Dalla prefazione di Angela Bubba

A qualche anno di distanza dall’uscita di Cresce dentro di me un uomo straniero, Gëzim Hajdari dà alle stampe questa nuova, ambiziosa opera, che per certi aspetti può intendersi come la prosecuzione della precedente: di nuovo all’insegna di una luminosità tormentata, di una vita di dolore e splendore, di una battaglia impietosa fra l’epica del proprio sé, della propria storia, e l’epica della storia pubblica cui noi tutti siamo soggetti. Dopo quasi trent’anni vissuti a Frosinone, Hajdari lascia l’Italia e si trasferisce in Inghilterra: I canti della brughiera sono dunque il racconto, affascinante e soffertissimo, di questa traslazione, sono il diario di un ennesimo, acuminato dovere all’esilio che fa tremare e innalzare il poeta, facendolo giungere al ‘traguardo’ di uno spaesamento non programmato, allo stupore di vivere in un luogo – il Regno Unito odierno – che l’autore filtra coi suoi occhi mediterranei, col suo cuore fatto di sangue e sole pungentissimi, con la sua lingua d’ispirazione greca, quindi inequivocabilmente metaforica, visionaria e splendente. […] La raccolta, suddivisa in sei sezioni, conta quarantaquattro liriche. Come in altre pubblicazioni, Hajdari si esprime tanto in composizioni molto sviluppate, dalle quali si intravede tutta la duttilità e abilità prosastica della sua versificazione, quanto in contributi brevi e straordinariamente concisi, che condensano solo all’apparenza il messaggio dell’autore, destinato, trattandosi appunto di Hajdari, a svettare magmaticamente dai propri perimetri, da quelli più stretti come da quelli più laschi, con l’unico fine di affermarsi nella sua incandescenza, in una luce – la luce della poesia di Hajdari – da cui non si esce se non abbacinati. Nella fattispecie, la lingua di questi Canti ambisce a unire diversi livelli: non mancano neanche qui i tecnicismi, che tuttavia non affaticano la lettura, e sono allo stesso modo presenti preziosismi del linguaggio. Una peculiare eleganza espressiva è raggiunta grazie all’inserimento di svariati arcaismi, i quali potrebbero tradire l’origine albanese dell’autore, ma è solo un sospetto: Hajdari infatti vi ricorre a ragion veduta, così ricollegandosi a una certa compagine poetica che benignamente l’autore invidia (in quanto i suoi valori non esistono più, o meglio quei poeti dell’Occidente prima citati non hanno granché interesse a portarli avanti): una lingua che respira anche di passato, e un passato recentissimo, mi si perdoni l’ossimoro, è allora quanto di più funzionale ad affermare nuovamente quegli ideali, ne diviene anzi testamento etico oltreché poetico, travalicando la pagine di questa raccolta medesima. […] L’opera che stiamo esaminando descrive proprio questo percorso, i Canti di Hajdari, che terminano non casualmente in un tripudio musicale, fatto di «gesti», «ritmi dei tamburi», «inni fertili», allestiscono lo strumentario di un’intera vita, nella quale idealmente chiunque saprà riconoscersi, nei tanti, sterminati esili che ognuno può sperimentare, passando dall’agonia al sacrificio alla vittoria finale, muovendosi dal campo buio dello sconforto all’erba luminosa della seconda, vera nascita: nel mezzo, c’è la brughiera, che bisogna pure attraversare, che occorre comprendere e decifrare per saperla cantare. Gëzim Hajdari lo ha fatto magistralmente.

Da I canti della brughiera (Ensemble 2023)

Rose e coltelli. Orfani delle regioni svuotate,
spinti da un dio straniero al margine dell’oblio.
Appesi sull’acqua dei fiumi in piena le nostre vite.
Ora non possono più incatenare la verità indomabile
pronunciata nella stagione dell’inganno. Al confino viviamo,
prigionieri degli altari degli antenati e della sete di parlare.
Sotto gli alberi stretti l’uno all’altro si leva un canto muto,
esplode all’altezza dell’albero di melo in equilibrio.
Memorie e speranze giacciono da tempo in fondo
ai giorni remoti. Nessuno se ne accorge del morire
dell’ultimo raggio di luce, splende il sole sul vuoto delle grida
sulla vastità del silenzio delle campane svuotate
dei sacri misteri. Chiese eretiche, avvolte dai rami
dell’edera velenosa, vuote, abbandonate dai fedeli,
attendono l’apparizione di Lei. Pallida. Con pietre preziose
di Gerusalemme sulla fronte appare sulla porta,
polvere di eternità sulle spalle. Incanutita. Pace e preghiera.
È il Ghibli* che porta dalle dune del Sahara sogni di sabbia,
canti di nostalgia dei tuaregh. Resterà poco del nostro
destino, del sangue d’estate su questa dimora orgogliosa
e offesa. Avvelenate le vene dell’uomo, imbevute le acque
del mare della memoria, c’è chi rammenta la gioia del pane quotidiano,
del sapore del sale delle coste del sud. Grida da collina a collina,
proclamando la cecità degli uomini.

