Fotografia di Franco Cimino

A volte – non sempre – è possibile rintracciare nell’interezza delle opere di un autore un sottile filo argomentativo che rende comunicanti temi diversi, apparentemente separati. Così si osservano, almeno in ipotesi, delicati combaciamenti tra la sfera intima e quella collettiva, tra la riflessione privata ed emotiva e quella pubblica, eticamente orientata a un discorso aperto a tutti.
Ottavio Rossani, nella sua vasta produzione poetica, pur essendosi molto dedicato al topos amoroso, non ha mai ignorato gli effetti della storia dell’umanità sulle storie degli uomini, dedicandosi ad affilate indagini sui fatti dell’attualità e sulle influenze della società sul singolo (e viceversa). I suoi testi inediti, presenti su varie riviste e qui riportati in ordine sparso – proprio a significare come si possa imbastire un ragionamento omogeneo tra poesie non necessariamente poste in comunicazione – sono ispirati a un versoliberismo sorvegliato che opera su suoni ricorsivi, rime e assonanze non scollegate dal senso corale ampiamente manifesto. Non è un caso che, anche in queste poesie d’impianto civile, affiori la radice sentimentale ed affettiva dell’ispirazione dell’autore, come a voler intendere la forte interconnessione tra dimensione etica e dimensione civica. L’occorrenza di interpunzioni che pongono domande rivela il carattere dialogico, e non del tutto assertivo, degli enunciati che abbandonano qualsiasi carattere didascalico per porsi linguisticamente e concettualmente a confronto con il lettore. Una somiglianza tematica (pur senza ipotizzare possibili affinità) sulla nostalgia di un passato che non torna è riscontrabile con le ultime poesie civili di Maurizio Cucchi. Si intravvede anche la prosaicità melodica di Fortini e la provocazione narrativa di Giudici: un quadro culturale ricco al quale la cifra stilistica personale non soggiace ma ne risulta valorizzata.

Qual è il percorso linguistico attraverso cui la storia e l’attualità entrano a far parte della tua poesia?

Non mi ero mai posto prima il problema. Con questa domanda ho preso tempo per riflettere e sono arrivato ad una rianalisi della mia scrittura come percorso di storicizzazione di fatti e modalità comunicative. La mia scrittura è nata e si è sviluppata nella spontaneità delle parole. Non sono io che cerco le parole; sono loro che mi vengono incontro. E spesso sono stato costretto ascegliere prepotenti neologismi per fare aderire il contenuto al pensiero o all’emozione che sembravano inesplicabili. Ho riletto i testi delle mie sette raccolte e mi rendo conto oggi che c’è un’evoluzione linguistica che ha reso i versi più limpidi con il passare del tempo. Le differenze tra una raccolta e l’altra è soprattutto nei temi che toccano: i ricordi familiari in Il teatrino delle scomparse, con la particolarità di una sezione quasi ironica in dialetto calabrese che contamina il quadro generale dei “caratteri” che segnano i tempi e le situazioni familiari e e sociali; il rapporto professionale con la realtà che ho travasato in Falsi confini che, come ha sottolineato allora (1989) Carlo Bo nella “nota critica” che mi ha dedicato (come post-fazione), spiegando la sua impressione “di aver assistito a una singolare operazione poetica di travaso generale della realtà; qualcosa che sta fra la rievocazione e una nuova lettura del reale”, cioè come se io avessi avuto l’ambizione e la forza di “riversare” tutto il mondo nella poesia con una visuale tutta nuova. La necessità di evocare alcune visioni dall’infanzia fino alla giovinezza, compreso il primo amore con la proiezione verso il futuro in “Riti di seduzione”, mi ha sicuramente spinto a compiere un salto verso la linearità e semplicità del dettato. L’amore come sentimento che avvolge, sconvolge, e attraversa le stagioni della vita tra gioia e dolore, si rivela il movimento fondamentale dell’esistenza umana in La luna negli occhi. Gli accadimenti della quotidianità che diventano storia nella poesia che sa raccontare eventi e protagonisti in “Soverato”, in cui le situazioni reali sono ammantate dall’allure di sogni e attese che non finiscono mai, con un ampliamento del verso narrativo che permette di approfondire la visione delle cose vissute dagli eventuali protagonisti. Il percorso linguistico, a partire dalle ingenuità tuttavia problematiche della raccolta dell’esordio Le deformazioni, in cui le speranze sedimentano in progetti ed eventi condizionanti, è un lungo tragitto che si diversifica poi in ogni libro successivo per “sottrazione” continua: evitare complessità sintattiche, eliminare progressivamente aggettivi, che comunque ho sempre amato perché qualificano le particolari situazioni, ridurre le sperimentazioni con accostamenti man mano sempre più leggeri tra forme sintattiche e grammatica narrativa, con progressiva introduzione di leggere ironie. Nel frattempo una ricerca tematica di grande scompenso logico/emozionale prende corpo nel poema L’ignota battaglia, che potrei anche definire come “autoanalisi”, che però non rispetta i canoni freudiano e neppure quello junghiano, ma interpreta solo una traduzione letteraria di una crisi temporale, morale, e spirituale, in una sola parola esistenziale. E andando avanti, l’emersione e l’estensione delle riflessioni sull’amore hanno reso più lieve la drammaticità di svolte epocali sul piano personale confrontate con i contestuali eventi storici storicizzati da letture collaterali. I progressivi cambiamenti linguistici riflettono le modifiche stilistiche del mio immaginario letterario, ma seguono le visioni di una realtà sempre più ingombrante, complicata, problematica, di difficile decifrazione ma che insiste a provocare interrogativi. Il risultato credo sia una scarnificazione in versi della dialettica dell’esigenza attraverso la leggerezza della lingua.

