Intervista a cura di Isidoro Concas

Una storia italiana è il primo album, in uscita oggi, del progetto di poesia in musica ILPALESECHEAMO, con base a Trento, che vede alla voce e ai testi il poeta Adriano Cataldo, alle produzioni Big House e IMNOISES ai sintetizzatori. Attraverso un mondo di suoni elettronici che dall’house si allargano in altri campi fino a stringere l’occhio al reggaeton e alla trap, le parole di Cataldo portate in voce con una delivery dedita più alla chiarezza che all’estetica tracciano metrica dopo metrica un percorso che mescola personale e politico, filosofia e citazionismo, provocazione e riflessione fino a un’attenta presa di coscienza sullo stesso atto del produrre poesia in musica – il tutto contestualizzato nello scenario dell’Italia tra gli anni ’90 e il presente. Per avere qualche riferimento in più nell’ascolto, ne abbiamo parlato direttamente con Adriano Cataldo.

Ciao Adriano, benvenuto. Sta finalmente per uscire Una storia italiana, disco che ha avuto lunga gestazione e che riunisce molti elementi del tuo scrivere e personale. Nei testi dell’album il taglio con cui viene osservata la realtà ha una nettezza che, se in alcuni momenti più intimi è lucida autoanalisi, altre volte toccando temi più generali, tra il sociale ed il politico, sfiora forme di esposizioni più critiche, persino satiriche. Pensi che ci siano delle soglie tra sguardo poetico, critico e satirico, e come ti muovi tra di esse nelle tue composizioni?

Più che soglie, parlerei di piani semantici semi-sovrapposti. Parto da un’analisi che Massimo Parolini ha fatto del mio Famiglia Nucleare pubblicato nel 2021: si parla di scrittura che procede per rizomi. È una definizione che apprezzo molto e che ritengo si possa estendere alla componente testuale e musicale di Una storia italiana. Abbiamo sentito nelle varie fasi di lavoro la necessità di proporre molti e diversificati piani di lettura e ascolto. Personalmente, per formazione non posso ritenermi strettamente poeta o cantautore, preferisco la nozione più ampia di artista e intellettuale. Punto a un linguaggio multistrato che evochi scenari, lasciando ampio spazio all’interpretazione da parte di chi ascolta o legge. Allo stesso tempo Big House e IMNOISES hanno fatto della trasversalità il fulcro della loro attività artistica. Tornando a me, il linguaggio che uso nei testi punta ad aprire un piano diverso rispetto a quello preso in analisi. Si tratta di un’operazione che serve anche a me per spiegarmi al meglio. È ovviamente inevitabile che in questo processo di spiegazione sorgano altre pieghe, spesso inaspettate, spesso ostiche.
Faccio un esempio: una persona ha ascoltato il brano La falla, che è ispirato da alcune foto di divani post-analisi scattate dallo psicanalista Mauro Milanaccio. Nel testo parlo di traumi, cadute e lesioni, ma la persona che ha ascoltato ci ha letto la descrizione di un suicidio. A livello più ampio, sono convinto che l’esperienza di ogni giorno sia multistrato, non solo perché conduciamo esistenze interconnesse nel digitale, ma anche perché l’economia capitalista che è alla base del nostro esistere si fonda su strutture interdipendenti.

La scelta della musica elettronica come veicolo per i tuoi lavori in voce ti accompagna fin da Electro Montale, il tuo primo progetto, e sfocia in questo disco in un risultato che lascia immaginare, in un contesto live, la volontà di muovere il pubblico al ballo – determinando in questo modo una prossemica tra voi e loro a cui spesso, in questo genere di prodotto artistico (tranne rare eccezioni, come la Dub Poetry), viene preferita un’altra modalità d’ascolto, meno legata al corpo. Come consideri questo passaggio tra disco e live, e cosa ti ha spinto a ricercare un suono che richiami il dancefloor?

La musica elettronica è molto utilizzata nei lavori di parola parlata perché offre molta flessibilità e riempie i vuoti che sono necessari a chi ascolta per sedimentare i significati dei testi. Personalmente ho ogni volta desiderato che nel corso delle esibizioni qualche persona potesse iniziare a ballare, perché credo nella forza liberatoria, unificatrice e legittimante del ballo. Mi piace pensare alla possibilità di creare un dj-set consapevole, per unire al ballo la riflessione. L’idea è quella di veicolare concetti e idee attraverso l’intrattenimento: il dubbio filosofico deve accompagnare il sudore e viceversa, solo in questo modo ritengo di aver raggiunto a pieno il mio scopo artistico e intellettuale. Mi rendo però conto che uno spettacolo che viene presentato come appartenente al genere “poesia con musica” non faccia pensare direttamente alla possibilità di scatenarsi. È una questione di aspettative. In questi due anni ho frequentato la scena rap, trap e afrobeat trentina, in particolare la crew Trento Massive e la casa di produzione Abè Pe Show e ho capito l’importanza del creare energia sul palco. Lo scorso anno mi sono esibito assieme a loro al Festival Amoahbia di Lagolo (TN), dove ho presentato alcuni brani di Una storia italiana e i riscontri sono stati positivi. Personalmente, ritengo di dover migliorare la componente live, soprattutto nel coinvolgere il pubblico, cambiare le sue aspettative.

