Recensione di Gianluca Fùrnari 

In bilico fra retrospettiva autobiografica e romanzo di formazione, Il Gesuita (FVE 2023) di Franco Buffoni racconta un’esperienza emblematica nel percorso di autoconsapevolezza sentimentale e sessuale dell’autore sullo scorcio degli anni Sessanta, senza rinunciare a una riflessione engagé sul contesto storico in cui tale percorso si dispiega. Le vicende personali di Franco, diciassettenne di Gallarate dal «cuore tormentato e ansioso» (p. 86), che realizza la propria omosessualità nel rapporto con familiari, amici, amanti vagheggiati, cercando sempre la formula che saldi le verità del corpo a quelle della ragione, e quelle del bolzanino Klaus, aspirante gesuita e, all’inizio del libro, studente dell’Istituto filosofico dell’Aloisianum e amico del narratore, si prestano così alla ricostruzione di un ambiente educativo e affettivo sostanziato di contraddizioni, ma in cui cominciano ad affiorare le speranze di un sussulto collettivo. Sono gli anni in cui prende piede il termine gay, anzi una sua accezione inedita, fresca, straniante rispetto a quella che Franco, formatosi sulla tradizione letteraria inglese, è abituato ad attribuirgli. Mentre in Italia è in corso il processo Braibanti, da oltreoceano giungono gli echi del Civil Rights Movement, e con essi la fiducia in un gesto che anche nel Vecchio Mondo scardini il «motore della storia, alias di una specifica civiltà culturale che pretende di possedere l’assoluta verità» (p. 85).

Ancora minacciosa, nella vita del giovane Franco, la «virilità anni Sessanta» (p. 37) del padre, ex ufficiale di fanteria dal gay radar straordinariamente operativo: figura odiata per ciò che incarna – omofobia, censura emotiva e un’inflessibilità di carattere che, come una malattia trasmissibile, il figlio teme di assorbire anche quando ha appreso a rovesciarne gli imperativi. «L’ha detto anche Klaus che gli assomiglio e non mi ha fatto piacere» (p. 92) osserva Franco tra sé e sé durante un dialogo con Giulia, una cugina del padre; e più struggentemente, ricordando la solidarietà cameratesca che quest’ultimo cercava con lui durante l’infanzia: «mi chiedevo quante volte dovrò far salire su l’elicotterino, tirando forte il filo di plastica, per poi correre a raccoglierlo fin quasi nella neve, perché lui pensi che sono contento che me l’ha regalato» (p. 38).

 

Eretta a sistema, la violenza paterna è la stessa da cui la Chiesa trae linfa per esercitare il suo controllo sociale, considerando l’omosessualità del protagonista come una manifestazione di egoismo adolescenziale. Se ne fa interprete un «prete non vecchio, gentile» (p. 51), cui egli rivela in confessione la sua cotta per il compagno Alberto: «alla fine mi dà un fazzoletto: quanti anni hai? / Diciassette. / Bene l’età giusta per cominciare a pensare anche un po’ agli altri» (p. 51).

Questa realtà fa da sfondo all’esistenza di Franco nella prima parte del libro, quando il suo amore per Alberto è uno schermo alla conquista dell’indipendenza emotiva – l’amore prima del pride, o l’amore dell’altro nel disamore di sé, necessario tramite alla scoperta di un’identità sessuale che emerge, dapprincipio, nella sua forma più magmatica. Ma Franco non tarda a realizzare che l’omosessualità produce energie trasformative proprio quando se ne accolgono i sedicenti tratti luciferini. La presa di coscienza è facilitata dall’incontro con l’altro, e in quest’ottica i personaggi del libro assumono tutti una statura simbolica, dando voce ad altrettante forze quiescenti nell’animo del protagonista. Così, ad esempio, il compagno Roberto è un doppio di Franco nel suo amare senza essere visto, e perciò platonicamente nobilitato dalla narrazione, perché «l’amante è più divino dell’amato»; l’aspirante gesuita Klaus, che ha introiettato il cattolicesimo sotto forma di credo artistico, è portavoce di un «parlare al cuore» e di una spinta erotica incoercibile che entrano dialetticamente in rapporto con il massimalismo intellettuale del narratore: «Io ho sempre amato solo quelli che scrivono col sangue. E tu scrivi col sangue» (p. 26) dice a Franco in uno dei tanti luoghi memorabili del loro scambio epistolare, percorso da una passione omoerotica che – già esplorata in un mitico passato berkeleyano (due anni trascorsi negli Stati Uniti con il roommate Jason) – Klaus tenta invano di disciplinare, soccombendo all’attrazione per il giovane amico laddove quest’ultimo è votato alla «sublimità della speculazione nella febbre di conoscenza immediata» (p. 67); infine Jason, amico statunitense di Klaus, alfiere della cultura dell’emancipazione, quella del Free Speech Movement e del Civil Rights Movement, reca un nuovo ardore di coscienza nella vita di Franco, approdato da Gallarate a Roma per mettere insieme gli ultimi tasselli di un’identità in costruzione. «Mi sento felice. Klaus a destra, Jason a sinistra». E proprio nella relazione con Klaus, vero baricentro del romanzo, il lettore riconoscerà la tappa intermedia di una storia personale che procede dal dolore scontato in solitudine (la cotta per Alberto) a quello redento dalla passione politica e sfociato nella storia (appunto il rapporto con Jason).

