Intervista a cura di Isidoro Concas

Limes Limen è l’EP di esordio di Kyoto, progetto solista di Roberta Russo, percussionista, performer vocale e alchimista di suoni classe ’96, uscito il 14 marzo 2024 per Garden of J. Il percorso di Roberta nella musica e nel rapporto tra essa e le parole (che l’ha portata, tra le altre cose, a essere la vincitrice della decima edizione del Premio Dubito di poesia con musica) è denso e ramificato: in occasione di quest’uscita, l’abbiamo contattata per parlarne.

Uno dei temi che più appare evidente scorrere di traccia in traccia, come un filo rosso sangue, nel tuo ultimo progetto, è quello del limite, del confine, della soglia: a partire dal nome stesso, in ogni traccia questa presenza compare – in alcuni casi più metaforica, come nell’iniziale Sangue, altre volte più geopoliticamente delineata, come in Frontiera, per terminare col tributo al coraggioso valicare di Mishima di quella soglia che per molte persone ha un’importanza fondamentale. Lo stesso svilupparsi delle tue tracce sembra muoversi attraverso successivi attraversamenti di scenario, sconfinando di atmosfera in atmosfera. Quali sono, per te, i significati dietro questo concetto? Come sei arrivata a produrre un EP dedicato ad esso?

Sono per un certo senso ossessionata da questa parola: i limiti mi sono sempre andati stretti, ma dall’altra parte, come tutti ne sono comunque schiava. È stato un filo che ho visto chiaro solo alla fine del mio lavoro ed è stato quasi illuminante e quindi spontaneo poi andare ad indagare meglio questa parola e questo concetto. L’EP si intitola appunto Limes Limen: il primo termine latino, limes, che ha un ampio campo semantico, propriamente significa linea di confine, e sta ad indicare frontiera fortificata. Dal punto di vista culturale, questo aspetto militare che il termine possiede fa assumere al limes il significato di chiusura, di limite da non superare, nel senso di chiusura difensiva rispetto ad un mondo altro, considerato estraneo e ostile: il limes romano separava la “civiltà” romana dalla “barbarie” germanica. Limen, pur significando per metonimia anche confine e frontiera, propriamente sta ad indicare soglia e in senso figurato inizio, principio. Infatti se limes viene solitamente, dal punto di vista concettuale, inteso come affine a terminus, limen trova affinità con principium: è la soglia che consente il passaggio, e dunque può essere condizione di rapporto, incontro, comunicazione. Esclusivo il limes, inclusivo il limen. Il mio obiettivo è proprio quello di porre l’attenzione sulla particolarità della parola limite, ricca di significati contrastanti e opposti. Questo concetto in alcuni brani si sofferma sulla sfera personale e in altri su quella universale: la seconda è affidata alla spoken music (Sangue, Frontiera, Mishima), mentre quella più intima al cantato (Inferno e Buco).

Il progetto Kyoto nasce nel 2020 e alcune delle tracce raccolte in questo EP hanno avuto il loro lento sviluppo testimoniato in rete dalle diverse versioni che si possono trovare nelle registrazioni delle tue numerose performance. Come sono maturate le tracce, quali sono stati i punti di svolta che ne hanno determinato le maggiori evoluzioni?

Non è una domanda facile questa, perché effettivamente non ho una risposta chiara nella mia testa. Quello che posso dire è che è stato un percorso durato tre anni, all’incirca dalla fine del 2020: io partivo come semplice batterista e beatboxer, non scrivevo e non mi ero mai approcciata alla musica elettronica. La loopstation è stata la prima svolta, poiché ho iniziato ad utilizzare la mia voce, un piccolo synth, aggiungendo parole in maniera quasi recitata (ancora con testi non scritti da me: il primo che ho musicato è stato Frontiera, presente nell’EP e scritta da Stefano Florian).

