SCAFFALE POESIA: EDITORI A CONFRONTO
XXXVIII PUNTATA

Ronzani Editore

 

Può raccontarci brevemente la storia di Ronzani Editore, della sua collana di poesia e della rivista «Filigrane. Culture letterarie»? Quali sono, a Suo giudizio, le peculiarità che contraddistinguono Ronzani all’interno del panorama editoriale contemporaneo?

La Ronzani Editore nasce nel 2015 per volontà di Giuseppe – “Beppe” – Cantele, vulcanico propagatore di idee innovative applicate all’arte di forgiare libri. Come sostiene Cantele, “la nascita di una nuova Casa Editrice richiede la compresenza di ingredienti precisi: l’amore per il libro come mezzo di espressione e come occasione di divulgazione del pensiero, un programma editoriale chiaro e coerente con il messaggio culturale che si intende offrire, un’altrettanto chiara idea del pubblico a cui ci si rivolge, una solida organizzazione d’impresa, la sensibilità per la scelta dei titoli e degli autori, la voglia di scovare nuovi autori e opere inedite che possano entrare in un catalogo uniforme, organico, dove i libri si ‘parlino l’un l’altro’, per sviluppare un pensiero e una narrazione coerente; infine la capacità tecnica di produrre libri belli: tipograficamente, graficamente, e per i materiali che si utilizzano nel farli”. Vicenza e il suo territorio diventano così crogiolo ove confluiscono fiumi carsici dall’Europa e dal mondo, cristallizzandosi in forme sempre nuove – e queste forme sono, appunto, i libri. L’eredità dell’esperienza di Giulio Einaudi è sicuramente fondativa per Ronzani, così come quella di un altro grande artifex dell’editoria europea novecentesca: Vanni Scheiwiller. E poi vi è la cura maniacale dei dettagli, un progetto grafico rigoroso e originale; le parole stampate indossano quella che si reputa essere la migliore veste possibile, tagliata sul messaggio che veicolano, in un’ottica di equilibrio visivo e mentale. Per quanto riguarda la collana “Qui e altrove. Manifesti di poesia contemporanea”, posso dire che essa ospita volumi di poesia di autori italiani e stranieri, corredati da brevi note critiche. Aperta alla contaminazione dei codici linguistici (italiano, dialetti, lingue minoritarie e straniere) nonché alla compenetrazione di culture e tradizioni, intende “deperimetrare” il canone ufficiale del presente, offrendo prospettive inconsuete. Nell’arco di due anni e mezzo abbiamo pubblicato quindici raccolte. «Filigrane. Culture letterarie» è invece una rivista di letteratura a periodicità semestrale. Suddivisa in cinque sezioni (Testimonianze, Saggi e scritture, Testi, Recensioni e rassegne, Notizie bio-bibliografiche), si ispira al concetto di pluralità, intendendo per essa l’apertura alle culture nazionali e internazionali, all’intersezione tra le discipline, all’indagine sulle stratificazioni che i testi e i documenti letterari recano in sé, in un arco temporale che va dall’antichità all’età contemporanea. Ogni fascicolo affronta una tematica specifica, inquadrata nei contributi che lo compongono secondo prospettive diverse ma complementari, con l’obiettivo di rivitalizzare il dibattito in merito alla letteratura e ai processi culturali che la innervano e che da essa si irradiano. Il primo fascicolo è stato dedicato ai Dialetti in poesia, mentre il secondo, di recente uscita, ha affrontato la tematica Traduzioni e tradimenti. Rispetto al panorama editoriale contemporaneo, credo che Ronzani, come altri e purtroppo sempre più rari “piccoli grandi” editori situati in una posizione di resistenza, non si preoccupi di assecondare il gusto del pubblico o le mode del momento, bensì di determinare un proprio progetto culturale ad ampio raggio, coniugando il recupero delle tradizioni passate e la capacità di leggere le dinamiche del presente. Il direttore editoriale Franco Zabagli rappresenta poi la barra a dritta della casa editrice, a garanzia di principi estetici ed etici ben definiti relativamente agli autori e alle tematiche che contraddistinguono le pubblicazioni.