Che rilevanza ha avuto, secondo te, la pandemia sulla poesia contemporanea?

Ha inciso notevolmente sui poeti e sulla poesia. Non tanto sul risultato di testi di alto livello o di grande innovazione, quanto per una “diversa” attenzione sull’evento sociale e politico che ha condizionato i comportamenti personali e collettivi. Ho letto molti testi che sono stati pubblicati soprattutto sui siti social o nei blog personali. Ma il risultato più rilevante è stata la poesia scritta da Mariangela Gualtieri con il suo impatto lirico/sociale della pandemia nella totalità deprimente del rapporto fisico “negato” tra gli umani.
Una poesia lunga, articolata, descrittiva, ma anche riflessiva. Si dirà: è una poesia d’occasione, e come tale non ha la “vis” poetica della consistenza dovuta alla sua sterilizzazione, non ha la forza della sua condensazione dovuta al tempo di “cottura” (o meglio, di coltura) della creatività. A parte l’errore che spesso si commette nel valutare la poesia d’occasione come di basso valore (alcune nella tradizione italiana sono eccezionali imprevisti di grande fattura, per non parlare delle tradizioni anglosassoni o russe o di alcune letterature orientali in cui l’occasione è considerata una scadenza obbligata), in realtà i versi di Gualtieri di Ci dovevamo fermare / Nove marzo duemilaventi, pubblicati sul suo sito proprio il 9 marzo 2020, ripreso e rilanciato su diverse piattaforme elettroniche, è frutto di un’incubazione nei giorni tra febbraio e marzo, per cui la poesia non è stata scritta di getto. Mariangela Gualtieri è una poetessa di grande richiamo, affermata, riconosciuta, ma è anche una bravissima attrice che del teatro/poesia ha fatto il clou della sua carriera, con un successo a suo modo unico in Italia. In lei la scrittura poetica e la resa scenica dell’interpretazione dei suoi testi, e dunque di se stessa, è un fenomeno inusuale nel panorama italiano, Quindi non si può sconfinare troppo nel valutare questo testo scritto certamente sull’onda emozionale della pandemia in quel momento ancora non perfettamente riconoscibile nella sua entità e nella sua penetrazione devastante sugli esseri umani. Comunque è, credo, il miglior testo scritto in quel contesto storico. Un passo spinge il pensiero verso il mistero della vita:

