Ancona è come un gomito piegato sull’Adriatico, da qui il nome greco per la città fondata quasi 2.500 anni fa dai greci di Siracusa. Accade a volte che l’orografia finisca per indicare, tra spazio di realtà e spazio dell’immaginazione, un destino anche in ottica geopoetica o geocritica, in una chiave di lettura per una storia tanto imponente e ricca di risonanze come di alterne vicende: dai greci, passando per i romani, dalle guerre antiche e recenti, dalle rivalità con Venezia e le città adriatiche, dal ponte culturale con l’altro Adriatico, l’oriente slavo, dal mondo pagano greco e romano a quello religioso, in una summa di contrasti e interconnessioni continue tra elementi: acqua e terra, cielo e mare, verticalità del monte su cui si erge la splendida cattedrale di San Ciriaco e orizzontalità portuale, con i suoi ingressi, le sue aperture, i suoi archi e basamenti di memoria romana. Potremmo dire di una sorta di gioco di rispecchiamento continuo tra alto e basso, popolare e colto, umano e divino, tra lembo costiero ed entroterra.
Dall’incanto, dalla seduzione, dal fascino che quotidianamente la città dorica infonde nei suoi abitanti, come per una malìa leopardiana, deriva il notevole canzoniere di Fabio Maria Serpilli, che raccoglie in Mal’Anconìa la parte considerevole di un lavoro dalla lunga gestazione e di cui si ha testimonianza in una disseminazione quasi ininterrotta di pubblicazioni.
Già dal titolo il lettore intuisce la differenza sostanziale che intercorre tra un autore vernacolare e/o dialettale e un autore neo-dialettale, nel titolo è possibile cogliere la duplice vocazione del nuovo poeta in dialetto: 1) la possibilità di ripercorrere in lungo e in largo la parlata locale, geo-localizzata in Anconìa, piegandola e forgiandola in base alle esigenze del testo e della voce autoriale; ovvero non più e non solo la registrazione dei fonemi e della lalìa originaria, della parlata locale, bensì l’adeguamento della phoné alle ragioni e agli istituti della poesia. 2) Il primo dei due lemmi che compongono il sintagma del titolo, Mal’, rinvia a una radice che accomuna malìa e malattia: entrambi i sostantivi hanno a che fare con la sfera sensibile della poesia della Modernità, ovvero la possibilità empatica e lirica di appercezione estetica del mondo; qualcosa che era del tutto ignoto agli autori premoderni o vernacolari. Il gusto, ne consegue, è di rilevante contemporaneità.
Le venature che innervano di sé questo bellissimo libro, dal sentimento di nostalgia, passando per una diffusa percezione della perdita, fino alla presenza di numerose voci, quasi un teatro (con tutti i registri del tragico, del lirico, dell’epico e del comico) di figure e figuranti di una rappresentazione di piazza bruegheliana, toccando anche le corde dell’ironia nei lampi di giudizio racchiusi in mirabili, fulminanti clausole aforismatiche, forniscono l’entità o la misura, il grado di elaborazione di testi e di pensiero.
La prima impronta naturalistica, una carrellata di vecchie fotografie che invita il lettore a leggere il libro come un’esperienza di viaggio dentro la città marchigiana, marcandone luoghi e confini con riferimenti precisi alla toponomastica di siti, scorci e monumenti, dai luoghi simbolo (il cimitero degli ebrei, la piazza del Duomo, gli archi, il Porto Vecchio) alle vie più piccole o meno rilevanti viene affiancata dalla nominazione di persone e personaggi popolari, noti o meno noti, bislacchi e marginali: una sorta di Spoon River anconetano, denso di realia e tuttavia colmo di sublimi sottintesi.
La seconda impronta o coordinata è simbolica e afferente al campo dell’analogia, propria della natura della poesia. È quella che marca i territori dell’interiorità, persino degli spazi interiori dell’immaginazione, dell’immaginario autoriale. La marca allora, anche nella accezione maiuscola di Marca, si fa couche, nucleo esistenziale, esiziale e speculativo dell’ubi consistam, di riflessione sull’essere, sull’esistere, tra naturale e trascendente, tra agnizione e negazione.
In tale ottica, Mal’Anconìa diviene il luogo ‘agonico’, secondo l’accezione luziana, di una continua riflessione sul divino. Continua riflessione sulla presenza-assenza di Dio. Non è un caso che il libro sia costellato di massime che affermano o che negano; o meglio, che pongono il dubbio al centro della riflessione o del ‘salmo’ in un’ottica che più che veterotestamentaria, si avvale delle conquiste e della problematicità cara a Sant’Agostino e a San Paolo.
Come a volte accade per alcune grandi voci, il luogo in cui si vive o in cui si è nati, si erge a emblema, anche metafisico del proprio essere nel mondo, del personale esistere e consistere. Che poi il luogo, per caso o non a caso, sia nella terra di Leopardi, infittisce di risonanze e di valenze tutto il senso di un’avventura umana, esistenziale e intellettuale. Ancona è stata nel Novecento, una capitale morale della cultura, grazie a tutto un mondo di autori, di critici, di artisti incisori e pittori, di musicisti e intellettuali, di librai e di editori, che hanno reso grande la provincia italiana: la residenza come valore, come proposta in dialogo e in ascolto con il mondo. Fabio Maria Serpilli ha saputo raccogliere il testimone, ha saputo farsi carico di una memoria linguistica e di una storia millenaria, con la grazia, la chiarità e la bellezza della sua poesia.