Potrebbe enunciare i criteri di scelta a cui vi attenete per le pubblicazioni di poesia? C’è uno stile che è prediletto più di altri? Si può parlare di una linea editoriale che caratterizza Ronzani Editore in ambito poetico e se sì, può definirla?

È molto difficile rispondere a questa domanda, perché di primo acchito si dovrebbe sostenere: “Pubblichiamo ciò che è significativo ed originale”. Ma sappiamo bene che questi sono concetti opinabili – spesso, vuoti contenitori – sottoposti a criteri interpretativi diversi, talvolta opposti. Posso sicuramente affermare che mi interessano le prospettive desuete, marginali, ciò che comunemente non viene considerato, la voce offerta ad aspetti di realtà che solitamente sono silenti. Lo stile del poeta è in fondo la timbrica della nota; il suo è mettere in parola, mediante una modulazione unica, irripetibile, ciò che fugge. La linea editoriale segue tali spinte. E così Nathalie Handal, poetessa statunitense di origine palestinese, convive con Natalia Toledo, messicana che scrive in zapoteco, e Maurizio Casagrande, Andrea Longega, Vito Santin, Claudio Pasi, Renzo Favaron – che scrivono nei rispettivi dialetti – dialogano a distanza con i codici linguistici e stilistici rifunzionalizzati da Mauro Sambi, Violante Vibora, Elena Miglioli, Stefano Strazzabosco, Alessandro Mistrorigo, Stefano Allievi, Nicoletta Bidoia, Marco Molinari. Tessere di un mosaico che ridefiniscono costantemente la sua forma d’insieme.

Potrebbe indicare i punti di forza e le criticità di una piccola casa editrice come Ronzani che si occupa di poesia, oggi?

Un piccolo editore, paradossalmente, può permettersi una libertà che ai grandi editori non è concessa. Questi ultimi dettano le leggi del mercato editoriale, finendo spesso per esserne soggiogati. Il grande editore ha interesse a mantenere sugli scaffali i volumi che vendono, e ritira dal mercato gli invenduti o quelli a bassa redditività (considerando il libro quasi esclusivamente come bene di consumo). Il piccolo editore invece – perlomeno quello animato da un umile ma sapiente progetto di sostenibilità – vuole che i suoi pochi libri circolino, incrocino e impastino idee e orientamenti, generando incontri, facendo germinare esperienze; desidera che il libro sia dono, evento. Come sostiene Jean-Luc Nancy, “il libro non può essere considerato né semplicemente come un ‘contenente’ né propriamente come un ‘contenuto’. Il libro non è l’oggetto che è possibile riporre su uno scaffale o posare su un tavolo, e non è nemmeno il testo che risulta stampato sulle sue pagine. Ma va piuttosto dall’uno all’altro, o meglio si mantiene nella tensione tra i due: apre questa tensione, la suscita e non smette di alimentarla con il susseguirsi delle sue pagine. Allo stesso tempo la distende e la placa, affidandola al suo volume come a una sorta di repositorio”. Le criticità, poi, risiedono tutte nel perseguire questo reale destino del libro, tra le infinite traversie del quotidiano.

Quali sono i titoli più venduti e le/gli autrici/autori più amati del vostro catalogo di poesia? Ha qualche aneddoto da raccontarci in merito a qualche titolo, a cui Lei è particolarmente legato?