Nell’album è presente una traccia che è a tutti gli effetti quel che nella musica è considerato featuring: mi riferisco a L’inverno della mia generazione, brano ispirato all’Inverno di Vivaldi e realizzato in collaborazione con Gloria Riggio che fa incrociare le vostre penne su un tema forte come quello dell’emergenza climatica e dell’attivismo ad essa collegato. Questo genere di collaborazioni, per quanto talvolta presenti, non sono molto frequenti in progetti spoken word. Com’è stato condividere lo spazio con Gloria, e come avete lavorato per arrivare a realizzare un brano in cui entrambe le vostre poetiche vivessero e collaborassero?

Il brano è stato creato ad hoc per partecipare al concorso Music for the next generation, che da anni persegue l’obiettivo di riadattare i brani di musica classica agli stili musicali più in voga tra il pubblico. In origine non era previsto per il disco, perché nato successivamente alla pianificazione della linea concettuale di Una storia italiana. La scelta de L’inverno di Vivaldi è stata dettata da un lato dalla musicalità dell’aria e dalla possibilità di affrontare il tema ambientale, che io e Gloria abbiamo molto a cuore a vario titolo. Il punto di partenza è stato un suo testo scritto in precedenza (Chiuso per lutto) e abbiamo immaginato due voci narranti: la Terra (Gloria) e un’indefinita persona che fa attivismo climatico (io). Il dialogo si struttura a partire da due modalità espressive, quella di Gloria più suadente e retorica e la mia, più sporca e sincopata. Con Gloria la sinergia è stata totale, abbiamo fatto delle sessioni di scrittura comune dove, grazie alla sua competenza nello scrivere, ho avuto modo di smussare alcuni miei spigoli semantici. Successivamente, ci siamo chiusi in studio con Big House, Malogrido e IMNOISES e abbiamo assemblato il brano. Vista la grande qualità del lavoro e l’attinenza con i temi presenti in Una storia italiana, abbiamo deciso di inserirlo nel disco. Il brano è stato apprezzato, perché siamo arrivati in semifinale e ci siamo esibiti nel prestigioso Teatro Ristori di Verona di fronte a un centinaio di persone, in mezzo a gruppi musicali composti perlopiù da musicisti del conservatorio e una giuria d’eccezione formata, tra le altre persone, dalla cantante Malika Ayane.

In tutto Una storia italiana è molto presente la tua tendenza a inserire, sia sotto forma di campionamenti nella strumentale che come calchi testuali, richiami ad altre opere, a eventi specifici o a riferimenti memetici. In che modo è avvenuta la scelta dei riferimenti, e come hanno corroborato il concept stesso dell’album e delle tracce?

I riferimenti testuali altri si strutturano come degli innesti che, richiamando l’idea del rizoma già citato sopra, sono funzionali da un lato a stimolare un rimando concettuale a chi ascolta o legge e dall’altro a rimescolare un repertorio pre-esistente o addirittura spostarlo su un piano semantico diverso, come suggerisce Sonia Caporossi. Da questo punto di vista, la citazione stessa è un meme, un’eccitazione del senso. Un esempio nel disco è probabilmente rappresentato dal brano Il mare che i terroni rimpiangono, dove cito brani di musica classica napoletana, poesia otto- e novecentesca e brani di musica leggera italiana. In questo caso, la citazione mi permette di ancorare il significato a territori pre-esistenti. La metafora marina non è casuale, perché tutto il brano parla del trovare un riferimento, un appaesamento per dirla con le parole di Ernesto de Martino, trovare un luogo da chiamare casa.

Tra i personaggi evocati dalle tue citazioni ce n’è uno che, a partire dal titolo del disco e dal nome stesso del vostro progetto, ritorna più volte: è Silvio Berlusconi, la cui morte è avvenuta quando ormai la realizzazione dell’album era già a un punto avanzato della sua lavorazione. Questo fatto ha messo in discussione, o ha cambiato in qualche modo, l’utilizzo dei suoi campionamenti nel veicolare il significato del disco?

