Poetica More Geometrico Demonstrata

Proposizione n. 1

Il principio di determinazione del poetico non è il contenuto bensì la forma. Il contenuto, o argomento, infatti, può essere qualsiasi cosa.

Scolio: da ciò discende necessariamente l’assunto che non esistono termini o parole o sintagmi o espressioni che debbono essere banditi dalla poesia. Non esistono “parole poetiche” e “parole non poetiche” o “impoetiche”: esiste lo stile che le determina.

Nella Gestalt, la forma afferisce ai campi semantici della percezione e dell’esperienza: lungi dall’essere considerabile come mero vestimento esteriore di un dato contenutistico, essa è l’essenza, il basamento estetico nonché il quid ineliminabile che informa il contenuto stesso, senza il quale il contenuto, secondo quanto dicevamo la scorsa volta, non si darebbe artisticamente che nel banale prosastico. Forma intesa non come mera tecnica, essendo la tecnica pertinente, piuttosto. all’aspetto retorico e figurale, nonché metrico o metodologico-espressivo del testo; bensì forma intesa sia come processo che come esito finale dell’atto pro-ducente, atto stesso del suo in-formarsi circolarmente, ovvero che pro-duce l’opera. Dico circolarmente, perché la forma non fa altro che produrre sé stessa, in una determinazione dialettica di condizione e condizionato, in una ostensione partoriente l’ob-jectum, ovvero il dato, l’oggetto, il pezzo d’arte via via formantesi e una volta formato: nel caso della poesia, il testo.

In una prospettiva filosofico-estetica, infatti, il fondamento estetico della poesia non è altro che la forma nell’atto stesso del suo farsi (nel momento stesso, insomma, in cui avviene il passaggio catalitico dall’informe -istante generante- alla forma -che fa coincidere a posteriori il principio a priori di determinazione del poetico con l’opera, l’oggetto d’arte in quanto pro-dotto, ovvero formato-), giacché il contenuto o la materia, secondo elemento della diade estetica forma/contenuto (che reduplica quella, teoretica, tra forma e sostanza), può essere davvero qualsiasi cosa. Questa forma si manifesta nel principio dell’analogia, come andremo a spiegare nelle prossime puntate della presente rubrica. Qui si noti, en passant, come venga finalmente spiegato l’abituale inganno della maggiore importanza attribuita spesso al contenuto rispetto alla forma nei fatti d’arte, almeno dalla critica di impostazione marxista in poi e, spesso, dal semplice fruitore dell’oggetto d’arte, spettatore o lettore che sia: il problema è che si scambia la materia (in senso estetico) con la sostanza (in senso teoretico), che tanta importanza ha invece in metafisica e nella storia della filosofia come fondamento e principium individuationis! Se ne deduca la differenza sostanziale (se mi si consente un gioco di parole) tra i principi dell’estetica e quelli della filosofia teoretica, che è davvero un altro campo di indagine.

Ma proseguiamo col discorso dell’estetica e, per ora, soffermiamoci sulla riflessione intorno alla forma, e su come essa comporti una serie di conseguenze apparentemente banali, ma affatto immediate. Una di queste, come scrivevo in un’intervista fattami da Gianluca Garrapa su Nazione Indiana tempo fa, consiste “tra l’altro” nella “impossibilità di escludere dal novero del poetico singole parole, espressioni, sintagmi ritenuti dai più accalorati avanguardisti come superati o disusati”. Perché?

Molto semplicemente, perché se il contenuto è indifferente, nel senso che in un testo poetico si può davvero parlare di qualsiasi cosa, allora a detenere reale valore poetico, ovvero artistico, è la forma che a quel contenuto gli si dà, ovvero, nel caso della poesia concreta, orale e visiva in altro modo formale: per l’appunto concreto, orale e visivo; mentre nel caso della poesia per così dire testuale, le parole per esprimerlo: e tutte. Questo vuol dire che non c’è una parola, un sintagma, un’espressione che possa essere bandita dal novero del poetabile: tutto sta a darle forma, una forma che esteticamente renda il testo poesia, elaborazione artistica di una materia ancora informe. Ciò è valido per i volgarismi, e ce lo insegna Dante che faceva fare ai diavoletti della Città di Dite “del cul trombetta”, ma vale anche per le parole considerate disusate della poesia lirica cosiddetta tradizionale, come vale per la volontà di osare propria dello sperimentalismo più spinto.