Adesso siamo a casa.
È portentoso quello che succede.
E c’è dell’oro, credo, in questo tempo strano.
Forse ci sono doni.
Pepite d’oro per noi. Se ci aiutiamo.
C’è un molto forte richiamo
della specie ora e come specie adesso
deve pensarsi ognuno. Un comune destino
ci tiene qui. Lo sapevamo. Ma non troppo bene.
O tutti quanti o nessuno.
È potente la terra. Viva per davvero.
Io la sento pensante d’un pensiero
che noi non conosciamo.
E quello che succede? Consideriamo
se non sia lei che muove.
Se la legge che tiene ben guidato
l’universo intero, se quanto accade mi chiedo
non sia piena espressione di quella legge
che governa anche noi – proprio come
ogni stella – ogni particella di cosmo.

*

A quella stretta
di un palmo col palmo di qualcuno
a quel semplice atto che ci è interdetto ora –
noi torneremo con una comprensione dilatata.
Saremo qui, più attenti credo. Più delicata
la nostra mano starà dentro il fare della vita.
Adesso lo sappiamo quanto è triste
stare lontani un metro.

Ecco, ovviamente bisogna leggere tutto il testo. Ma questa citazione è sufficiente qui: esprime l’incertezza della situazione storica di quell’emergenza, espone la necessità di capire il mistero, e quale fosse allora la violenza di non poter stringere la mano di chi ti stava vicino o di chi si conosceva e non si poteva avvicinare, la tristezza dello “stare lontano un metro”.
Per questa poesia Gualtieri ha avuto anche critiche forti e negative, come se commemorare quella tragedia umana fosse quasi un reato, soprattutto un reato di scrittura, Secondo me questo è il testo più efficace che sia stato scritto finora su quella situazione di timore e di smarrimento, davanti all’ignoranza delle cose, tranne l’evidenza di una decisione “politica” che teneva separati gli umani anche dentro casa come profilassi per una non chiarita palingenesi (qui, senza alcuna polemica; anzi io riconosco l’efficacia di quelle decisioni, anche a livello mondiale, tanto che poi sono state copiate in diversi Paesi).).
In verità c’è un altro testo che mi ha colpito ed è la “filastrocca” di Roberto Piumini, scritta per i bambini, ma che in realtà ha l’obiettivo di raggiungere gli adulti fornendogli le notizie e le parole per entrare dentro il mistero dell’emergenza che nessuno poteva realmente spiegare e giustificare (davanti al grande numero di morti). La filastrocca (questo il titolo) è stata scritta da Piumini su richiesta del complesso sanitario Humanitas San Pio X di Milano per il suo 73° compleanno, lo scorso 14 marzo. Il testo è stato rilanciato da Unicef Italia e diffuso tramite questa organizzazione nei luoghi ospedalieri dove ci fossero bambini, ma soprattutto nelle case dove i bambini diventavano indifferenti per quella clausura che li penalizzava non solo nei rapporti ma anche nel “non capire” cosa stesse accadendo.
Ne riporto la conclusione, dopo che l’autore ha tracciato la sequela di provvedimenti, divieti, e consigli per la prevenzione:

baci e abbracci adesso no,
ma parole in abbondanza.
Le parole sono doni,
sono semi da mandare,
perché sono semi buoni,
a chi noi vogliamo amare.
Io, tu, e tutta la gente,
con prudenza e attenzione,
batteremo certamente
l’antipatico birbone.
E magari, quando avremo
superato questa prova,
tutti insieme impareremo
una vita saggia e nuova.

