Le scosse ipnagogiche sono quei sussulti che attraversano il corpo al momento di addormentarsi, a volte abbastanza forti da provocare il risveglio. Una spiegazione, non si sa quanto fondata ma calzante in questa circostanza, vorrebbe che sia una reazione di allerta da parte del cervello di fronte all’incoscienza del sonno a cui si affaccia. In un testo apparso in rete, e che potremmo definire programmatico, Edoardo Scipioni scrive: “[…] concedersi del tutto al linguaggio, come un ascolto in carne e ossa sul punto di prendere sonno abbracciando la giacitura dell’istante presente”. Sul punto di prendere sonno: l’espressione è significativa per come rimanda a una situazione liminale, a un equilibrio costantemente precario, un barcollare sulla soglia. Le poesie di Giaciture, prima raccolta di Scipioni, si muovono su questo filo. Sembrano sempre sul punto di crollare su sé stesse, e sempre si riprendono e muovono un altro passo, in qualsiasi direzione. Questa caratteristica non deve far pensare a una scrittura volatile, in balia del caos. Tutt’altro: Giaciture colpisce (e tanto più in quanto esordio) per sicurezza del dettato, coerenza formale e solidità di pensiero. Un pensiero che poggia su precise basi filosofiche, con particolare riferimento alla filosofia classica. Vale la pena accennare qui al concetto di chora, fondamentale per la poetica di Scipioni. Chora è un’idea di difficile definizione che Platone introduce nel Timeo come “ricettacolo invisibile e senza forma dell’intero divenire”, un’entità intermedia, che riceve tutte le forme e al tempo stesso è loro estranea. “Una porta rotta dall’obliqua luce, soglia / che mi diviene, sorso, breccia / su quanto di più vivo mi fluisce, attraverso”; uno spazio atemporale, eterno (“Frattempo.” è l’icastico verso di apertura di Chora, o l’unico presente, nella sezione omonima). È il momento di quell’istante presente” a cui abbandonarsi con tutto il corpo, in una postura – una giacitura – trasversale.

Dalla prefazione di Giuseppe Nava a Giaciture (Ensemble 2021)

 

UNA PORTA ROTTA DALL’OBLIQUA LUCE

Di colpo, ma senza girarsi
impugnati nello scatto, nel sovraccarico
scambiato per intuizione fondata
nella forzatura
dei passati, a braccetto lungo cammini
morti, fioccati di nebbia.

Fissi nel disordine interno non conviene
pensarlo
superstizione, incertezza della venuta
certa
ma che comunque non salva,
non secondo l’uso.

Una sagoma nera pulisce da terra
ogni resto, raggruppa e getta nel sacco
cuore aperto come labbra, occhi
mondati
dal mondo, divenuti morfosi, sfere.

Qualcosa tace.
Sempre teso sul finire non accade, invece
disteso, senza intenzione.

Una porta rotta dall’obliqua luce, soglia
che mi diviene, sorso, breccia
su quanto di più vivo mi fluisce, attraverso.

*

CROCE STILOGRAFICA

Sincerarsi a ritroso non può essere, altrimenti
sempiterno
aggrovigliare di fortune all’umido dei tessuti
molli.

Così non sa resistere lo scadenzario complesso
del cancro, già troppo
a lungo il poema ha spalpebrato verso lune
materne.

Come pattinare via
sul lampioneto è irredimibile,
progetti e ronzii vorticosi a questi ritmi conciano
alla demenza
in una panoramica bassa.

Se l’aria di fuori, imbrigliata di fischi non fosse
tenacia d’azoto e nervi.

Non assumerei l’intero quartiere
in un grumo di tegole
e ammennicoli prima di svanirti a intermittenza
nei sottobraccio.

Guardaci, piccoli wormhole prematuri
impigliati in un discorso di mani
ghiacciate. Ci sperperiamo a vicenda gli sguardi
col buio
gravitandoli a ragione.

*

LA FIAMMA INDAGA UN’INFINITÀ DI PRONUNCE

La fiamma indaga un’infinità di pronunce
senza mai destarle, non intrattiene. Preme e scova
con freschezza d’impulso la radice di un timbro fossile.

Ci esaudiremo a vuoto calando nel gorgo la tensione
orbitale. Ai piedi del letto
forse, sbiancando al tramonto di una luna di fossa.

*

CHORA O L’UNICO PRESENTE

Frattempo.
Neppure nel fiato in costante svestitura
che accorge bene
dello scheletro, e del suo reclinarsi
in acqua dolce
come alga alle correnti.
E non si da per sempre finanche
la disinvoltura, asciugare desideri infradiciati
nei cappotti del ritorno.
L’inutile si può, non far presente
il controrespiro
che partecipa in precedenza. Dunque
di riflesso temprale, dialogando i possibili
impianti, nuvolii
di scosse che introducono i polsi
al morso di redini
assicurate all’immobile, traversando
in apparenza si può. Solo questo
non contenere
il rapporto alla lettera
in alfabeto di falsi cerchi, eppure
intrasentirlo
capitare al discendere perpendicolo
della sera. Invece, non si può
smettere, nella vertigine della sproporzione
la fine ricorrente degli annunci.
Essere uno
nel buio osceno della saliva, né più leggeri
serbarsi
oltre la soglia. Spalancati si deve
al venir meno non fruibile della bocca.

 

Edoardo Scipioni nasce il 28 Dicembre del 1994. Ha pubblicato Giaciture (Ensemble 2021). È membro della giuria nel premio Ragioni di una Poesia e vicepresidente dell’omonima associazione culturale. Alcuni suoi testi sono apparsi online su Poetarum Silva, Inverso Poesia, L’Altrove. Ha pubblicato articoli e poesie sulla rivista triestina Charta Sporca. Attualmente vive e lavora a Varese.

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