Fotografia: Scientific Reports 

 

Quello che Daniele Barbieri fa nel suo ultimo libro di poesia La lepre di sangue (Arcipelago itaca 2022) è un discorso sulla vita. Una vita che va comunque vissuta, anche se non necessariamente fino in fondo, anche se in una condizione di lacerazione e insieme di inerzia, di fragilità e debolezza («falla tutta a pezzi   la melagrana, smembrala a grane / rosse tutto sangue,   tutto cola, non ti puoi scottare // benché bruci, aprila   come un organo vivo, debole // non importa che tu la   voglia davvero mangiare, basta / questo, basta vivere»,  p. 11).

La precarietà esistenziale, lo stare dentro «nel modo delle foglie», assume i contorni di una radicale e realistica consapevolezza: del fatto che ci siano momenti di stanchezza, momenti in cui ci si rende conto di riuscire ancora a schivare la morte, ma anche irruente stagioni di rinascita («(…) quando a marzo // fecero irruzione   le voci delle radici dell’erba / e la luce che ti    chiama al dovere magico di // rivivere») e poi ancora un irrinunciabile istinto di sopravvivenza che si attacca –arrendevolmente – ad alcune spensieratezze quotidiane («(…) devi abbandonare    la stanchezza che abita a volte / le parole, scrivere    come cantando nella doccia/ motivetti a caso, coprirti di vento, ecco come / sopravviverai   anche questa volta», p. 88, non a caso il testo chiude la raccolta).

Il soggetto, coerentemente con il momento storico in cui è stato concepito il libro, è avvertito come periferico nel senso che Barbieri sembra andare oltre il classicismo lirico moderno (in sostanza, il soggetto more montaliano). Secondo una tendenza delineata da Riccardo Socci nel suo Modi di deindividuazione. Il soggetto nella lirica italiana di fine Novecento (Mimesis 2022), l’autore fa vedere la realtà da un punto di vista prettamente soggettivo, ma il soggetto vero e proprio rimane marginale oppure si trasforma in una prima persona plurale e indefinita.

Rare sono le occasioni in cui l’io poetante parla in prima persona, ma quando lo fa, è una scelta di rilievo: a p. 14 l’io poetante viene assimilato ad una lepre che fugge nel cuore della notte («(..) come se attraverso   quella porta magica, fui preso // da tutto il terrore    nell’essere lepre, nella notte»). Quella stessa lepre che nel primo componimento della raccolta è la lepre di sangue, figura iconica che rappresenta la collettività in sofferenza, una sofferenza che, però, viene lasciata all’incuria; a questo stesso concetto, a questa sofferenza, a questa immobilità, insieme individuale e collettiva, rimandano le immagini del corpo citate nel libro: il corpo menzionato da Barbieri vuole conoscere «cosa rende inverno l’inverno» (p. 26) e nel complesso, il significato centrale del libro consiste proprio nella presa di coscienza della condizione esistenziale e nel desiderio, forse impossibile, di superare l’abbandono e l’inerzia e di affrontare il progressivo intorpidirsi del senso («questo il desiderio,    spalancare il corpo per affrontare / la deriva torpida   del senso (…)», p. 56)

Ci colpisce la scelta di Daniele Barbieri di indicare alla fine del libro tutti i testi riecheggiati e/o citati. Il libro tesse, infatti, fitte trame di intertestualità sia con la poesia italiana antica e del primo e secondo Novecento (Giacomo da Lentini, Ungaretti, Marino Moretti, Edoardo Sanguineti, Antonio Porta) ma anche con tanta poesia degli anni Duemila sia italiana che internazionale. A differenza di tanti poeti che negano le origini della propria poesia, Barbieri è evidentemente conscio che tutti i testi sono legati insieme e che a partire da alcuni testi se ne generano altri, in un dialogo continuo e instancabile.