Perché l’emancipazione delle pulsioni trovi coronamento, s’impone la necessità di una maieutica dell’intelletto che dia loro spazio e ossigeno: un neoplatonismo al contrario, teso a emancipare il corpo dalle pastoie dello spirito. Il che, per un amante delle lettere come Franco, significa dapprima scoprire quella facoltà di re-immaginazione che ogni omosessuale mette in campo dinnanzi agli stereotipi di una tradizione eteronormata, forgiandosi un immaginario parallelo e componendo versi d’amore in cui – fatalmente – «le o diventino a» (p. 16); dall’altro edificando un contro-canone privato che includa – accanto agli amati Shakespeare Barnfield Hopkins Housman – i precursori del libero pensiero: Cecco d’Ascoli, Marsilio da Padova, Lorenzo Valla, figure in aperto contrasto con la cultura di un popolo «codino e papista», «‘tenuto assieme’ da Dante e da Manzoni, come vengono insegnati nelle scuole italiane» (p. 71).

Ma la tradizione artistica che più pervasivamente innerva il romanzo è quella greco-romana, presente soprattutto nella seconda metà del libro. Così, mentre la cultura ellenica offre modelli plastici di omoerotismo e schemi di rapporto alternativi a quello eterosessuale, miti e personaggi dell’antica Roma sono chiamati in causa come prodotto di un’età di transizione in cui il paganesimo viene sussunto e castrato dal cristianesimo. Sullo sfondo di una Roma accesa dal desiderio fisico, mentre spazia dalla Fontana di Trevi a Piazza di Spagna, da Piazzale Labicano a Santa Maria del Popolo, Franco è indotto a un’assidua riflessione sulla storia, che si traduce in digressioni e dialoghi più o meno estesi. Lo esemplificano, nel capitolo 69, il dibattito con Klaus e Jason sull’imperatore Eliogabalo, «adolescente adorno di gioielli» (p. 126) e potenziale martire di un paganesimo poi sconfitto; e la breve ekphrasis sull’altorilievo di Ganimede nella Basilica sotterranea di Porta Maggiore, che dà adito a un ulteriore confronto fra i tre ragazzi. Liberatoria, dunque, la memoria del paganesimo, che nel sovrapporre eroi e santi, bellezze materiali e spirituali, esala ancora, per il narratore, una sacralità clandestina, in grado di convertire la sua esplorazione sessuale in «iniziazione» (p. 135); e affascinante la dicotomia platonica, più volte invocata, tra eròmenoi ed erastaì, benché – ipostatizzando una forma specifica del rapporto omosessuale – essa possa risultare un po’ rigida ai lettori dai sogni più fluidi.

Malgrado la distanza storica, o in virtù della forza anticipatrice che le vicende del libro testimoniano, resta illuminante la visione in soggettiva degli anni raccontati, mediata dalle istanze libertarie di una nascente avanguardia intellettuale; e i membri della comunità LGBTQ+ vi rivivranno, almeno in parte, il copione della propria vita, la paura di assomigliare ai padri, l’amara constatazione di come la materia culturale cui siamo esposti sin da bambini divenga tutt’uno con la nostra pelle e il nostro corpo, mortificando gli impulsi di bellezza, vestendo le relazioni d’amore di una malinconia che per alcuni è dura a dissolversi («Riempie, fa soffrire, ma se non ci fosse io che cosa sarei? A che cosa penserei?», scrive Franco, dal groviglio di sentimenti che si accompagnano alla prima cotta della sua vita).

Un libro da portare a scuola, con un pizzico di audacia, accanto ad Agostino di Moravia e a Ragazzi di vita di Pasolini, quale Bildungsroman – come Buffoni stesso lo definisce – e bilancio di una giovinezza composto nello stile piano e asciutto cui l’autore ci ha lungamente abituati, e qui soprattutto in grado di tenere insieme, in perpetua tensione, eros e logos.

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