Dettaglio di un dipinto di Aristarkh Vasil’evič Lentulov

Scrittura come ciglio (puntoacapo Editrice 2019) è un’antologia poetica che raccoglie testi composti nell’arco di un ventennio (1999-2017) da Giacomo Leronni, poeta pugliese nato a Gioia del Colle (Bari) nel 1963. L’antologia di testi (i più importanti già premiati e pubblicati in volumi precedenti, su riviste o anche in brevi suite all’interno di altre raccolte antologiche) viene anticipata da una densa prefazione a cura di Daniele Maria Pegorari (Università degli studi di Bari Aldo Moro) il quale, nella sua disamina critica dei componimenti, sottolinea subito come la cifra costitutiva della scrittura di Leronni sia il fatto di apparire «disinteressata nei confronti dell’oggettività del mondo e delle dimensioni tanto private quanto collettive della storia», meglio definendosi, invece, come «quella di un veggente del ventunesimo secolo che scommette sulle potenzialità rivelatrici di quel buio che l’uomo teme sia il nulla, il vuoto privo di senso».

Di certo però, questo non significa che Leronni ostracizzi senza possibilità d‘appello la componente sensoriale nella sua poesia, anzi ne fa un perno costante e, quasi fosse dotato di un inneres Auge, getta uno sguardo potente nella propria dimensione interiore traslitterando in termini percettivo-simbolici ciò che si agita in quell’ «urna» di intimità custodite ove «emergono / incontri non vissuti, cerimonie / alluse, tensioni», insieme con tutta la sfumata varietà degli stati emotivi ed esistenziali della voce poetante. Questo aspetto risalta palesemente in due caratteristiche dominanti nella poesia di Leronni (al di là dei sommovimenti e delle evoluzioni stilistiche stratificati lungo il tempo di composizione dei componimenti).

In primo luogo, Leronni sembra tracciare le linee di una geografia dell’interiorità, un «luogo-non-luogo» (l’espressione è del poeta stesso) ove in prima istanza trionfa, e fa da costante, la dicotomia buio-luce: anche attraverso l’uso di un lessico che si lascia trasparire riverberi mistici e simbologie cristologiche, il poeta vive di ferventi attese di parusie, di notti che lo consegnano al proprio silenzio ove nella sfiancante pratica della purezza «si impenna quella voce che nessuno / può sfiorare» che è verità e, al contempo, progressione e ascesa verso «l’ostia titubante della luce». Nella poesia di Leronni sembrano rivivere, com’è stato notato anche da Pegorari, vivide memorie luziane. Anche se in Leronni non si scorge la connessione tra temi religiosi e problematiche civili, né il bisogno di una verifica storica e terrena, è di certo vero che Leronni, come Luzi, descrive paesaggi più simbolici che realistici cui lascia il compito di tradurre la sua quête spirituale e gnoseologico-esistenziale, concretando il proprio ragionamento interiore in immagini materiali di chiaro intento simbolico. E così accade che l’io lirico si inoltri per le vie di città metafisiche («La torre è superata / la piazza lasciata indietro, varcato / l’anello del cosmo. Da una finestra / spunta non si sa come un volto / (Lazzaro in festa, Lazzaro / decomposto (..) La luna / ti chiede udienza. Le fai posto / schiarisci la voce. / Poggiala lì la tua inconsistenza«», oppure accade anche che l’interiorità e i suoi moti prendano le forme di altri elementi tutti tratti dal mondo naturale (ecco, ad esempio, la traduzione in termini fortemente icastici del tema della fuga temporum: «spine/ innalzano nel vento / l’infanzia / figure sconnesse s’interpongono / attenti / al bruco in cui inciampate / alla farfalla che vi schiaccia / gli alberi / dispiegano la loro preghiera / mentre la morte decide le pose / gli intervalli / cavalca sprezzante / per censire il suo impero»).