L’apparato retorico de La lepre di sangue fa tutt’uno con il senso del libro: le laceranti pause infraverso, gli imperativi deittici e performativi insieme alle anafore creano un basso continuo nei testi e danno un senso di incoraggiamento sia a chi scrive che a chi legge, un’esortazione a proseguire, nella scrittura come nella vita: tutto, anche lo stile dei testi, parla di questa condizione esistenziale. In più – ed è una delle cifre distintive – nelle poesie de La lepre di sangue, realtà e metafora (o metafore, ce ne possono essere diverse, oppure anche altri traslati) si mischiano in maniera estensiva, in un amalgama diffuso e inscindibile; Presso il lago il cielo è un esempio di questo procedimento e condensa, inoltre, per stile e contenuto, i tratti salienti dell’intera raccolta; una raccolta che ci sembra cogliere appieno una, e tutte le declinazioni del vivere:

presso il lago il cielo    incombe sui giunchi come il coperchio
della casseruola   dove si stanno cuocendo i gamberi

poiché pesa il cuore   come il cielo sui gamberi e noi

noi come una pietra   sulla barca sotto il cielo e il lago
come una padella   per le scelte della vita e i gamberi

passo dopo passo   all’indietro ripercorrono gli anni
che ci hanno condotto    su quest’acqua grigia come il cielo

sul lago i tuoi gamberi   ormai immobili nel sugo

 

da La lepre di sangue (Arcipelago itaca 2022):

 

ricordo che era   viva ed era calda, poi tremava
ed era la lepre di sangue che ci ricorda tutti

i sangui del mondo, dove la sua figura finale
ci stava davanti e tremava, ed eravamo noi

eravamo noi, noi eravamo quelli, quelli che avrebbero

dovuto salvarla, né potevamo, e nemmeno poi
davvero importante che davvero vivesse, meglio quel

tremito più forte, dopo, che metteva fine al dubbio
uccidendo sguardo e imbarazzo

*

trapiantammo vene nel pavimento, di quelle nostre
dove il sangue scorre buio, l’armadio restava pieno

di nidi di volpe, tutto l’inverno ci accanimmo zitti
e caldi nel ventre docile della casa, quando a marzo

fecero irruzione le voci delle radici dell’erba
e la luce che ti chiama al dovere magico di

rivivere, noi sapevamo di non avere scampo,
noi non potevamo avere scampo, come la neve

*

fiori gialli in mezzo ai binari, piove, mercoledì,
il treno è arrivato a Cesena, il verde è in piena esplosione,

dappertutto l’erba è alta, incomincia a imbiondire il grano,

meravigliosamente tutto è banale, tutto è pieno,
tutto è tutto, siamo stanchi di essere stanchi

*

questo il desiderio, spalancare il corpo per affrontare
la deriva torpida del senso, senza che nessuna

volontà mai possa decidere il cammino, arrendersi

*

dovresti lasciare qui tutte le parole pesanti,
portarti uno zaino di corpi leggeri come sono
le effe di solito, le esse, corazze di vento,

devi abbandonare la stanchezza che abita a volte
le parole, scrivere come cantando nella doccia
motivetti a caso, coprirti di vento, ecco come
sopravviverai anche questa volta

 

 

 

Daniele Barbieri, di formazione semiologo, insegna presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna. Ha pubblicato numerosi volumi di carattere critico, in alcuni dei quali si parla anche di poesia: Nel corso del testo. Una teoria della tensione e del ritmo (Bompiani 2004), Il linguaggio della poesia (Bompiani 2011), Testo e processo. Pratica di analisi e teoria di una semiotica processuale (Esculapio 2020). Ha pubblicato due volumi di poesia (La nostra vita, e altro, Campanotto 2004; Distonia, Kurumuny 2018)  e un’altra raccolta (Canzonette) nel volume Emozioni in marcia (Fara 2015). Sue opinioni, anche sulla poesia, sul suo blog: www.guardareleggere.net.

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