Fotografia di Davide Romagnoli

 

Che ben che g’û vursü mì a la vita
a vèss di alter, piasêgh e fai cuntent,
parlà, inventà, giügà, e cun la tusa
fàss brascià sü nel girasu del vent…
Ah via Teodosio, mia via Pantera,
bèj strâd de la mia vita, bèla gent…
mì sun passâ tra vialter ‘me na spera
che sta ne l’aria e nel vardà spariss,
e sun turnâ, cercà el fil del vera,
û messedà tuscoss, fin ‘nuregiss
e fâ cujun, scunfündum cunt i can…
ma vialter ghe sì pü e tra i me biss
sun chi perdü nel giögh del trücch di man
e û desmentegâ la mia bellessa
pestada in fund a l’ànema del pan.

Che bene che ho voluto io alla vita,
offerto agli altri, piacergli e farli contenti,
parlare, inventare, giocare, e con la ragazza
farsi abbracciare nel turbine del vento…
Ah via Teodosio, mia via Pantera,
belle strade della mia vita, bella gente…
son passato tra voi come una spera di sole
che sta nell’aria e a guardarla sparisce,
e sono tornato, cercato il filo del vero,
rimescolato tutto, fino a inorgoglirmi
e, fatto coglione, a confondermi coi cani…
ma voi non ci siete più e trai miei serpenti
son qui perduto nel gioco dell’illusione di me stesso
e ho dimenticato la mia bellezza
ben calcata in fondo all’anima del pane.

da Voci d’un vecchio cantare (Il Ponte del Sale 2017)

Anche con gli occhi ancora lucidi per la notizia della sua dipartita, si può certo ancora vedere come Franco Loi sia stato certamente un lume. Di certo è stato un lume particolare, unico, probabilmente. Un lume di quelli immaginati, che forse non esistono davvero nella fisica quotidiana, quelli che non creano ombre, che non oscurano nulla, che non dimenticano nulla, di quelli che confortano e che salvano senza chiedere nulla in cambio, di quelli che sei contento ci siano sempre al tavolo.

Foto di Davide Romagnoli, 2020

La stanza intorno, con le sue crepe e i suoi vecchi quadri,  resta illuminata dovunque essa riceve questa forza. I riflessi dei vetri giocano con questa, fanno rimbalzare le battute delle carte; le foto della bella gente del Casoretto, strizzan l’occhio alla nebbia di fuori, che vuole entrare, ma ci riesce solo in sogno. La luce illumina poi la credenza del pane, e il suo interno, irrorando la stanza di un odore e di uno spirito antichi. Nella stanza, aiutata dalla luce, rimbomba l’epopea di una vecchia classe operaia, cattolica, comunista, dove si parla ancora di politica, di rigori non dati e di quanto fossero belle le giovani ragazze di una volta, pudiche, che si voltavano senza darci peso, per abitudine o per simpatia di un rumore lontano. La luce non tralascia niente di questa stanza, mette tutto in luce, come un bel verso sommesso, umile e ben ricamato, come uno di quei vecchi fazzoletti che si regalavano all’amato o che si sventolavano agli addii. Una luce che tutto illumina e niente adombra.

Ed è un po’ quello che è successo con la Poesia che Franco ha lasciato, essa stessa figlia di quel lume e lume stesso. Nata, cresciuta ed invecchiata in un modo che accomunava un po’ tutti, proprio sotto l’egida della sua bellezza semplice ed onesta; non dando certo le spalle al futuro eppur non cambiando lirismo, non tralasciava gli ermetici, non metteva ombre sulle sue nuove forme performative, non disdegnava l’altro, il diverso, il lontano, essa non divideva, non separava, ma univa. E questo proprio esprimendosi con un dialetto ‘acquisito’, quel milanese entrato nelle orecchie della gioventù di un ligure immigrato e poi divenuto quasi lingua natìa. Reinventandosi, amplificandosi, cambiando pelle, ma non spirito. Restando ancora nascosta in molti di quei quaderni che riempiono ancora gli armadi dello studio in Viale Misurata, proprio mentre quella stessa lingua la se deslingua – si scioglie – come un fiato su un vetro, insieme al passato della città che veloce passa di fianco.

Piace pensare che possa essere questo uno dei grandi lasciti di un annotare in forma di versi una vita intera. Già, perché di definizioni ne son state date tante – e non ci sembra il caso di stare qui a nominare cosa Franco è stato e sarà per la Poesia Italiana –  ma piace pensare ancora a quell’aneddoto che raccontava continuamente, forse addirittura troppo. A Bonagiunta Orbicciani, incontrato nel ventiquattresimo canto del Purgatorio, e alla sua richiesta su chi fosse colui che parlava in quel dialetto, Dante rispondeva “I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando“. Non tanto cosa o come, ma Franco ha significato per davvero. E questa luce, questo lume, questo spirito che ancora illumina la stanza, l’è mestè dumà d’i Pueta, è mestiere, davvero, solo dei Poeti.

 

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