Affermare che tutto si possa dire in qualsiasi modo lo si voglia dire decostruisce dall’interno la normatività del linguaggio poetico e lo traduce in un sistema aperto, osmotico, in cui il linguaggio in senso esteso torna veramente al centro del dettato, di contro alle determinazioni categoriali d’uso. E con il linguaggio, finalmente torna al centro dell’indagine il testo in quanto tale, che allora andrà valutato in base a principi estetici e di critica testuale e stilistica, in una parola, dalla critica formale, laddove la forma informi il testo e, quindi, contesto e contenuto si diano al di fuori della mera banalità d’uso quotidiano. Facciamo qualche esempio.

Uno dei rischi storici della poesia civile è, per l’appunto, la prevalenza del contenuto (nella fattispecie, politico, sociale, attuale) sulla forma. Dato che le cose da dire sono ritenute dal poeta di turno socialmente ed epocalmente importanti, allora (molto spesso, ma non sempre) si bypassa la forma, che poi consiste in ciò che traduce un contenuto in un’opera d’arte, e la si massacra in nome dell’urgenza del dire. Esattamente come il rischio storico della poesia lirica consiste nell’indugiare su una forma tecnicamente connessa a determinati moduli e stilemi ripetuti e/o forzati, massacro della forma per abuso, e quello della poesia sperimentale consiste nella ricerca ossessiva della rottura di questi ultimi, massacro della forma in direzione della forma assoluta che trascende il significato, paradossalmente per opposizione all’abuso della forma stessa (tradizionalmente intesa).

Nelle poesie selezionate per esemplificare quanto detto, il testo di Alberto Pellegatta è tra quelli più dibattuti all’epoca dell’uscita di Ipotesi di felicità. Ci fu chi stigmatizzò l’uso del sintagma espressivo “avremo la felicità del capriolo” come un non-senso, una prurito lezioso, un lirismo becero. Il problema, casomai, può essere rintracciato nelle immagini slegate l’una dall’altra, che possono indurre fatica nel connettivo analogico, tale che eliminare mentalmente versi come “avremo la felicità del capriolo” e “la notte nebbiosa degli ortolani / trasporta cori di lupi intonati” non toglierebbe nulla alla forza del testo, che vive analogicamente in altro. Piuttosto, è qui da notare come l’opportunità di criticare quei versi non stia tanto nell’uso delle parole (“capriolo”, “ortolani”, “lupi intonati”), come fossero sintomo di un lirismo naturistico deteriore; proprio in quanto è virtù e dotazione del poeta poter usare le immagini e termini che più gli aggradano: quanto proprio nel fatto che, al limite, tramite essi non sembra ottenersi un’evocatività coesa col resto. Quanto al testo di Matteo Fantuzzi tratto da Kobarid, se lo trasferissimo in prosa senza andare a capo esso funzionerebbe comunicativamente nello stesso modo: segno che il contenuto, qui, prevale nettamente sulla forma (poesia civile, si diceva). Eppure, l’evocazione finale della lastra che alla stazione di Bologna ricorda i nomi delle vittime della strage, tragedia umanamente compartecipata dal e al lettore, come avviene in taluni testi poetici di Pasolini anch’essi tendenti al prosastico (parlo ancora di Trasumanar e organizzar tra gli altri) riesce analogicamente efficace in quanto situazione non ostesa, bensì allusa tramite l’espediente formale dell’ironia tragica nel verso finale: elemento formale che recupera forza comunicativa poetica. Il testo di Alessandro Brusa lo poniamo invece a esempio del contrario della mera allusione, ovvero di un uso estremo del linguaggio, portato all’eccesso determinante e determinato del volgarismo linguistico e immaginifico (con quel “cazzo” ripetuto e l’evocazione di una situazione di sesso estremo) che, tradotto in una forma poetica perpetrata attraverso l’uso accorto del posizionamento all’interno della pagina, evoca dicendo scopertamente, rimanendo oltre soglia corporea del pornografico voluto. La pagina di Giulia Niccolai tratta da Humpty Dumpty parla infine da sé: la forma qui si fa assoluta, il significante travalica il significato ma, proprio per questo, ne scoperchia le infinite possibilità semantiche ammiccando alla circolarità ermeneutica interpretans-interpretandum. Ebbe a scriverne Giorgio Manganelli: “come Carroll, la sciura Giulia sa che è tutta una faccenda di parole, e che le parole si scrivono e scrivendole si possono incrociare, innestare, tagliare, topsyturvare, tailare, addietrare”. Esempio in cui l’elemento formale assoluto si mantiene dotato di valore artistico shiftando in altro, ovvero nel figurale.