Mi viene spontaneo ricordare il sonetto La stretta de mano di Trilussa, ironico sul “saluto romano” invalso circa cento anni fa e durato per tutto il “Ventennio” fascista in Italia. Si tratta di un testo in cui, se si sostituisce il saluto romano con il divieto di toccarsi, sembra che Trilussa abbia profetizzato il Covid19 del triennio del coronavirus destabilizzante della serenità del popolo italiano, costretto in massima parte a forme di clausura domestica, all’uso da casa dello smart working, e a non toccarsi fisicamente restando a distanza di almeno un metro.

Quela de da’ la mano a chissesia
nun è certo un’usanza troppo bella:
te pô succede ch’hai da strigne quella
d’un ladro, d’un ruffiano o d’una spia.
Deppiù la mano, asciutta o sudarella,
quanno ha toccato quarche porcheria,
contiè er bacillo d’una malatia
che t’entra in bocca e va ne le budella.
Invece, a salutà romanamente,
ce se guadagna un tanto co’ l’iggene
eppoi nun c’è pericolo de gnente.
Perché la mossa te viè a di’ in sostanza:
Semo amiconi… se volemo bene…
ma restamo a una debbita distanza.

Gli interventi poetici sulla pandemia da coronavirus sono stati moltissimi, soprattutto sul web. Alla fine, poco hanno inciso sul piano semantico e stilistico. Ma forse è assurdo aspettarsi troppo su questo piano da una pandemia. In fondo era una malattia, allora sconosciuta.
Posso citare anche la raccolta di video in cui una quindicina di poeti italiani hanno recitato una loro poesia (tra cui anche il sottoscritto, probabilmente non molto bene, data l’imperizia tecnologica) da parte della presidenza della Casa della Poesia di Monza, e anche un’altra raccolta di testi di poeti italiani e stranieri da parte del Festival Internazionale di Poesia Parole spalancate di Genova, diretto da Claudio Pozzani.
Le iniziative però più pedagogicamente riuscite sono state prese da insegnanti illuminati nelle scuole dalle elementari fino ai licei e simili, per cui alunni e studenti di varie età e sensibilità hanno lavorato e scritto migliaia di poesie. Certo non sono, questi, testi da citare, perché sono opere di formazione, quindi ammirabili ma discutibili, nonostante qualche poesia sia veramente rivelatrice di imprevedibili talenti (che potrebbero perdersi nel tempo, ma ci si augura che invece progrediscano maturando).
Senza dubbio sono sorte molte altre iniziative in Italia nei quasi tre anni di Covid19, che io non conosco, ma che hanno contribuito ad alleggerire la tensione sociale dentro le famiglie e dentro il Paese, costretto a convivere tra morti, timori, polemiche, e molte incomprensioni sociali e politiche, lasciando comunque strascichi sia sanitari sia culturali sulla realtà post/pandemica e sulle prospettive per il futuro.

In quanto titolare del blog “Poesia” sul Corriere della Sera on line che idea hai del panorama poetico odierno, nonché degli eventi legati alla poesia on line?