In seconda battuta, in Leronni, il magma interiore viene modellato e temprato attraverso le parole della corporeità, ma non perché il corpo, i suoi sensi, le sue parti siano implicati in una dinamica e in una reale interazione tra l’esterno e l’interno: così come il paesaggio urbano, o naturale che sia, anche la corporeità viene per lo più riletta in chiave interiorizzante e metafisico-simbolica. Da un lato la poesia di Leronni è attraversata da significativi processi sinestetici che ne rendono ancora più complessa la tramatura simbolica (tantissime le sinestesie e le espressioni sinestetiche nei componimenti: «scene tattili», «impressioni guantate», «luce che non sazia», «canto opaco», e così via), d’altro canto immagini d’ambito corporeo, come quella del sangue, diventano simbolo variamente declinato di stati interiori (il sangue è associato alla veglia e all’attesa, talvolta anche all’insonnia, e alla fattura del «pane della coscienza», «il sangue accetta la veglia / e impasta. /(…) Al primo albeggiare darà risposte / il pane, risposte scabre / cresciute crepitando come il mare», oppure ancora viene collegato all’ispirazione vissuta come «una bolla di grazia / che cerca il sangue / un’insurrezione della pelle», o ancora viene riferito al desiderio suscitato dai ricordi, «E l’incanto delle corde / che stringono più forte / quando s’avvia il desiderio / quando un ricordo incita il sangue / e la vertigine ci intrappola», o, scendendo più in basso, alla stoltezza dell’abiezione, «Vissi della precarietà di un lume / eco che spogliava la gravità / e quando officiai / nella cerimonia più turpe / ressi in me la stoltezza. / Una bocca di nuvole/ il sangue che soddisfa l’abiezione / di essere il giro del nulla»).

Pur nei loro esiti complessi e compositi, diacronicamente cangianti, le liriche di Leronni presentano almeno due linee guida, due concetti-chiave intimamente correlati l’uno all’altro. Uno è quello di abisso, di ciglio, di baratro o precipizio, già presente nell’esergo che cita i versi di Cesare Viviani e che rimanda, su un piano simbolico, alla vertigine dell’impercepito e impercepibile, dell’invisibile, dell’intimo impalpabile in cui abbiamo paura di cadere, di sprofondare, di essere inghiottiti e risucchiati. L’insondabile, insomma. Ed è la parola poetica, la scrittura come ciglio, che si assume il compito di dischiudere e disserrare le maglie di quest’insondabilità e che ci permette di assistere ai sussulti di un’anima che annaspa alla ricerca di senso. Questo impervio cammino di progressione verso il senso, però, conduce ad una soglia, ad un limite. Tale idea di limite rappresenta il secondo concetto chiave e viene espresso anche attraverso altri termini che si riferiscono vieppiù allo stesso orizzonte di significato: taglio, crepa, squarcio, confine, varco. Maggiormente che per Montale, cui è inevitabile pensare, l’approssimazione al confine, al varco, assume i contorni di una ferita dilacerata e si tinge più vivamente di un’angustia cupa, di una sbigottita doglianza, di un’inquieta cura che però sembra preludere sempre ad un brillio di fiammeggiante verità («La confidenza / non è fiaccata da rimorsi / esulta anzi / per corde estreme / e confini disattesi / là dove, detersa l’angoscia / più alta si celebra la fiamma»).

Il verticalismo compositivo, così come i pochi puntelli interpuntivi e i versi monoparola sembrano ripercorrere il solco ungarettiano, anche se la sintassi è in genere netta, ben congegnata e concatenata e non fa, se non raramente, ricorso a frammentate frasi nominali e verbali. Il tessuto retorico e fonico non mostra cesellature ridondanti né ci sono accenni di veri e propri sistemi rimici, invece è estrema l’originalità del lessico. Le associazioni lessicali tendono infatti a generare inusitati connubi tra il percepibile e l’astratto, tra materiale e immateriale, traducendo così sul piano formale il nodo concettuale previamente notato («gheriglio puro della parusia», «tufo della colpa», «scheggia cocente del finito», «foglia dell’indulgenza», «frutteto dell’inconsistenza», per fare solo qualche esempio). La forza della poesia di Leronni sta infatti soprattutto nell’uso accorto e capace della parola e della sua efficace concentrazione semantica. Alle parole e al loro ruolo l’autore dedica, in diversi stadi della sua produzione poetica, versi di riflessione: se è vero che le sue rimangono «parole vaghe, zoppicanti:/ nulla che possa insidiare / l’accortezza del silenzio», se è vero che il poeta scrive «carnali poesie / corolle che non incontrano il cielo», in questa «pista incerta / tracciata appena tra le gole», la parola, e le braci che la orlano, risplendono come «vessillo / inequivocabile, la prova» «quando il buio impregna / il volto e gli occhi / si curvano nel cielo dell’addio».