Morale: c’è qualcosa che non si possa, o peggio, non si debba dire in poesia? No. Basta trovare la forma più adatta per farlo. In fondo è tutta una questione di stile. E dello stile, inutile dirlo, si dovrà ancora a lungo in questa sede parlare.

Alberto Pellegatta, L’apprendista, da Ipotesi di felicità (Mondadori 2017)

Avremo la felicità del capriolo.
Sassi – ormai castori – scali
in sfacelo. La pioggia notturna
indebolisce le parole che rimangono.
Tre gradi in più e saremmo morti.

Il lago emette luce nel disinteresse,
una frizione quasi melodica.
Parla pure, anche se è sconveniente,
per dirmi almeno come imprimerla.
Se le bufere del passato abbiano incrociato le stelle.

La notte nebbiosa degli ortolani
trasporta cori di lupi intonati.
Potremmo vederci da te alle tre e mezzo e basta
da quelle parti l’acqua uccide i poeti romantici

e le abitudini si moltiplicano insostenibili.

Matteo Fantuzzi, da Kobarid (Raffaelli 2008)

Aspetto davanti alla stazione di Bologna
un mio amico residente nel bresciano
e che non vedo ormai da tempo.
Non tutti i viaggiatori sanno che lì
c’è un orologio rotto: alcuni modificano
il proprio, mentre altri si rivolgono
agli addetti chiedendo spiegazioni,
lamentando il disservizio.

E per certuni quella lapide è patetica,
porta tristezza alla mattina presto a questi
che si recano al lavoro. Gradirebbero piuttosto
un cartellone che la sostituisca,
qualcosa d’esplosivo, una pubblicità di sconti
eccezionali, di prezzi bomba, qualcosa
d’inimmaginabile, che colpisca le coscienze,
che sui passanti abbia un effetto devastante.

Alessandro Brusa, da L’amore dei lupi (Perrone Editore 2021)

 

Giulia Niccolai, da Humpty Dumpty (Geiger Edizioni 1969)

 

 

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1 Comment

  1. Rolando Gualerzi, 03/07/2021 at 4:09 pm

    Felice di incontrarvi. Non conoscevo la Poesia del nostro tempo. Pur avendo dal 1980 al 1995 curato insieme a Gianni Scalia le edizioni di “In Forma di Parole”, e avendo incontrato premi Nobel per la poesia (Brodskji, Szymborska, Heaney ) oltre ai poeti italiani allora viventi; avevo poi ‘tirato i remi in barca’ dopo l’esperienza di In forma di Parole, continuando con mie letture in proprio sulla scia e in cammino con Heidegger , Blanchot, Char ecc.
    Per caso poi, riscoperto Emilia Villa (ero un piccolo collezionista di sue opere e di Niccola, Spatola, Costa, Ferlinghetti,..
    del movimento Fluxus) e arrivato all’età dei settant’anni ho riaperto gli occhi sulla poesia del nostro tempo, con un focus sulla poesia in dialetto: ciò che precede la lingua strutturata e consapevole.
    Ho appena inviato la mia iscrizione per ricevere le informazioni.
    Grazie, Rolando Gualerzi,
    cell.+39 3483129122