Non credo di poter rispondere esaurientemente. La poesia contemporanea italiana è talmente vasta e varia che è un azzardo tentare di fare un’analisi ragionata di movimenti, gruppi, singoli, temi ed esperimenti. Sono state pubblicate negli ultimi anni alcune antologie (ultima, in ordine temporale, è quella tratteggiata da Tommaso Di Dio Poesie dell’Italia contemporanea 1971-2021 (Il Saggiatore, 2023), non molte in verità, che comunque affrontano solo visioni parziali pescando nel vasto panorama autori che in qualche modo rispondono a una linea personale di analisi, quindi sempre non soddisfacente di per sé.
Un fenomeno che ormai è diventato quasi diffuso è la necessità di costituire dei gruppi di aggregazione, anche se non proprio correnti culturali. Posso citare, con ovvio arbitrio: l’associazione “Alma Poesia” inventata da Alessandra Corbetta, con una piattaforma in cui si alternano poeti e critici che si presentano e leggono i loro testi ma anche discutono di poesia e si fanno interviste. Questo gruppo ha anche realizzato un’antologia di poeti che negli anni hanno pubblicato loro poesie sul web, domandandosi quale influenza abbia avuto la tecnologia sul contenuto delle loro creazioni. La struttura dell’antologia è arbitraria: intergenerazionale a partire dal 1940, e i temi e le forme sono le più varie. Ma si può constatare come la tecnica e i contenuti siano cambiati con il passaggio delle generazioni. Man mano che si procede verso il presente, i testi sono contaminati dalla tecnologia. Più che di sperimentazione si può parlare di sconfinamenti della lingua attraverso i neologismi sollecitati dalla tecnologia. Forse si va verso una poesia più vaga, meno reale o realistica, con invenzioni spesso vicine all’illogicità (concediamo però il “beneficio d’inventario”).
In ogni caso, la realtà è molto più complessa. E d’altra pare la poesia sul web è ancora tutta da inventare. Del resto, il primo in Italia a fare della poesia scritta con il computer un oggetto da copyright è stato, dagli anni Novanta del Novecento fino alla sua morte il 20 marzo 2019, Nanni Balestrini (allora il pc era ancora un oggetto quasi sconosciuto al grande pubblico).
Un altro gruppo che si è costituito da poco tempo è il gruppo “poetipost68” nato sulla base del Manifesto di Elisa Donzelli (poetessa finora con il solo libro d’esordio “album” (nottetempo, 2021), ma anche professore associato in letteratura italiana contemporanea alla Normale di Pisa, e anche direttrice della collana di poesia della casa editrice Donzelli, fondata da suo padre), in cui viene fatta l’ipotesi che i poeti a partire dal Sessantotto siano tutti diversi tra di loro, e sono una “non generazione”, che si è nutrita dei poeti “padri” e “nonni” della tradizione del Novecento, ma che non sono mai diventati “comunità”, e pertanto hanno bisogno di riflettere su se stessi, ognuno sul proprio ruolo e sulla loro creatività. Finora in tre anni hanno fatto tre convegni. Ammettono che hanno bisogno di di guardarsi, trovarsi, discutere, per capire le dinamiche che sottendono ai loro testi, ma anche per sondare il cammino verso nuovi orizzonti di scrittura poetica, stili e tematiche, verso il futuro.
Ci sono poi diverse piattaforme web attorno cui sono calamitate diverse personalità, una leva di poeti che non seguono uno schema, un canone, o un programma, ma si avvicinano e dibattono su come fare poesia, soprattutto per stare insieme e per l’insodddisfazione di come funziona il sistema editoriale nel confronto con il mondo della poesia italiana in evoluzione. Molti di questi poeti, che sono anche critici, si nutrono soprattutto di poesia proveniente da autori stranieri, prevalentemente occidentali, ma spesso con l’handicap di non leggere le opere dei loro colleghi italiani, più o meno coetanei (con pregevoli eccezioni, perché generalizzare non si può).
Non mi sento di fare nomi e cognomi dei vari partecipati alle diverse convention che sono state organizzate negli ultimi dieci anni. Il panorama è disseminato di iniziative e di nomi di giovani, diciamo tra i trenta e i cinquanta anni, però è talmente vasto che non si possono fare due o tre nomi, anche perché la qualità dei loro lavori più o meno si equivalgono, e per farlo ci vorrebbe quindi uno spazio da libro (e sarebbe comunque un lavoro improbo). Quello che ho notato è che pur avendo necessità di fare gruppo, questi poeti sono tra loro distanti e spesso ingenui, inseguono una direttrice tematica, ma in genere rientrano quasi tutti nell’ambito della lirica intima, in cui l’io prevale sul noi; pochissimi si attestano sulla realtà effettuale, altri pochi inseguono una poesia visionaria; e altri sperimentano nuove contaminazioni linguistiche e argomenti avventurosi. Alcuni affrontano temi di attualità politica o sociale, ma sono veramente pochi e spesso i risultati non sono rilevanti. Molti di loro vivono di incarichi temporanei nelle scuole o nelle università, altri ancora sono fissati a vivere da artisti senza un lavoro a tempo indeterminato. spesso sono veramente precari, non trovando una definitiva e progettuale responsabilità lavorativa. Questa condizione umana segna anche il modo di fare poesia, spesso estemporaneo, o con andamento quasi anarchico, impulsivo, protestatario, ma senza convinzione a combattere nel sociale. La galassia italiana dei poeti contemporanei è molto diseguale: le donne sanno rivendicare la loro posizione esistenziale un po’ meglio degli uomini, che talvolta appaiono destabilizzati o ancora in cerca di una visione sostanziale. Quello che mi viene da dire è che nonostante tali tentativi di fare gruppo, i poeti giovani contemporanei sono ancora incerti nella sperimentazione sui social e ancora indecisi se e come stampare le proprie creazioni, già apparse nelle varie piattaforme. Inoltre vivono una condizione di vera solitudine, nonostante le frequentazioni, le serate in birreria, o gli incontri per le presentazioni dei loro libri, con corrispondenze reciproche. Molte raccolte non nascondono più i temi dell’omosessualità o dei cambi di genere, e questo è sicuramente un fatto positivo sia sul piano dei rapporti sociali sia sul piano della creatività, anche perché alcune opere con questi contenuti hanno mostrato un sostrato culturale forte e una tecnica convincente. Molti si muovono quasi come miopi che cercano di stringere gli occhi per poter vedere meglio. Da questa nebulosità può crescere il prossimo o la prossima poeta con il carisma della creazione originale. Resta il fatto che ormai tutti, anziani e soprattutto i più giovani, chi fa poesia deve comunque fare i conti con il web, sul quale e per il quale le modalità tecniche e comunicative condizionano, e tendono a modificare, metodologia e inventività.