Il titolo più venduto appare Scena muta di Nicoletta Bidoia (finalista ai premi Poesia Città di Legnano e Montano 2020); la tiratura della prima edizione è esaurita e se ne sta preparando una seconda. Un’opera ramificata sulla tematica della danza, del gelo, della follia, dello sradicamento, dell’intimo dialogo con se stessi; una sorta di diario lirico cadenzato dal mutare delle stagioni e dal ritmo, affascinante e oscuro al contempo, della musica. Ogni volume della collana racchiude esperienze, incontri, ricordi, legami (a volte recisi), e farei torto a qualcuno se non nominassi tutti i poeti che la animano. Alcuni di loro erano già affermati a livello nazionale e internazionale (tradotti magari in altre lingue), altri hanno esordito con noi. Ogni libro in fondo è un’opera collettiva che condensa varie voci, anche quando a firmarlo è un unico autore; frutto di un lavorio e di un dialogo costante tra l’autore e chi partecipa al complesso processo di mise en page.

Secondo Lei la poesia continua a rispondere ai bisogni dell’Uomo, nonostante le trasformazioni a cui la società è andata incontro e gli spazi pubblici sempre più esigui a essa dedicati? Per Lei è corretto affermare che in Italia i libri di poesia non suscitino interesse e vendano poco, come spesso si legge e si sente dire? Cosa si potrebbe eventualmente fare per incrementare l’attenzione del pubblico e incentivarlo a leggere più poesia?

La poesia è connaturata al linguaggio, e cesserà la sua funzione quando l’uomo sarà privato dei propri alfabeti. Fino a quando ci sarà concessa parola, essa esisterà. Da sempre accompagna i fiumi carsici della storia e delle esistenze, germinando in forme sempre nuove sull’arcolaio del tempo. Come il pane, come l’acqua, è un elemento consustanziale alle comunità. Oggi è stata depauperata della sua funzione pubblica rispetto ad altre epoche storiche (in altre ha subito però sorti ben peggiori; si pensi alla sua condizione nei regimi totalitari), ma ciò non vuol dire che essa non transiti per le nostre vite illuminando l’intervallo che ci è dato in concessione, rinnovando il nostro rapporto con la realtà. Anche se le statistiche appaiono impietose, confido nel fatto che la poesia di oggi risalirà come i salmoni la corrente dei secoli futuri, portando alla luce frammenti di civiltà sepolte (e anche la nostra lo sarà, per quanto ‘salvata e documentata’ da strumenti tecnologici e software). Come alcuni codici miniati, restituirà in parola l’immagine più profonda e vera del nostro tempo, come un’eredità che si tramandi di generazione in generazione. Quel poco di interesse che le è dato nel presente, magari potrà in futuro rappresentare un bene collettivo per molti. Rispetto all’incentivare la lettura della poesia, credo che il futuro sia rappresentato dal passato, ovvero dall’infanzia. A casa ho tre bambini (di 7, 3 e 1 anno) che vivono tra i libri: li leggono e se li fanno leggere, li toccano, li manipolano, se li contendono, ne reinventano le storie, li recitano. Io e la mia compagna, come genitori, cerchiamo di accompagnare il difficile e preziosissimo compito della scuola: far innamorare i bambini e i giovani del sapere, legando i libri all’esperienza. La poesia allora diventa un naturale bisogno, come camminare. Lettura e libri vanno curati, custoditi, come si farebbe con una casa pronta ad ospitare qualcuno, da subito e per sempre.

Quali sono a Suo dire i cambiamenti che hanno interessando il mondo dell’editoria nell’anno che volge al termine, segnato dall’emergenza sanitaria, da periodi di confinamento, dal congelamento di molte attività, da una nuova crisi economica? Quali sono le difficoltà, i possibili scenari futuri, i punti di fuga e le eventuali aperture? Quali strategie di sopravvivenza sono ipotizzabili per questo settore, secondo Lei?