I live non sono tardati ad arrivare, quindi pian piano ho iniziato ad aggiungere anche la batteria elettronica, poi il timpano, e a scrivere autonomamente anche i testi. Ancora però ovviamente risultavano acerbi e sporchi, con potenziale, ma non mi soddisfacevano dal punto di vista della produzione in studio, che in realtà ancora non c’era, poiché i brani erano per lo più improvvisati durante i live. Qui è venuto in soccorso quel genio di Truemantic, che ha curato gran parte della produzione. Ci siamo capiti da subito e i nostri mondi musicali si sono incastrati perfettamente portando alla forma definitiva dei brani presenti nell’EP.

Nei tuoi brani l’utilizzo della voce prende molte direzioni, dal canto al recitato, dal beatbox all’elaborazione del segnale vocale fino a renderlo elemento dell’impasto sonoro della traccia. All’alba del progetto, l’utilizzo massiccio della loop station vedeva ancora più di ora la voce come protagonista della tua ricerca: come hai deciso di metterla a servizio della musica e dei testi con questa organicità? Quanto esperienze come quelle che hai avuto e continui ad avere con l’universo teatrale, musicando in scena rappresentazioni, possono averti influenzato?

Credo che questo massiccio utilizzo della voce parta dal mio essere beatboxer, da li è stato veramente naturale e spontaneo studiare anche altri modi di adoperarla per renderla uno strumento musicale ed emotivo a tutti gli effetti. Sicuramente a portarmi verso questa direzione è stato anche il fascino che ho sempre nutrito per artisti quali Demetrio Stratos, John De Leo e Iosonouncane (che con l’uso dei tenores sardi all’interno del suo album Die mi ha aperto un mondo). Certamente l’universo teatrale mi sta aiutando molto sul miglioramento della performance, che comunque è un tratto distintivo del mio progetto.

L’atmosfera dei tuoi concerti, che al momento porti in giro in duo assieme a Truemantic, cala chi è presente in una sensazione rituale così densa da trasudare anche nella versione studio delle tracce, che riescono a rimanere fedeli ad alcuni momenti di forte impatto nonostante la pulizia del mix. Oltre ai riferimenti testuali anche i costumi, l’attitudine sul palco e la potenza espressiva delle percussioni che suoni in live contribuiscono a comunicare questo immaginario. Qual è la tua concezione del rito in rapporto alla performance, quali sono gli aspetti che consideri importanti per generare questo stato in un concerto?

Sto capendo sempre di più che per me il concerto stesso è un rito, vado davvero quasi in trance e butto fuori tutto il marcio che giornalmente mi attanaglia: non sono una persona serena e credo che questo venga fuori sia durante la performance che nell’ascolto dell’EP. Non è una cosa che voglio nascondere, proprio perché in realtà quello che cerco di fare con la musica è parlare di ciò che non funziona e che mi turba, che quasi mi ossessiona, per almeno provare a far riflettere chi viene a contatto con il mio progetto. Inoltre sono sempre stata affascinata dai riti e dalla musica tradizionale, quindi credo che sia l’insieme di queste cose poi a creare il live che stiamo portando in giro. Il rito è qualcosa che mi affascina, perché mi riporta a tutto ciò che è antico, mistico e misterioso, legato appunto a tradizioni secolari in cui sono racchiuse storie di paesi e di persone.

Da un’altra parte però se penso alla parola rito mi viene in mente qualcosa che si ripete, di sempre uguale, che si collega al concetto di routine: questo aspetto non mi piace, sono una persona che sfugge la staticità e la ripetizione degli eventi. Questo concetto lo riprendo infatti nel brano presente in Limes Limen intitolato Inferno. In parole povere anche il termine rito, come il termine limite, racchiude significati contrastanti per me.

Sebbene la personalità del progetto sia permeata dalla tua originalità, l’EP è attraversato dal contributo di molte persone: dal sopracitato Truemantic agli arrangiamenti ai contributi sonori di altri strumentisti, fino ad interi testi affidati ad altre penne, come quella di Stefano Florian – presente in più brani, come Mishima e Frontiera. Come viene scelto un testo altrui per un progetto dall’identità così forte, e quali sono stati i passaggi che hai compiuto per rendertelo proprio?