Anconìa

Vienìvi su da l’onbra
cu’ ‘na trecia su le spale
e le mà d’aria
Caminavi su ‘na làgrima de mare
l’anima méza
Purtavi el mondo su dó tachi a spilo
in acrobazia
un trono i fianchi
giù pe le ripe
schina strapionbo
e i pìa

Bala la Cità bèla
tanta maistosa fémina
sui fianchi e le cavije
cume che sente mùsiga

Noturno

La luna órèola el Dòmo
i lumi se ‘cende in fondo
indóve la Cità trema
nave ch’el mare dìngula
de le londe
‘na guasi mùsiga
amanca pogo
a la felicità
e n’acàda che ‘l còre
fa un sfiùto e ‘l faro
‘picia e smòrcia
quando viè lìa
nun c’è parole
una
che me basta

 

Fabio Maria Serpilli, nasce ad Ancona nel 1949. Studia filosofia e teologia alla Università lateranense di Roma.
Autore di libri di poesie in italiano e in dialetto.
Tra le opere in dialetto ricordiamo:
Castelfretto nostro (1987) con prefazione di Valerio Volpini che definisce Serpilli (su Famiglia Cristiana Ottobre 1994) “L’erede di Franco Scataglini”.
Un originale volume è considerato I luoghi dell’anima (peQuod 2002) che contiene la silloge El paès e la Cità. Nel 1999 una sua silloge Mal’Anconia (Humana editrice), è inserita nell’antologia Canto a cinque voci. In Esino, immagini e parole (2005) Serpilli elabora commenti poetici per le foto artistiche di Renato Moschini.
Del 2017 è la raccolta Lengua de aleluja nell’antologia a quattro Lingua léngua (Italic Pequod)
Nel 2010 esce il Dizionario dialettale aguglianese – Le antiche parole.
Dal 1996 cura l’antologia LA POESIA ONESTA, che raccoglie le sillogi in lingua e dialetto di autori italiani.
Dal 2005 cura le antologie di poeti dialettali marchigiani del Festival del Dialetto di Varano (AN), giunto alla 44ª edizione.
Nel 2005 esce il volume Poeti e Scrittori dialettali (Ed. QuattroVenti di Urbino) in coabitazione con Fabio Ciceroni e Giuseppe Polimeni, docente di Storia della lingua italiana all’Università di Milano.
Nel 2018 pubblica assieme a Jacopo Curi (Macerata) l’Antologia Poeti neodialettali marchigiani, per la collana de I quaderni del Consiglio regionale delle Marche.
Nel 2021 pubblica le poesie in neodialetto anconetano Mal’Anconìa, per la puntoacapo Editrice, nella collana AltreLingue.

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