Laboratorio di Poesia, a cura di Alfonso Maria Petrosino, esce l’ultimo venerdì del mese su ‘Poesia del nostro tempo’. Vengono commentati i versi degli aspiranti poeti del Laboratorio online e scelta la poesia del mese.

Le cose migliori delle poesie di Loris John Fazio sono le domande. Si veda l’incipit di una sua poesia che s’intitola Eclissi:

Sei qui? Non ti aspettavo più.
Vieni a sederti con me, vicino alle tende.

Si rivolge al lettore, come se fosse un amico in ritardo o il fantasma di una seduta spiritica. E nello stesso testo, più in là, “non vedi le stampelle?” o “Te ne vai già?” che aggiungono al testo – o, meglio, al luogo instaurato dal testo – un aspetto teatrale e quindi una maggiore profondità. L’uso di alcuni termini e relative immagini in senso già spintamente metaforico rischia un certo grado di convenzionalità; penso in particolare a termini stagionali come “inverno”, “primavera”, “aprile” (in due testi diversi), “farfalla”, “vento”, “neve”, “fiori”. Ecco un esempio, sempre da Eclissi:

Ma io non ricordo più come sono morbidi i fianchi
di una donna, come sono calde le sue mani
quando cinge da dietro la tua vita,
come brillano le pupille quando nel buio
spietato d’inverno basta il tuo sguardo
a ravvivare nel suo viso i colori assopiti di aprile.

Meglio quando l’idea ruota intorno a un’immagine meno usurata, come quella di una porta che non è chiusa ma che allo stesso tempo non si riesce a varcare – per cui è impossibile non pensare alla porta della legge di Kafka e al contempo legittimo sentire un’eco storica del confinamento.

Chiusi dentro

La chiave è ancora nella tua tasca.
Non capisci? Non ci hanno chiusi dentro.
E forse lo hai sempre saputo.
Ma il sole che scende si sdoppia nei tuoi occhi
e io non posso più fingere che sia normale
aspettare l’imbrunire per sentire il sapore dei sogni.

Ogni giorno il cappio si stringe più forte,
ogni giorno io ti guardo affondare nella gola
di chi non ha orrore di possedere un corpo,
di chi non ha vergogna di comprare una vita.
E per le strade nereggianti di sangue e catrame
io spesso ho cercato una voce nel mio ventre –
ma uomini in catene benedicono il boia
e gli applausi affogano le voci.

La colonna grigia dei signori e dei prelati
riempie gli schermi e penetra nei crani –
sulle picche le teste sorridono ancora.
Ma il mio predicatore vive in cima alla collina:
è il mandorlo in fiore – parabole
i suoi petali nel vento – e non insegna
al fedele ad avere paura, ma ad aprire le ali
quando viene il suo aprile.

Chi deciderà ancora per te?
Vieni via con me, ti proteggerò
dalla bava dei cani ingiacchettati,
di chi abbaia “Parassiti!”
mentre toglie il miele alle api.
Fuggiamo dove non si ode
il rombo del leviatano
che grida come il mare sugli scogli.
Ricordi quei giorni? Cadeva l’estate
e correndo nei campi tu a tratti
ti libravi nel respiro del mattino, nota
di violino di un artista vagabondo.
Poi sorpresi dalla burla
di un maltempo acquattato,
io ti trovavo un riparo sotto l’arcobaleno
a cui nulla si comanda.

E l’alba adesso arriva
sempre troppo in fretta –
ma tu non legare mai i tuoi polsi,
nemmeno alla mia vita.
Ci hanno detto che questa è la città del sole,
ma la mia pelle come foglie
di una pianta abbandonata in cantina
è pallida – e trema.
E forse là fuori c’è davvero l’inverno –
ma è il freddo dentro che uccide.

La porta è ancora aperta;
io non posso più restare.
Ti aspetterò sempre.
Tu saprai dove trovarmi.
Non è vero che ci hanno chiusi dentro –
siamo stati noi a farlo.