Partiamo dal presupposto che sono una persona che ama collaborare e non lavorare da sola: quando si crea sinergia artistica con un’altra anima penso che sia una delle cose più soddisfacenti che possano esistere. Detto ciò, inizialmente questa scelta è stata quasi costretta e di pura sperimentazione, perchè inizialmente non scrivevo. In seguito la scelta è stata consapevole: ho iniziato a scrivere, ma a voler comunque collaborare con amici e artisti che stimo e con cui condivido la visione del mondo, come per esempio è successo con Sangue, che ho fortemente voluto affidare alla penna di Giuditta Giuliano, amica scrittrice che stimo molto. Per rispondere quindi alla domanda: non sono necessari passaggi, quando decido che un testo lo sento mio, anche se non scritto da me, interpretarlo e renderlo completamente parte del progetto è naturale.

Il mondo sonoro di Limes Limen è attraversato da un utilizzo estremamente espressivo dei suoni sintetizzati, un ampio spettro di applicazione delle tue capacità vocali, un desiderio pulsante di fare musica che racconti, emozioni e sconfini dai binari del racconto per aggiungervi colore, montaggio, dinamica, drive emotivo – senza confini di genere, nè limitazioni specifiche di forma e struttura. Questa estrema libertà danza continuamente coi mondi che le parole che pronunci evocano: in quale modo lo sviluppo delle tracce ha messo in relazione suono e testo, tenendo ovviamente la tua voce come punto di contatto?

Bellissima domanda. Parto col dire che questo tipo di processi per la maggior parte delle volte non sono consapevoli, ma pian piano vengono fuori autonomamente. Tutto quello che hai citato è frutto soprattutto dei miei molteplici ascolti passati, che si sono mischiati con quelli più attuali: nei primi il testo e la politica – in senso molto ampio e non di partito – sono stati elementi caratterizzanti, di grande stimolo ed esempio per me (CCCP, Offlaga Disco Pax, Bluvertigo, Teatro degli Orrori), nei secondi (Gazelle Twin, Fever Ray, Lucrecia Dalt, Marina Herlop, Iosonouncane, Paolo Angeli) l’esasperazione, la lacerazione e la declamazione del suono, unito all’elettronica o alla tradizionane mi hanno folgorato, e il risultato è Kyoto.

Nell’ultimo paio di anni il tuo progetto ha preso voli sempre più ampi, e meritatissimi: hai portato il tuo live in giro non solo per l’Italia ma per il mondo, hai musicato spettacoli, installazioni e coreografie, hai vinto premi, e questo EP suona un po’ come la chiusura di un cerchio per farne aprire uno ancora di più ampio respiro. Senza chiederti troppi spoiler di progetti che bollono in pentola, ci sono delle direzioni che per te sono ancora poco esplorate e verso cui ti piacerebbe un giorno orientare il tuo lavoro?

Altra domanda molto difficile. Per il momento quello che posso dire è che sono entrata a far parte del roster di DNA Concerti e che l’8 marzo parte il tour indoor a cui seguirà quello estivo. Ho suonato davvero tanto in questi anni e pian piano sto raccogliendo idee, ma la direzione per i lavori futuri è solo appena abbozzata, mi ci vorrà del tempo e della pace.

Kyoto (aka di Roberta Russo), è nato nel 2020: la peculiarità risiede nella fusione della tecnica del beatbox con un’elettronica scura e cinematica. Kyoto intona e declama parole in maniera frenetica, irriverente, dissacrante, che arrivano dritto allo stomaco e alla testa, su pattern musicali ripetitivi, martellanti, che uniscono l’elettronica moderna a elementi tipici della tradizione, come quella pugliese che la rappresenta. Il progetto vira verso scenari che si distanziano dal panorama musicale italiano, cercando un luogo dove identificarsi, o forse semplicemente sfuggendo ogni tipo di staticità sintattica e musicale.

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