* Il Ghibli è vento caldo e secco che soffia da sud o da sud-est. Trasporta aria prelevata dalle dune del Sahara che solleva fino a grandi altezze verso la costa mediterranea. 

Trëndafilë dhe thika. Jetimë të krahinave
të zbrazëta, shtyrë nga një zot i huaj buzë harrimit.
Pezull përmbi ujëra të lumejve vërshyer jetët tona.
Tani s’mund ta prangosin të vërtetën e sertë
shpallur në stinën e mashtrimit. Në kufi jetojmë,
të burgosur të altarëve stërgjyshor e të etjes për të folur.
Nën drurë shtërnguar njeri pas tjetrit ngrihet një këngë e shurdhër,
shpërthen në lartësinë e pemës së mollës në ekuilibër.
Kujtesa e shpresa humbin në shtratin e ditëve të shkuara.
Askush s’e vë re vdekjen e rrezes së fundit të dritës,
shkëlqen dielli mbi zbrazëtinë e klithjeve mbi hapsirën
e heshtjes së këmbanave zbrazur nga misteri i shenjtë.
Kisha heretike, pa mesha, braktisura nga besimtarët,
mbështjellë nga lastarët e dredhëzave helmuese,
presin shëmbëlltyrën e Saj. E zbehtë. Me gurë të çmuar
të Jeruzalemit mbi ballë, shfaqet tek porta, pluhur
përjetësie përmbi shpatulla. E thinjur. Paqe dhe lutje.
Eshtë El Ghibli që sjellë nga dunat e Saharasë ëndërra rëre,
këngë malli tuaregësh. Do të mbesë paksa nga fati ynë,
nga gjaku i verës në këtë vendqëndrim krenar e të fyer.
Helmuar venat e njeriut, përtharë rrjedhat e detit të kujtesës,
dikush ndërmend ngazëllimin e bukës së përditshme,
shijen e kripës së brigjeve të jugut. Klith nga kodra në kodër,
shpallë verbërinë e njerëzve.

*

Di spine e ferite
l’autunno alla frontiera.
Occhi di falchi sospesi nel vuoto

scrutano dall’alto la brughiera in fiore.
Panico. Le pernici mangiano le bacche rosse,
si alzano in volo verso la foresta

a trovare rifugio tra i rami ombrosi dei pini.
Ai confini del nord cresce la frutta selvatica. Lunghe nebbie, notti di neve.
Risuonano le cornamuse in cima alle colline assopite

senza case né bambini.
Uomini e donne incanutiti camminano avanti e indietro
sotto la pioggia tagliente.

 

Me gjemba e plagosje
vjeshta në kufi.
Sy skifterësh pezull në hapsirë

mbikëqyrin nga lart brugierën në lulëzim.
Panik. Thëllëzat çukisin rrushkulla të pjekura,
ngrihen vrik në fluturim drejt pyllit

strehohen mes degëve të pishave hijezeza.
Në kufijtë e veriut rriten fruta të egra. Mjegulla të gjata, netë bore.
Jehojnë gajdet majëkodrave të mpira

pa shtëpi e fëmijë.
Burra dhe gra të thinjur ecin përpara e mbrapa
nën shiun brisk.

*

Misteri, lontananze e stelle.
Passeggio nella landa.
Migliaia di km mi separano
dalla maledizione dei xhin.

Percorro stretti sentieri.
Echi notturni dei campanacci.
Una mandria di stalloni arabi
dorme in piedi.

Stasera non tornerò indietro,
mi allontanerò senza una meta.
La mia ombra mi insegue
come un assassino silenzioso.

Dove mi conduce il destino
ai confini del mondo?
Il vecchio faro della Manica
squarcia il velo della notte.

All’alba color porpora
non scendo a valle.
Mi alzo in volo sulla brughiera,
sono diventato falco.

 

Mister, largësi dhe yje.
Shetit i vetëm në brugierë.
Mijëra km më ndajnë
nga mallkimi i xhinëve.

Përshkoj shtigje të ngushtë
mes jehonave të këmborëve.
Një tufë me hamshorë arabë
dremit në këmbë.

Sonte s’do kthehem mbrapsht,
do të endem nëpër bruga.
Hija ime më ndjek pas
si një kusar i heshtur.

