Fotografia di Dino Ignani

Tre opere (Oèdipus 2009) di Florinda Fusco racchiude quasi un decennio di produzione poetica, condensata in tre libri, appunto, che fotografano il compimento della prima maturità dell’autrice. Si tratta dell’esordiale Linee (Zona, 2001), del poemetto-fiume Il libro delle madonne scure (Mazzoli, 2003) e de La Signora con l’ermellino, pubblicato per la prima volta in questo volume. È sintomatico che l’ordine cronologico delle opere sia stato invertito: dalla più recente alla più antica, a suggerire un movimento di scavo, di ritorno a un’origine. Dal canto loro, i testi sfuggono a un’impaginazione convenzionale, si stendono sul foglio come frammenti di un’esplosione, o si raggrumano e liquefano (è il caso delle Madonne scure) secondo un’estetica del flusso tra il cinematografico, il biologico e l’onirico.

In Linee domina uno stile denotativo e artaudianamente crudele. Il verso tende a coincidere con dettagli naturalistici o anatomici («il topo nella conca», «le dita nude dei piedi», «le calze / e le mosche / la tovaglia / e le mele»), con azioni elementari e quasi irriflesse («bacchettare sulle gambe», «estendere il corpo», «mordere il ribes») o con proposizioni semplici e pianamente descrittive («la gallina che corre non deve nascondersi»). La rastrematura del dettato richiama un senso di regressione, forse infantile, che il testo mima in vario modo. Oltre alle diffuse allusioni alla maternità, che fin dall’inizio è posta in rapporto analogico con il paesaggio («la terra rigonfia»), vi sono infatti, più pervasivi, riferimenti a una condizione semi-selvaggia, di rapporto immediato con il corpo e con l’esterno, che apre e problematizza la pur pressante dimensione domestica (da un lato, la ripetizione insistente del dettaglio dei «piedi nudi»; dall’altro, la presenza costante di animali da fattoria, come l’«asino» o la «gallina»). L’ambiente che questi testi franti e centrifughi stabiliscono, anche grazie a un uso freddo e calcolato di espedienti para-surrealisti, è insomma un ambiente familiare ma straniato, perturbante. Un ambiente infantile nel suo galleggiare tra veglia e visione, tra noto e ignoto.

Il libro delle madonne scure compie un salto in avanti, in direzione di un realismo più mimato che effettivo, e comunque sempre sull’orlo della disgregazione. Si tratta di un poemetto privo di sezioni, un unico flusso testuale che si dispone liberamente sulla pagina, formando blocchi, coaguli, o stendendosi in frammenti minimali. L’io poetico, che si rappresenta liminarmente in atto di addormentarsi («io mi addormento Madame tu ancora non cedere») nomina e descrive alcune presenze femminili («Katerine», «Elise», «Nicole», «Madame»), forse prostitute immigrate che abitano i margini di Parigi. Il flusso testuale, come un fiume tracimato, riporta a galla brandelli di vita vissuta, allusioni a un passato di violenze e di fughe («la barca è senza destinazione», «gli artigli della terra agganciano il corpo»), ed è puntellato anaforicamente dalla particella versale «ti ho visto», variamente declinata. Tema, quello della visione, che da iniziali connotati onirici o subnarcotici scivola, nella seconda metà, verso chiare allusioni mistiche, mantenendo il poemetto in uno stato di soglia in cui le identità si attraversano e si confondono. Il fragile realismo di alcuni passaggi, mutuato dal crudo descrittivismo di Linee, scivola così verso una magmaticità oniroide che non esclude, sul finale, richiami al mito o al sacro («e quando Erebo coprì Etere / chi lo illuminò?», «ho visto il Cristo con i piedi dolenti ho visto il fango che gli accarezzava i piedi»).