Percorso inverso

Se ti manca l’aria fai un sospiro d’amore,
sentirai meno lo spillo che punge sotto la vertebra.
Quando ricordi vecchi viaggi dietro lo sterno si forma
una lieve nuvola d’ansia come quando in un Fokker
del 1949 traballavi tra spifferi di freddo nel cielo terso
dei Caraibi pensando all’aragosta da arrostire all’ombra
delle palme giganti al fuoco sulla spiaggia dell’atollo
dove arrivasti con un fortunoso atterraggio.
Tra il nulla e l’eterno esplode il sorriso della bimba
che ti guarda senza capire cosa significa diventare
grande e cominciare ad uccidere. Basta non parlare
per infierire su anime deboli e corpi scheletriti.
Fame, è la parola più detta negli androni del mondo
in cui l’unica legge è il bastone. I corpi
non vivono di morale, sono verminai turbolenti
in attesa di alimenti semplici, elementari, riempitivi.
Il silenzio si nutre di pensieri intrecciati
nella tela dei valori che hanno fatto crescere gli umani.
Perché il sapiente sta tentando di tornare indietro?

Respirare

È entrato un mostro inatteso
in questo mondo che soffre,
è l’odio che straripa in tutti gli spazi,
colora di nero gli sguardi inquieti.
Sono le parole che non sanno trovare
la loro giusta ragione,
sono nuvole, sono spine,
forse pietre taglienti o aghi velenosi.
Dovunque le parole deragliano
spesso su direzioni sbagliate.
Eppure solo le parole potranno
legittimare vite e destini,
saranno le chiavi che apriranno
le finestre o le porte più sicure.
Se passa l’aria pulita
si potrà finalmente respirare
e reagire bene alla clausura.

Il dubbio

Domandare al mondo un respiro
di incontaminata virtù umana.
Popoli pacifici travolti dal male
hanno perso il dono del sorriso.
Nel pieno dell’armonia cova
il fuoco distruttivo del cinismo.
Mercanti d’armi e dittatori
sanno muoversi ambigui,
mimetizzano i loro affari
con facce e gesti accattivanti.
Persiste dunque il dubbio
che forse non si spunteranno mai
queste spine di violenza tra gli umani.