Stefano Seghesio ama le ripetizioni che accelerano il ritmo. In uno dei tre testi inviati su ventidue versi otto iniziano con la congiunzione “mentre”. In un altro invece la triplice anafora dell’ausiliare “ha” prima e del sostantivo “spazio” poi.


ha ascoltato le piogge cadere sul pelo dell’acqua
ha raccolto i frutti spontanei tra le pietre
ha visto il ferro arruginire e le batterie rilasciare del liquido
ci sono tutte le impronte scoperte e ricoperte
sembra non ci sia spazio per ridere
c’è lo spazio del corpo dentro ai vestiti
c’è lo spazio dei pensieri dentro al corpo

Come spesso succede con questo tipo di figura, il vantaggio musicale che si ottiene lo si paga col costo di un’eccessiva semplificazione strutturale da una parte e dall’altra di una certa ridondanza. Forti e vigorose sono invece le trovate d’immagini, come il seguente gioco di parole:

Quando il cielo si rivolta
vorrei essere un’associazione di qualsiasi tipo
a delinquere
senza scopo di lucro
di idee
un’associazione dove convergono i fiumi

o il mistero incalzante e irrisolto della seguente – con una particolare attenzione per lo zeugma “condivide la tua camera e il tuo respiro”:

C’è qualcuno sulle tue tracce
si sveglia e ci sei solo tu nella sua testa
come un amante fedele o un cane di buon cuore
ti cerca fin dalle prime luci
condivide la tua camera e il tuo respiro
si muove con le tue gambe
i tuoi tendini sono i suoi
e anche se ci fosse una forza superiore
a muovere i tuoi fili
sarebbero mossi irrimediabilmente
per muovere anche i suoi
ha la tua stessa sete
e mette le mani negli stessi punti dove le tue sono già passate
non è più scaltro di come lo aspetteresti
ma è presente
sempre presente
nella tua ombra
nelle tue scarpe
nei profumi che senti
nel fondo dello stomaco
vive dietro ai tuoi occhi
e non sentirai mai la sua mancanza
come un confessore
un cacciatore
segue le tracce
come gli investigatori e le tartarughe nell’oceano
potrà perdersi
ma non perderà mai te

Come poesia del mese ne scelgo una di Sandro Iotti, per la cardioscopia della prima strofa, per le capriole di fumo della seconda che citano in modo più o meno volontario quelle del focolare di Natale di Ungaretti – qui il focolare è nominato pochi versi dopo – e per la perentorietà della quarta che racchiude a stretto giro i fallimenti passati, presenti e futuri.

Tasca

Per il solo fatto che son vivo, al mondo
Ho una fitta qui
Nel bel mezzo dello sterno, centro del cosmo
E un prurito alle mani, alle gambe
Senza requie
Come di eterna, inestinguibile richiesta

Le capriole di fumo
Del pensiero irrisolto
Non hanno persistenza
Pur avendo peso e conseguenze

Osservarle quieto
Come davanti al focolare
È privilegio che manca
A chi ha scelto il dubbio
Per governare il senso
Per arginare il fragore di tuono

Anche oggi
Non ho fatto abbastanza
Non farò mai abbastanza
È scritto su quel foglio
Stropicciato e annerito
Che tengo ogni giorno
Nella tasca dei pantaloni

 

Alfonso Maria Petrosino ha pubblicato quattro libri di poesia, Autostrada del sole in un giorno di eclisse (OMP 2008), Parole incrociate (Tracce 2008), Ostello della gioventù bruciata (Miraggi 2015) e Nature morte e vanità (Vydia 2020). La sua poesia, che descrive luoghi e situazioni in relazione a un paesaggio urbano e all’umanità che lo abita, si avvale di una metrica precisa e raffinata. La redazione di Poesia del nostro tempo ha scelto Alfonso Maria Petrosino per impersonare la figura del maestro, capace di leggere attentamente e suggerire soluzioni, anche ai neofiti della poesia, proprio per la sua capacità sia di aderire al “canone”, alla tradizione, che di frequentare i nuovi palcoscenici della poesia, dagli happening e performances al poetry slam, essendo stato campione indiscusso di queste scene per molti anni.

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2 Comments

  1. Loris John Fazio 26/11/2021 at 7:32 pm

    Grazie mille ad Alfonso Maria Petrosino, poeta che stimo e apprezzo molto, per il suo commento critico ai miei testi e per i suoi consigli. Tutto ciò mi è davvero molto utile e saprò certamente farne tesoro nel mio percorso poetico.

    Un caro saluto,

    Loris John Fazio

  2. Sandro Iotti 29/11/2021 at 6:28 pm

    Grazie per l’attenzione.
    SALUTI
    Sandro Iotti