Infine, La Signora con l’ermellino conduce la poesia di Fusco verso la maturità. L’esito più evidente è una maggiore definizione narrativa: l’ambientazione è ora tutta domestica, mentre l’io-personaggio è facilmente identificabile come bambina o preadolescente. L’infanzia, che ritorna tema centrale, è qui descritta come luogo di transito, anche e soprattutto in senso medianico. Ingombrante è infatti la presenza dei «morti», intesi allegoricamente come memoria che non deve essere perduta («le mie briciole sono le parole dei morti perse al suolo»), che bisogna traghettare oltre la «porta di sangue» dell’età adulta. Liminarità, ancora una volta, ma come condizione che, più che in passato, proprio perché associata a un ambiente narrativo maggiormente definito, produce un asfissiante senso di stallo, enfatizzato da immagini perturbanti e ossessive come quella dell’orologio assente. Tra le molteplici presenze che attraversano questa raccolta (cui non va escluso un proteiforme «tu») vi sono soprattutto le due, in apparenza antitetiche, della «Santa» e della «Signora con l’ermellino», che compaiono ciclicamente come a indicare una frattura tra sacro e quotidiano, dimensioni il cui ricongiungimento potrebbe risolvere lo stallo liminare (e la sacralizzazione del sé è chiaramente avvertibile verso il finale, in particolare nel testo 0.32: «io Maria Maddalena Maria l’Egiziana Maria sorella di Moïse sposa di / Caleb», «sono Melusina / et Santa Veronica»).

Con Florinda Fusco si è in presenza di una poesia colta e finemente architettata. Una poesia del dettaglio cesellato, ma anche del flusso onirico-vitalistico, imbrigliato e controbilanciato da ricercate strategie di raffreddamento. Si accennava, poco sopra, a espedienti para-surrealisti: il nome, o nume, alle spalle di queste scritture, è forse Amelia Rosselli, e il suo analogismo crudele, ragionato. Rosselli, certo, ma anche Edoardo Cacciatore: due maestri dello sperimentalismo novecentesco che, non a caso, Fusco ha variamente frequentato in sede critica. Mutuando dall’una, con le parole che lei stessa utilizza nella sua monografia rosselliana, la ricerca sulle cosiddette «immagini mentali» e sul «corpo-coscienza» – direttrici, suggestioni, queste, ben presenti in tutto l’arco di Tre opere. Dall’altro, oltre che un’evidente, fine consapevolezza metrica, ciò che definisce, nel saggio cacciatoriano Verso il libro (Graphis 2008), un «pensiero-scrittura centrifugo e pluridirezionale». Un apprendistato, in entrambi i casi, volto a tenere vivo il fuoco di una sperimentazione mai estemporanea, anzi sempre sul filo, tesissimo, di una necessità espressiva ben radicata nell’esperienza vissuta.

da Linee (2001)

 

0.12

 

io non so dove sfocerà questo enorme fiume di catrame

con scatole e mollette e dentifrici se la mia testa contro

la tua diventerà un buio topo che squittisce o sandali

di legno da acquistare al mercato e quando usi le vocali

per vocali e i neuroni seguono i tuoi urti e quando urti contro il mio torace che si regge piano come

un ferro e quando il guscio è inserrabile e prometti che arriveranno i dromedari e racconti che sulle

scale troverò il re con le mie vesti invernali sulle braccia

 

non so ora qual è il terreno non so se il guscio

sarà duro o camminerà piano come il piede

i gonfiori nelle ginocchia

qual è il trono? qual è mai stato? e il dare si dà? o tutto esiste

nella diga della rete e nella lana   nel materasso della discarica nella coperta col terriccio l’insetto

urta ancora contro il dito la nota è nelle tre chiavi la peluria è cresciuta il piede pulsa

non vado

 

 

0.27

 

che il corpo galleggi su un’acqua rafferma

 

                                                                                           (che come è la pietra dentro

                                                                                                       il gesso da farsi le croci sulla fronte)

 

che il suolo raggrumi              o la radice si sfibri

 

                                              le erbacce tra le ginocchia

 

una gallina che fa le uova                che rompe la terra la pietra la terra

 

i piedi a croce

 

giocare a campana

 

da Il libro delle madonne scure (2003)

 

[…]

 

se tu senti che

l’arbusto non ha più sembianze

umane

(dimmi)

quando arginerai l’acqua stagna laverai i piedi nel catrame quanto la colpa è colpa le alghe sono

unghie quanto è leggero il tuo grembiule l’addome magro quando hai perso la creatura nello spazio

quando l’hai cresciuta e cosa le hai detto quanto l’ortica ha strisciato sul corpo quando i capezzoli

sono diventati carbone quando il giorno non è ancora finito quando il giorno è l’unico giorno ma se

tu senti

 