La Storia è nelle cose

La Storia è nelle cose che permangono
oltre il tragitto di una singola vita
e lungo un tempo di scomparsa
delle esperienze comunitarie e civili.
Gli umani hanno nel sangue la morte.
Il meccanismo chimico è la sottrazione,
ogni giorno un giorno in meno.
Da qui gli spasmi contrattivi dell’attesa.
L’obolo da versare per raggiungere la luce
che ogni fede indica oltre la soglia
è l’abbandono delle fragilità della mente.
Nel mistero delle visioni perdute
si innestano le poche gioie vissute.
Si tende a porre fondamenta d’immortalità,
per riparare all’inesorabile scienza caduca.
Resta soltanto un’ipotesi: la speranza.

Perché si fanno ancora guerre?

Perché si fanno ancora guerre?
Dicono: colpa del dio Denaro.
Sì, e quando non c’era il denaro, perché?
Dicono: c’era l’egoismo animale
(io sono più forte e ho ragione).
Sì, ma non è giusto,
la ragione non sta con i forti.
Dicono: i forti vincono sui deboli
come gli uomini sugli animali e sulla terra.
Sì, però non è logico,
gli umani devono usare l’intelligenza,
unico dono per la sopravvivenza.
Dicono: se si usa il cuore
si trovano tutte le bolle di salvezza.
Sì, ma bisogna fare un salto
verso la più sfrenata fantasia.
Dicono: un giorno vincerà il sorriso.
Sì, ma quanto sarà lunga l’attesa?

 

Ottavio Rossani (Sellia Marina, 1944), vive a Milano, dove si è laureato in Scienze Politiche e sociali all’Università Cattolica del Sacro Cuore. Poeta, scrittore, pittore e regista teatrale. Come giornalista – 40 anni al Corriere della Sera, prima redattore poi inviato speciale – ha viaggiato in diversi continenti; ha incontrato potenti e umili negli ambiti della cultura, della politica, della cronaca. Ha incontrato e intervistato potenti e umili. Ha scritto diversi libri: poesie, saggi storico/letterari, racconti, reportage. Ha pubblicato le raccolte di poesia: Le deformazioni (1976), Falsi confini (1989), Teatrino delle scomparse (1992), Il fulmine nel tuo giardino (1994), Hogueras (1998), L’ignota battaglia (2005), Finestre aperte (plaquette, 2011), entrata poi in Riti di seduzione (2013), La luna negli occhi (2019 – vincitore del Premio Camaiore 2020), Soverato (2019); i saggi: L’industria dei sequestri (1978), La tragedia italiana da Sossi a Moro (1978), Leonardo Sciascia (1990), Le parole dei pentiti (2000), Stato società e briganti nel Risorgimento italiano (2002, 2003); il racconto storico: Servitore vostro humilissimo et devotissimo (1995). (Molti di questi volumi si trovano ancora nei siti web dedicati ai libri). Ha pubblicato anche diverse plaquette, con proprie poesie corredate da suoi disegni originali (soprattutto con pulcinioelefante di Alberto Casiraghy). I suoi quadri si trovano in collezioni private, in Italia e all’estero. È stato uno dei fondatori e direttore responsabile della rivista di “poesia e ricerca” Il Monte Analogo. Per il teatro ha curato la regia di Disobbedienza d’amore di Mariella De Santis al “Sipario Spazio Studio” (Milano, 1998). Ha realizzato una “mise en espace” delle poesie di Federico Garcia Lorca per il centenario della nascita, con musica e ballo di flamenco, con il titolo tratto da un verso del poeta Se mueren de amor los ramos (Caffè Letterario, Milano, 1998). La sua pièce, Se mi vengono i brividi, è stata rappresentata a Buenos Aires, con la sua regia. Attualmente collabora a quotidiani e riviste con editoriali sociopolitici e con articoli di critica letteraria. Dal 2007 è responsabile del  blog POESIA sul Corriere della Sera on line (poesia.corriere.it)
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