La lettura di analisi e articoli post-mortem mi ha confermato la profonda pervasività della figura di Silvio Berlusconi nell’immaginario politico, culturale e sociale italiano. A livello di marketing probabilmente sarebbe stato meglio far uscire subito il disco, ma non volevo passare per un becchino! Allo stesso tempo credo che a livello politico il mordente berlusconiano si fosse attutito da tempo. Gli stessi discorsi berlusconiani che abbiamo campionato (quello della discesa in campo del 1994, usato per il brano Il Paese che amo e quello di insediamento al parlamento europeo del 2003 per Centomila) sono vecchi di più di vent’anni e sono stati ampiamente utilizzati e memizzati. I brani de ILPALESECHEAMO aggiungono semplicemente dei tasselli. In particolare, Il Paese che amo è l’incipit del disco e propone un ragionamento sull’atto stesso dello scrivere e del fare arte come pratica inevitabile, sulla falsariga di Berlusconi, che presentò la sua candidatura politica come atto necessario e salvifico per il Paese. Centomila è invece il brano conclusivo, ispirato dalla torsione retorica berlusconiana in base alla quale ogni critica al governo rappresenti una critica all’Italia. Quest’ultima idea è molto radicata nel linguaggio politico contemporaneo e spesso crea dei cortocircuiti semantici, perché da un lato sembra impossibile dire qualcosa di positivo sul proprio Paese senza passare per beceri patrioti e all’opposto sembra impossibile dirne qualcosa di negativo senza passare per anti-italiani. Si tratta di una monoliticità dell’idea di nazione e cultura che il discorso politico odierno propina di continuo e che ho trovato sapientemente illustrato in un brano, France culture di Arnaud Fleurent-Didier, il continuo rimando all’insegnamento e alla spiegazione coatta ha ispirato Centomila.

Oltre al citazionismo e alla memetica, nella tua scrittura appaiono altri strumenti che fanno riferimento a culture di linguaggio specifiche come le avvertenze per i prodotti o lo slogan ripetuto, tutti oggetti molto presenti nella stessa comunicazione pop e commerciale che negli stessi anni a cui il disco fa riferimento ha cominciato a penetrare ogni contesto anche non strettamente pubblicitario, dalla politica alla poesia stessa. Qual è stata la riflessione riguardo questo appiattimento del linguaggio che in questo stesso disco viene messo in discussione, risignificandolo?

Una storia italiana è il famoso volume che Berlusconi fece recapitare in tutte le case del suo potenziale bacino elettorale. Si tratta di una macchinazione di marketing che rappresenta al meglio lo spirito del tempo politico attuale: una totale sovrapposizione di piani, in cui il privato si mischia al politico e viceversa, in cui chi è al Governo si sente investito da un mandato quasi divino, rappresentando il corpo di un intero Paese. Come dici tu i piani della comunicazione, della pubblicità e della politica si confondono. La ripetizione di uno slogan ha la funzione molto pervasiva di entrare più facilmente nella testa delle persone ed è molto utile anche in versione scritta.
Personalmente, sono stato un bambino in parte allevato dalla pubblicità degli anni Novanta che era perlopiù televisiva e molto più massificata, ripetitiva e passivizzante di quella attuale, in cui gli algoritmi personalizzano maggiormente gli input commerciali ricevuti. Molte formule pubblicitarie sono incistate nel cervello e oggi, a distanza di decenni, continuano ad avere effetti nell’immaginario.
Oltre alla ripetizione aggiungo un elemento: lo scambio semantico, che invece permette di operare una sovvertimento personale. In alcuni dei passaggi del disco si può ascoltare “ll prodotto ha il solo scopo di promuovere l’immagine”. Qui voglio dire che molta dell’esperienza che facciamo è completamente mediata dai simboli, dalle credenze che abbiamo. Si tratta di una prospettiva fortemente consolidata in filosofia e nello stesso linguaggio politico, come dimostra la figura di Berlusconi che per anni è riuscito a raccontare a suo vantaggio anche le fasi più critiche della sua esperienza politica.

Un fil rouge che attraversa il disco, i cui due capi appaiono con chiarezza nella prima e nell’ultima traccia e che spesso consegnano una seconda lettura alle tracce, è quello del rapporto con la scrittura, dall’atto in sé agli effetti sulla memoria e sulla percezione del proprio attorno, dalle sue categorizzazioni al suo mercato, e così via. Tutto questo mentre un racconto generazionale lentamente si spinge verso terreni sempre più personali, accompagnato dalla musica che dai beat più marcati dei primi brani si sposta verso lidi più lievi, per poi reinserire le istanze generazionali in una chiave più personale – sezione in cui è inserita, peraltro, la metacomposizione Tra significante e significato – come se questa narrazione emozionale non possa scindersi dal racconto che sé stessa produce di sè. Alla luce del finale stesso del disco, in che modo in te convive l’esistere e il raccontarsi, e come hai fatto confluire queste due cose nell’album?