[…]

 

ti ho visto Madame in una stanza rosa

con luci al neon e grandi lenti scure

 

ti ho visto ancora in una stanza bianca ricoperta di plastica

 

ti ho visto in uno spazio liquido 12367

(ti ho visto con il coltello bianco in mano)

 

contare                                    il numero possibile

ti ho visto con l’ombretto giallo a brillantini sulle palpebre

 

[…]

 

ti ho visto nella vetrina dell’angolo avevi i capelli rosa vi ho visto con una fascia che raccoglieva i

riccioli il caschetto corto ho visto i ciuffi verdi gli strass vi ho visto con i capelli lunghi neri ti ho

visto con lo spray sulle onde castane

erano solo teste

 

[…]

 

Madame in questa valle di acqua e di sterpi

Misericordia è perduta

se la terra muovesse la terra per lasciare vedere

(l’uomo nella pancia dell’uomo)

bocche incementate bocche sbilenche

se la vergogna fosse la santità

se la santità fosse l’animale più feroce

prendi il polso mordine i cavi le vene le unghie

 

[…]

 

da La signora con l’ermellino (2009)

 

0.9

 

mi dissero che i morti                                                 assistono alle cerimonie

 

arrivano in punto                         sono sempre alle spalle

 

le donne hanno grandi cappelli                                                   e lunghi guanti blu

 

portano collane di grani bianchi                             intangibili come rosari

 

non si avverte il loro passo lieve

non si sente il loro non odore tra gli invitati

non si vede il loro piede scalzo sul marmo

 

                                   i morti camminano sulla terra

 

si mischiano tra i capelli

 

scivolano lungo il collo, tra le

costole, nelle vene, fino alle unghie del piede

 

il giorno                                                                  si posano sulla patina dei piatti

 

o nel fondo dei bicchieri

 

                                              in silenzio li beviamo

 

 

0.33

 

chiusa nella mia stanza               lontana da voci umane

 

ospito fantasmi

 

nel mio cassetto

c’è un bosco

dove vago per giorni interi

 

le farfalle ricamate sulle mie coperte

di notte volano sul corpo

 

nel mio armadio

nascosti tra i vestiti

ci sono spiriti

che ogni giorno alle cinque

indossano cappelli e prendono il thè

 

sul mio comodino

c’è un libro di Storia

 

mi racconta che fuori è ancora battaglia

 

la mia stanza è l’ora della tregua

 

Florinda Fusco nasce a Bari nel 1972. Poetessa, autrice teatrale, traduttrice e critica letteraria, esordisce con Linee (Zona, 2001), raccolta cui fa seguito Il libro delle madonne scure (Mazzoli, 2003). Entrambe vengono ristampate in Tre opere (Oèdipus, 2009), volume in cui compare anche l’inedito La Signora con l’ermellino. Altre sue opere di poesia sono Thérèse (Polìmata, 2011) e Film. Macchina della vista e dell’udito (La camera verde, 2017). Ha tradotto dall’argentino la poetessa Alejandra Pizarnik, vincendo, nel 2004, il premio nazionale di traduzione Bernard Simeone. Collabora con la compagnia di ricerca teatrale Opera. Come critica ha pubblicato i volumi Amelia Rosselli (Palumbo, 2007), Verso il libro. Scrittura e pensiero di Edoardo Cacciatore (Graphis, 2008), Calvino verso Borges (Cacucci, 2012), Figure femminili e scrittura religiosa tra Cinquecento e Seicento (Cacucci, 2017), e ha curato l’edizione critica del poemetto Tutti i poteri di Edoardo Cacciatore (Empiria, 2007). Inoltre, un suo saggio critico è apparso come postfazione al volume Tutte le poesie di Edoardo Cacciatore, a cura di Giorgio Patrizi (Manni, 2003). Suoi testi poetici e contributi critici sono stati pubblicati, in particolare, nell’importante antologia Àkusma. Forme della poesia contemporanea (Metauro edizioni, 2000), e nel recente volume collettivo Teoria&Poesia (Biblion, 2018), oltre che nelle riviste «il verri», «Poetiche», «Nuovi Argomenti», «Allegoria» e «L’immaginazione».

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