendido corazón de la montaña inmóvil
y firme calamita de los más altos pájaros necrófagos.

En el jardín se hace más negra al mediodía goloso
la breve sombra de cada pera que madura.
Partió la noche, pero dejó esas huellas,
esos rastros profundos de pesado animal
bajo la planetaria techumbre
al pie de las criaturas y cosas,
bajo las frondas, las valvas, las raíces.
Anclajes, pistas, señales, ataduras, amarras
de la madre mayor, de la gran ciega
para su exacto y tenebroso regreso cotidiano.

Al filo de la tarde hay menos hojas
que plumas en las frondas,
pletóricas de especies pajariles
ocultas y excitadas en frenético delirio,
conteniendo la risa de infantiles metales
a la vista de humanos trangresores,
decía el de Tierra Yerma.
Las salvajes innúmeras legiones voladoras,
indomeñables y estruendosas
que no responden a nuestros silbidos
pero acaso perciben nuestros cantos,
y repiten por nota en días propicios
la música orquestal de un tocacintas
o la corrigen con dodecafónica y sabia
melodía ancestral.
El absoluto oído primigenio que repara el desastre.

El último jardín de la memoria,
un bosque niño poblado por sus bestias apacibles
y sus pequeños monstruos:
los escarabajos laboriosos en su protervo
y subterráneo edén,
y en las vigas leñosas del viejo cobertizo,
los negros alacranes de inocente picadura
pero rápida lanceta posterior,
pernoctando en su ínfimo caníbal vecindario.

(Da Algaida, 2004)

Eduardo Lizalde (Città del Messico, 1929) è considerato uno dei grandi poeti messicani del XX secolo. Ha occupato diversi incarichi culturali. È stato direttore della Casa del Lago dell’Università Nazionale Autonoma del Messico (UNAM), direttore generale di Pubblicazioni e Mezzi di comunicazione della Segreteria di Educazione Pubblica, e direttore d’Opera dell’Istituto Nazionale di Belle Arti. Attualmente dirige la Biblioteca Nazionale del Messico. Fra i suoi libri, ricordiamo: La mala hora (1956), Cada cosa es Babel (1966), El tigre en la casa (1970), La zorra enferma (1974), Caza mayor (1979), Tabernarios y eróticos (1989), Rosas (1994) e Otros tigres (1995). Ha riunito la sua opera poetica in Nueva memoria del tigre. Poesía 1949-2000 (Fondo de Cultura Económica, Città del Messico, 2005). Nel 1984 gli è stata concessa la borsa di studio della Fondazione John Simon Guggenheim. La sua opera ha ricevuto diversi premi e riconoscimenti, come il Premio Xavier Villaurrutia nel 1969, il Premio Nazionale di Poesia Aguascalientes nel 1974, il Premio Nazionale di Linguistica e Letteratura nel 1988, il Premio Iberoamericano di Poesia Ramón López Velarde nel 2002, la Medaglia d’Oro di Bellas Artes nel 2009 e il Premio di Poesia Federico García Lorca nel 2013. Tutto l’amore è sogno (La Vita Felice 2021) è a cura di Cinzia Marulli e Mario Meléndez, traduzione di Emilio Coco, prefazione e selezione di Mario Bojórquez.

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