Come scritto sopra, i due brani che aprono e chiudono il disco sono accomunati dal campionamento dei discorsi berlusconiani. Allo stesso tempo, condividono dei versi tra cui “il vano tentativo di verificarsi”, che ho preso in prestito da una poesia di Antonio Francesco Perozzi, tratta da Lo spettro visibile (Arcipelago Itaca 2022). Questo verbo molto elegante ha una duplice valenza: si riferisce infatti da un lato all’esserci in quanto azione e dall’altro al controllo della propria presenza. In una società basata sull’immagine e la performance, ogni produzione artistica mira a legittimarsi, cercare riconoscimento presso di sé e presso il proprio pubblico. Il riconoscimento è a sua volta ambiguo, perché implica la necessità di trovare nel pubblico una propria essenza di sé e del proprio ruolo. Parto dal presupposto che uno dei tanti disturbi del nostro tempo sia la crisi della presenza, intesa individualmente e collettivamente. Ci presentiamo a noi presentandoci presso le altre persone. Lo stesso Berlusconi utilizzava, come scritto sopra, il mandato avuto da chi lo aveva eletto come un mandato divino, un riconoscimento della propria infallibilità. Il rischio è talvolta di confondere i piani del riconoscimento e, come spesso accade, di portare elementi ulteriori nel proprio messaggio artistico come per esempio l’attivismo, che però si riduce all’auto-legittimazione. In Tra significante e significato porto alle estreme conseguenze il ragionamento sul cosiddetto ruolo civile dell’arte, che in passato credevo possibile. Oggi mi rendo conto che l’arte di per sé non basti a fare attivismo condividendo post su temi scottanti tra un selfie e l’altro. Spero in una prassi più radicale, perché altrimenti si rischia di parlare unicamente al proprio pubblico, restare autoreferenziali e spesso auto-assolutori.

Il progetto ILPALESECHEAMO si è anche trasformato in formazione live che ha già potuto esibirsi su alcuni palchi in questi ultimi mesi, tra cui anche alcuni dedicati proprio alla poesia come il Klohi Fest di Ostuni e una imminente al Premio Sanesi a Torino. Quali saranno le prossime mosse in cantiere?

Sono previste due date trentine a settembre, la prima alla Libreria Due Punti, in cui presento il disco e dialogo con alcune figure rilevanti del territorio trentino in vista delle elezioni politiche provinciali. La seconda sarà un’esibizione dal vivo alla Bookique, storico locale del centro dove ho mosso i primi passi e ho in passato presentato Electro Montale. Sono inoltre in fase di definizione delle uscite fuori regione e un’esibizione in teatro nel 2024. In termini generali, l’entità dell’esibizione può variare in termini di organico, alternando le persone sul palco e la capacità di coinvolgimento del pubblico.

Centomila

Mi ha insegnato il francese, il tedesco, l’albanese e il ladino, mi ha insegnato che solo qui c’è stato
il Rinascimento, Mani pulite, il bidet. Che Montanelli è il migliore giornalista
De Gasperi il migliore statista, che le leggi razziali sono state un compromesso
e che comunque non abbiamo messo campi di concentramento.
Mi ha insegnato gli aggettivi poco graditi come “ideologico”

Che ci hanno rubato La Gioconda, i computer, le macchine, la moda
che abbiamo la più bella costituzione, il paese più bello del mondo
la migliore cucina, e infatti da noi la carestia sì, gli insetti mai
Che si possa festeggiare il giorno dell’orgoglio suino
e che signora, con quel tricolore ci si pulisca il culo
Che non è esattamente furto l’evasione fiscale
Che comunque non va fermato lo sviluppo
Che non vanno messe le mani nelle tasche degli italiani
Mi ha insegnato la storia romana, la radice giudaico cristiana

Mi ha specificato cosa voglia dire strage politica e carcere duro
L’alternanza morte lavoro, la speculazione è delizia
La strategia dell’attenzione.

Il fondo toccato disse stato, disse basta, per ora, la causa.
Non era poesia ne’ musica, ne’ costruzione di senso
Non era autoanalisi o psicoterapia selvaggia
Non era nessuna forma di cura.
Il prodotto aveva il solo scopo di promuovere l’immagine
era veicolo confuso di concetti con intrattenimento.
Era presa di parola e coscienza con il vano tentativo di verificarsi.

L’imperdonabile

Isidoro Concas, classe 1994, nasce a Pinerolo (TO) e da lì prosegue. Pare stia andando bene.

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