Nota di lettura di Gisella Blanco

L’udito cronico di Cristina Annino (Graphe.it Edizioni, 2023) assomiglia a un senso ultra-sensoriale obliquo, trasversale, nonché sghembo quanto basta a rendere l’immanenza della realtà attraverso l’ottica di un parossismo spietato che sinesteticamente opera accostamenti impensabili, lì dove ci si potrebbe aspettare solo slittamenti semantici (che pure ci sono, ma non riguardano solo la combinazione lessematica dei testi).
“Una grande contraffattrice della realtà, e dell’hic et nunc”, la definisce con entusiastica stima Ugo Magnanti su Perigeion, spiegando che “una rasatura casalinga ma straordinaria ti fa vedere anche i pori, te li fa scendere ‘a vite’, su una faccia che ne produce un’altra, che anche è una mappa”.
A ben vedere, qualsiasi definizione sembra incompleta, e forse inessenziale, per quest’opera che comparve nell’einaudiana Nuovi poeti italiani 3, a cura di Walter Siti.
Sarà per via del “Caos” inziale, dell’impossibilità percepita verso il linguaggio che si può avvicinare alle cose ma non sarà mai la realtà (“ch’è sempre doloroso impalare/l’anima in un discorso), sarà che l’autrice sceglie di non rimanere solo sulla verità che “è orrendo cannocchiale”, e sarà per la sua grande perseveranza al rilevamento del dettaglio dalla scena generale (“a quest’età si è un cimitero/abbastanza paziente”), ma i testi della Annino, come scorci di un’arte visiva contemporanea che basa la sua incomprensibilità sulla percezione finissima della storia e della società, non si possono racchiudere in definizioni o rigidi paragoni letterari.
È quel “non ho la chiave” che apre la vista a scenari estremamente compositi eppure minimi, che escludono la possibilità di qualsiasi orizzontalizzazione dei fenomeni, etica, estetica o empirica che sia: “niente esiste che mi si ponga/davanti piatto,/senza/sbalzi di luce”.
Un’adunanza di umanità bestializzata, oppure ri-umanizzata, dai nomi precisamente scanditi anche attraverso apparenti tic, giochi consonantici allitterativi, rimbalzi di rime in mezzo e appena accennate cantilene prosodiche che mettono in risalto come il suono sia parte integrante del senso. Il paradosso di Antonio Porta qui compare defraudato da ogni lirismo, spezzettato nella composizione sintattica, drammaticamente severo, come accade negli esercizi più rabbiosamente divertiti di Amelia Rosselli: “E’ salito sul tram col suo udito//cosmico; il bianco timbro/del viso ha fatto crac orrendo/allorchè s’è piegato”.
Un patchwork non casuale di casuali scorci di quotidianità, proposti in una chiave di perseverante irriconoscibilità che rasenta il fastidio e costringe il lettore allo sforzo dell’attenzione intelligente.
“Io, dietro/ho estratto il cervello, cosa/che non pesa, l’ho appoggiato/alle mani ed ho atteso. M’arrivavano/addosso cose morte ed uguali. Intanto/invecchiavo”.
L’io trasformista, spesso maschilizzato eppure non del tutto maschile, si sdoppia e si disereda da ogni posizione di graniticità (“non col sentimento si capisce”) per un “gioco/col mio male”, un “infernale malessere” che nomina dio come contraltare improbabile dell’umano (infatti, in questi testi, ogni invocazione del divino sembra quasi imprecazione).
Il tentativo di sfoltire l’esperienza dai dettagli inutili diventa un ulteriore – ma efficacissimo – arrovellamento interiore, portato alla causa comune attraverso l’atto poetico: “Mi siedo accanto e gli porto l’asfalto/ripulendolo dal rumore, dall’odore del mese,/dal peso della gente”. D’altronde, “alla bestia io sono abituato”, invertendo l’ordine di priorità che ha ideato l’uomo per porsi al centro di qualcosa che ha solo immaginato, ed in cui si perde inesausto.
Nello scaltro calembour di situazioni, occorrenze e abitudini, le micro-identità casalinghe si scontrano con le macro-strutture sociali eppure, come specifica Magnanti che conosce molto bene l’autrice prematuramente estinta, “Annino non ha un vero e proprio sguardo politico sul mondo. Il suo è uno sguardo neutro, che interroga le immagini senza presumere responsi, senza ricavarne ideali”. Le stesse categorie sociali nominate nei testi, come il ceto medio e la classe proletaria, sono entità esistenziali e non puntualmente politiche, antropologiche più che scientificamente storico-sociali, benché i testi non lesinino critiche e polemiche che sembrano assurgere a una funzione civile, anche se non specificatamente voluta, all’interno di un’apparente dimensione decontestualizzante.
Non è nascosta nemmeno una vena di tenace tenerezza, insita non a caso nei versi più brutali, lì dove la coralità viene riacquisita come diritto, ma anche come necessità: “La bocca, sotto, è virago, esplosione./Il tampone del cuore gli sfascia/organi da qualche parte; cento/volte intravedo la mia morte. Il dolore/mai è singolarmente privato”.
Un “silenzio boia” non riesce, però, a mettere a tacere l’impulso al linguaggio, seppur cinico e sorvegliato (“Niente aggettivi,/ripeto, né verbi: sostantivare con cautela”), perfino quando accade che “con viva/disperazione vi mandi tutti/all’inferno”, altra scossa letteraria che si potrà accogliere di buon grado da parte di un’autrice così dedita all’empatia verso le contraddizioni della contemporaneità.