Avvertenza

In questa prova
nulla raggiunge l’equilibrio
tutto giace dissipato
su una pista incerta

tracciata appena tra le gole.

In questa opera
i nomi sono scompigliati
si dà contezza del compito
senza definirlo

i fatti sgusciano
in ogni direzione
non approdano

e i fatti non sono fatti
noi non siamo noi
nessuna fine conclude alcunché

bisogna disabituarsi
dividersi, frangersi

la parola è più dell’opera
la parola è cruda
non fa sconti

alle prime avvisaglie
dell’ordine, della regola
si ritrae nell’eterno.

 

Antipoesia del millennio

Cresceva con gli amici
la tua emozione

l’epoca in cui consistevi
una minutaglia di spore
e destini tranciati.

Incappavi
in sguardi di pietra feconda
con qualche sera nel petto
fra vene e vento.

Questa la consegna
di una vita insonne
il panorama dai giorni di gelo

dalla terra che intorbida il suono:

l’essere compresso dalla polvere
l’essere a cui mancano
le parole, le prove
che qui nessuno troverà.

*
Scrivo carnali poesie
corolle che non incontrano il cielo
mosche chiuse in bottiglia
sul fronte dell’aridità.

Un croco rimuginato dal vento
nel casolare della notte.

In villaggi, tutto intorno
brecce per l’attesa:
l’ustione
si spaccia nel mio cuore
per complice giardino.

*

Parole, che disponi
in una luce incauta
per il tuo compito
di diligenza ed errore.

Parole che puoi spingere
a capo chino verso il cappio
di famelici clamori.

Parole vaghe, zoppicanti:
nulla che possa insidiare
l’accortezza del silenzio.

 

Una vendetta per le rose

Domani, quando il limite
sarà perduto

crampo dell’innocenza
taglio delle primavere

falco che rimugina
o topo del disordine

al di là del provvisorio, smembrata
la decenza

giusto o ingiusto
intenso, escluso

domani
con l’io scucito, le dita cupe

sullo scudo del mattino
il superstite poserà la gemma
del suo turbine
gioie miti, già corrose

una vendetta per le rose.

 

Il vento dissacratore

Sono al fondo della scena:

attendo il mare
e coriandoli d’inciampo.

Fissano la corsa, smembrano i cieli

intorno una nube
una volta peregrinante.

Dimenticano i nomi
investono l’alba di creature
intirizzite.

Sono al fondo
m’inghiotte il vento dissacratore:

lucido la resa

ripongo con cura
una riscossa splendente.

 

Giacomo Leronni è nato il 22 luglio 1963 a Gioia del Colle (BA), dove vive. Laureato in lingue e letterature straniere presso l’Università di Bari, è insegnante di lingua francese nella scuola secondaria. Il suo primo libro è Polvere del bene (Manni 2008). Il libro è giunto semifinalista al Premio «LericiPea» 2009 e ha vinto il Premio «Alessandro Contini Bonacossi» 2009 per l’opera prima. Le sue poesie sono già state pubblicate, negli anni, sui seguenti periodici e riviste: «Hebenon», «l’immaginazione», «Avvenimenti», «clanDestino», «il Cobold», «L’Area di Broca», «Frontiera», «Pagine», “incroci”, «ATELIER», «Il Giornale», «Vernice», «Le Méridien – Stanze». L’antologia Scrittura come ciglio (puntoacapo Editrice 2019) è il suo ultimo libro.

(Visited 676 times, 1 visits today)