Fotografia di Daniele Ferroni

Dalla descrizione 

Si potrebbe parlare di poesia religiosa se non fosse per la spiccata adesione a una realtà articolata e complessa che caratterizza il dettato di Francesca Serragnoli. Questa nuova raccolta comprendente testi scritti nell’ultimo lustro, ripartiti in cinque sezioni composte di una materia rarefatta, quasi impalpabile, per certi versi affine al pugno di liriche donateci da Cristina Campo. Una sorta di preghiera laica, un salmodiare attento e misurato che respinge la dinamica del grido, per accogliere in sé una parola sussurrata a fior di labbra, che ha la compostezza di una rosa coltivata interiormente, con acredine, pazienza, dedizione assoluta. Niente è esibito, tutto è calibrato, raccolto in un suo microcosmo che riproduce «la vita all’altezza della vita». Si tratta di un continuo anelito alla leggerezza, per rivendicare la propria verticalità in un mondo che annienta le nostre aspirazioni più vive e più vere. Versi delicati e tragici, perduti in una dimensione outrée, attraversata da immagini stranianti con il retaggio, allucinato e solenne, dei libri apocrifi. La parola sembra denudarsi, rinunciare a ogni possibile orpello, per stagliarsi nella «quasi notte» in una sorta di indifesa alterità, pudica e impudica.

Da Appunti sparsi di Francesca Serragnoli

[…] Non si scrive per essere poeti, per essere bravi poeti, il punto di mira, come direbbe Ungaretti, è sbagliato. Si scrive per ritornare bambini, per disimparare la tecnica, il saper vivere. Il saper scrivere viene annientato dalla realtà, non serve a nulla. La rondine di cui si parla è morta, e se la rigiriamo con la tecnica, con le metafore piano piano si dissolve anche la sua stessa polvere. La mia poesia rischia che l’idea venga prima della figura. L’idea non ci garantisce, i concetti non salvano la realtà dal diluvio, non ci mettono le cose in cassaforte. Devo essere un uomo e non l’idea di un uomo. La contemplazione mistica si avvicina talvolta più al silenzio che alla profanazione. È vero che tutto è dentro al pensiero, fuori non sappiamo cosa ci possa essere e il pensiero si avvicina a ciò che intendiamo con la parola spirito. Ma la poesia non è un pensiero in metafore o in immagini belle, è un oggetto da fare, è una creazione, anche se non dal nulla. La poesia ha come oggetto la bellezza intravista nelle cose. Il mondo ha bisogno di bellezza per non cadere nella disperazione, citava un Papa. Il poeta non crea la bellezza, la contempla, la scorge come una sfuggente epifania. Se oggi la poesia ha divorziato dalla bellezza è perché è entrata nella logica dell’utile. Invece come è liberante non servire a nulla, le cose belle, la bellezza spaventosa, insopportabile, quella di cui Michelangelo chiedeva «chi mi difenderà dal tuo bel volto?». […]

da La quasi notte (MC editrice 2020)

Quando ero bambina
aprivo la finestra
sporgevo
volevo essere la rosa di qualcuno.

Nell’incavo dell’occhio l’acqua
intingi il dito, dicevano
portalo alla fronte
il triciclo della croce.

Un giorno da questa finestra
cadrà la mia vita
un tonfo lieve di palpebre
la bocca aperta
come alla prima comunione.

*

Questa reticenza invade il mare
offre tè alle rive
che increspano le dita nella tazza
raccolgono la schiuma con la lingua
il tuo cuore ridesta la mano a cobra
intravede l’acqua ricamata di brividi
gira nello scheletro come un sinuoso argomento
il caos d’essere attraversati
da un altrui penoso silenzio
non più attraenti per alcun agguato
la medaglia del volto brillare a vuoto
rintocco che lacera la piazza.

*

Miseria delle storie non raccontate
l’ora davanti a cui
non potrai più inginocchiare niente
l’essere ascoltati quando si piange
le cicale le foglie del leccio
le scie bianche incrociate sulla luna
i nasi bagnati degli animali
l’odore del miele
bere quando si ha sete
l’odore delle mani che hanno cucinato
il silenzio nella sala d’aspetto
il caffè, il vino.

Tutto nel mondo è piccolissimo
cade in terra come i bambini
ti guarda con occhi impietriti
un secondo prima di piangere.
Allargo le braccia
come una madre o come una croce.

*

Ci sono vite magiche
vestite d’impermeabile nero
capelli a riporto
orfane di cene
di bicchieri che cozzano

(non è maleodorante pietà come stile di vita)
in quei monotoni passi che vanno all’altare
quella moneta in bocca, caritas
l’uomo tranquillo che gli pende l’occhio a terra
come ramo vivo al peso del suo frutto
in quella scia ospitale, in quel carro
quante disperazioni sono salite
la misericordia dell’uomo di niente
l’uomo che ti volti ed è lì
seduto sulla panchina.

*

Ieri notte a Bologna
la pioggia di fine ottobre
continua a cadere
in ginocchio rifaccio
il gesto del cielo
quando scende rosa sulle tue spalle

la distanza che patiscono le stelle
è un sorriso spaccato
in due orizzonti
lacerati dallo spazio

la sinuosa donna che è il silenzio
stringe la tua mano e la mia
dal mio cuore evapora
l’alzarsi e l’abbassarsi del vivere

questo è il luogo dove il tempo
ha la testa schiacciata da un raggio di sole

l’eternità, madre di ogni lacerato addio
ci tiene per mano.

 

Francesca Serragnoli (Bologna 1972) laureata in Lettere Moderne nella città di origine, ha lavorato presso il Centro di poesia contemporanea nella medesima università e attualmente fa parte del direttivo. I suoi testi sono apparsi in numerose antologie, mentre i suoi libri di poesia sono Il fianco dove appoggiare un figlio (Re Enzo, Bologna 2003), ristampato nel 2012 con Raffaelli, in una versione ampliata e Il rubino del martedì (Raffaelli, Rimini 2010) poi confluito in Aprile di là (LietoColle/Pordenonelegge 2016). Collabora con la rivista clanDestino.

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