Caos

Premettendo
ch’è sempre doloroso impalare
l’anima in un discorso, scrivere
un diario, lettere, versare
iride nella tinozza di un colloquio.
A quest’età e con i tempi che corrono,
io siedo al bordo dell’orecchio
universale; dico
«biondo, marziale cieco cielo
dove il tempo è rotondo: la verità
è orrendo cannocchiale».
Poi mi rivolto, ascolto chi parla,
annuso odore di vero nel parziale
gesto di chi mi appaia. Credo
a tutto; a quest’età si è un cimitero
abbastanza paziente.

La casa del folle

Entro piano nella casa del folle;
non apro le persiane, non tolgo la polvere.
Arrivo alla sua camera che ancora dorme
nel mattino troppa aria per occhi
di dolente marrone pallido. Guardo
la nuca rigida e il corpo che non sente
neppure il pigiama.
Mi siedo accanto e gli porto l’asfalto
ripulendolo dal rumore, dall’odore del mese,
dal peso della gente.
Cerco di non affollarlo di niente;
il suo corpo vuoto è una stanza: sogni
vi soffiano dentro bolle di vecchio dolore.
La ragione cos’è? Arrivo qui e mi stendo
al piede del suo letto come a una pianta
ed entra dentro di me, dal folle, quasi
fune elettrica, una bianca, stanca,
atroce vitalità.

L’udito cronico

Le poesie d’amore le do
in appalto ai droghieri. Io
inseguo pensieri su cui
casco, è vero, in rime toniche.
Anche a me succede; ma in genere,
è un fatto, sto in piedi.
Ed ho
un bell’udito cronico
per la vita, o meglio
per la testa impazzita
dell’uomo che ragiona, e gli sale
accanto in due, divisa
fino all’occhio glaciale.

La madre vedova

Porto un etto di morte sulla spalla
ad amare mia madre; salmina
lucida, odora; e ti salta
di dire «zitta», pestarla. Che fare
senza marito? Il pomeriggio le sale
negli occhi — alta marea — e affoga
così mitemente la sua crocchia o pelliccia
di lontra, tinta, fioca, che io
salvo da nuotatore quella fronte, le cavo
il sinistro ciglio, lo porto
a riva con fatica infinita. Poi,
ricomincio.

A occidente dell’Europa

Se non si guarda bene
l’atlante non si vede la larga
scimmia spagnola d’un turchino nero, che salta
i piedi da ballerino classico. Spela
tutto il paesaggio. Quando
sul serio è lei, schiaccia
chiese come mosche, piazze come foto, e ha polpe,
nelle dita, a cubi d’acqua.
La trovo sempre
nei bar, da demente; insieme si fissa,
poniamo, un portoghese; lei
lo ammazza in salsa di vino di pesce: «Lisbona
sarebbe la capitale esatta. Va bene» geme
in eternità con fare militare che quasi
tossisce. Poi, s’alza; già molto
turchina gola, malore unico
di barista. Mette
di continuo la sola faccia al muro.

 

Cristina Annino (pseudonimo di Cristina Fratini,1941-2022), è stata scrittrice e poetessa. Dopo gli studi in Lettere Moderne a Firenze dove si laureò con una tesi sulle prose di César Vallejo ha frequentato, sempre a Firenze, il Caffè Paszkowski dove entrò in contatto con il Gruppo ’70, fondato nel 1963 da Eugenio Miccini e Lamberto Pignotti. Esordì nel 1969, pubblicando, con le edizioni Téchne, Non me lo dire, non posso crederci. Nel 1989 si trasferì a Roma e iniziò a dipingere, tenendo mostre collettive e personali in Italia e all’estero.

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