Credo che l’editoria sia posta di fronte a scelte molto complesse, dovendo mirare a costituire un nuovo equilibrio tra il rispetto della tradizione che la contraddistingue e la necessità di innovazione (soprattutto delle proprie forme comunicative), correndo anche il rischio di tradire la propria identità. Il confinamento sociale a cui siamo stati sottoposti ha in parte dematerializzato il rapporto con il mondo dei libri (e con gli altri): si pensi ai ‘viaggi di scoperta’ nelle librerie o nelle biblioteche alle quali non si è potuto accedere (se non in rari casi e a seguito di gravosi e cervellotici passaggi burocratici). La ‘flânerie libresca’ ci è stata negata (e il grado di civiltà di una città, di un paese, a mio avviso si misura anche dalla presenza e dalla forma delle sue librerie e biblioteche, oltre che delle sue fontane), sostituita dalla navigazione mediante pc o smartphone. In tal senso, le case editrici dovrebbero forse fare i conti con tali aspetti di necessità imposta, mantenendo inalterata l’identità e la qualità del proprio oggetto ma tramutandosi in parte in ‘botteghe di pensiero’, aperte al confronto. Alcune (e l’esempio di Ronzani è calzante) hanno così sviluppato conferenze, presentazioni e dibattiti online, spazi di approfondimento, rubriche. Anche su questi aspetti però non bisogna eccedere, poiché vi è il rischio di amplificare stimoli e offerte culturali che ottengono l’effetto opposto, stancando i lettori, e di non consentire loro di discernere i percorsi, costituendo una propria scala di valori. Sono poi convinto del fatto che la poesia non possa e non debba essere spiegata, ma semplicemente accompagnata da chiavi di lettura che possono essere raccolte o gettate.

Da diversi anni all’editoria tradizionale si sono andate affiancando, affermandosi sempre più, nuove tendenze che vedono internet (dai blog/siti specializzati ai vari social) come dinamico luogo di scritture: per quanto riguarda la poesia, la Rete può aiutare o al contrario ostacolare la diffusione dei libri di poesia? Ultimamente si sta affermando anche il fenomeno denominato “Instagram poetry”: che cosa pensa in merito a questa nuova tendenza?

Se da un lato la rete rende immediatamente accessibili vastissimi bacini di scritture, fonti, informazioni, risultando utile, d’altro lato credo non possa minimamente restituire la complessità dell’esperienza della ricerca legata al libro, che è fatta di curiosità, desiderio, stupore, fisico peregrinare nei luoghi, solitudine alternata ad incontri e imprevisti. È la differenza che intercorre tra la riproduzione su schermo di un manoscritto e la possibilità di poterlo raggiungere in una antica biblioteca d’Europa, di poterlo sfogliare, osservare sin nei minimi dettagli, provando ad indovinarne la genesi, la circolazione, la forma delle mani che lo hanno toccato, inghiottite dal gorgo del tempo. L’annullamento delle distanze rischia di rappresentare l’annullamento della corporeità. Rispetto all’“Instagram poetry”: mi pare una forma di promozione che poco ha a che fare con la poesia (spesso le parole sono impresse su sfondi innaturali che ricordano i cartelloni pubblicitari che incontriamo lungo anonime autostrade). Durante la pandemia molte persone hanno ricominciato (o imparato) a fare il pane, a impastare farina, acqua, lievito (tra questi, il sottoscritto). Perché dovremmo perdere l’abitudine di toccare i libri?

Che consigli darebbe a un/a autore/autrice che volesse pubblicare un proprio libro di poesia?

Non ho mai dato consigli e credo di non poterne dare. Credo poco, ad esempio, alle scuole di scrittura. Lo stile è frutto non di ispirazione ed istinto, ma di un costante, ossessivo lavorio sulla lingua, articolazione di qualcosa che non può mai essere definito. L’ascia che spezza il mare di ghiaccio delle nostre esistenze, come sosteneva Kafka. Si trasmette come un’eredità, ma non si può insegnare.

 

Matteo Vercesi è stato docente a contratto presso l’Università di Trieste e borsista presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Nel 2007 ha vinto il Premio Biagio Marin per la saggistica dedicata al poeta di Grado. Condirige la rivista internazionale «Letteratura e dialetti». Per Ronzani Editore dirige la rivista «Filigrane. Culture letterarie» e la collana “Qui e altrove. Manifesti di poesia contemporanea”.

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