Ku më shpie fati
në kufi të botës ?
Feneri i vjetër i Manikës
gris perçen e natës.

Në agim ngjyrë purpur
s’zbres në luginë.
Ngrihem fluturim mbi brughierë,
shndërruar në skifter.

*

Mi mancano l’affacciarsi delle fanciulle alla finestra
poggiate con le braccia abbronzate sul davanzale,
lo sguardo femminile tra i passanti,
il rumore dei bambini sudati che giocano nel quartiere,
il frinire monotono delle cicale sui pini marittimi,
il bussare di qualcuno alla mia porta
sulla riva del fiume Dart.

Mi mancano il profumo dell’origano di Darsia,
il verso della civetta sul tetto di casa,
il coro dei grilli al crepuscolo,
l’abbaiare notturno dei cani del villaggio,
il canto mattutino del gallo sul ramo del gelso,
il fischio dell’aspide nei campi trebbiati.

Mi mancano i fichi maturi, le melagrane spaccate sui rami denudati,
le colline tristi della patria, le bestemmie dei miei contadini,
l’odore della cipolla e dei peperoni fritti all’ora del pranzo nei cortili
con le mura bianche coperte dalla vite,
l’acqua fresca del pozzo,
l’anguria matura del campo,
sfiorata dai miei passi si apriva all’istante come una ferita erotica.

Mi mancano le risate, la gioia gratis della gente del sud,
l’invito del vicino di casa per prendere un caffè insieme
seduti sulle scale,
appoggiato alla ringhiera.

Mi mancano i tuoi passi accanto a me per la città,
il suono delle campane, il canto dei muezzin dal minareto,
mi manca me stesso,
la punta del coltello.

 

Më mungojnë dalja e vajzave në dritare
mbështetur me krahë të nxirë nga dielli parvazeve,
vështrimet femërore mes kalimtarëve,
zhurmat e fëmijeve dërsitur që luajnë në lagje,
avazi monoton i gjinkallave mbi trungjet e pishave detare,
trokitja e dikujt në derën time
në bregun e lumit Dart.

Më mungojnë aroma e rigonit të Darsisë,
vargu i kukuvajkës mbi çati të shtëpisë,
kori i padukshëm i bulkthave në muzg,
lehja netëve e qenëve të fshatit,
kënga e gjelit të mëngjesit degës së manit,
fishkëllima e nëpërkës hamulloreve.

Më mungojnë fiqtë e pjekur, shegët e çara pezull degëve vjeshtore,
kodrat e trishta të atdheut, sharjet e bashkëfshatarëve të mi,
aroma e qepës dhe e specave të skuqura vaktit të drekës në oborre
me mure të bardhë mbuluar nga pjergulla,
uji i freskët i pusit,
shalqiri i arrirë i fushës,
fshikur nga hapat e mi hapej menjëherë si plagosje erotike.

Më mungojnë të qeshurat, hareja falas e njerëzve të jugut,
ftesa e fqinjit për të pirë një kafe sëbashku
ulur tek shkallët,
mbështetur në parmak.

Më mungojnë hapat e tu pranë meje nëpër qytet,
tingujt e këmbanave, kënga e muezinëve nga minaretë,
më mungon vetja ime,
maja e çapelit.

*

Il mio amico albanese Ornel
lavora come fabbro,
in via Cosenza.

Spesso quando racconta del suo paese,
nel sud dell’Albania,
diviso da un fiume,
si commuove.

Prova nostalgia per un albero
davanti a casa sua.

 

Miku im shqiptar Ornel
punon si kovaç,
në rrugën Kozenca.

Shpesh kur rrëfen për qytetin e tij,
në jug të Shqipërisë,
ndarë në mes nga një lumë,
mallëngjehet.

Ka mall për një pemë
ballë shtëpisë së tij.

 

Gëzim Hajdari è una delle voci poetiche di maggior impatto del nostro tempo. Nel corso della sua intensa attività di esponente politico e di giornalista d’opposizione in Albania, ha denunciato pubblicamente e ripetutamente i crimini, gli abusi e le speculazioni della vecchia nomenclatura comunista di Enver Hoxha e dei recenti regimi corrotti post-comunisti. Anche per queste ragioni, a seguito di ripetute minacce di morte, è stato costretto, nell’aprile del 1992, a fuggire dal proprio paese. Bilingue e translingue, scrive e traduce in albanese e in italiano. Ha scritto anche libri di viaggio, inoltre ha tradotto in albanese e in italiano vari autori. Le sue opere sono tradotte in varie lingue. È stato invitato a tenere conferenze, lezioni e presentare la sua opera in vari paesi e università del mondo, ma non in Albania dove il suo contributo letterario viene ignorato volutamente dalla cultura di potere.

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