Immagine: Per Elisa di Giulia Napoleone

Il corpo del testo.

Rubrica a cura di Claudia Mirrione

 

LA VITA DEGLI ORGANI

sempre torno da te dopo il viaggio e in transito
penso a cosa sia un paesaggio nella memoria,
se il mio paese ha un corpo o solo le città
che ho vissuto sono organi
Torino fegato
Roma polmone

e se le cellule che si separano hanno un cuore
una segreta vita, vivono
anche se muore l’insieme,
lo spazio di forme che occupo nella realtà

questa sera che mi rivedi come altre
immersa e semisvestita

“mangia caldo, copriti” – dici,
a questo servono le case

 

Per la casa editrice Stampa2009, diretta da Maurizio Cucchi, è uscito qualche mese fa uomini blu di Elisa Donzelli da cui scegliamo il componimento la vita degli organi: lo scegliamo perché ci sembra centrale sia per il tema che perseguiamo nel nostro osservatorio sulle scritture della corporeità, sia perché è uno degli snodi principali della plaquette, che, parte di un work in progress, lascia già intravedere in nuce una struttura di felici sviluppi.

In la vita degli organi, i temi del viaggio e della transitorietà, della città, del rapporto tra memoria e immaginazione si intrecciano ad una metafora organico-biologica che trasla il tema del passaggio in corporeità e gioca su due poli opposti (unità/separatezza): dal paese-corpo della propria immaginazione si passa ad una bipartizione (la città delle radici/la città dell’ossigeno, Torino/Roma), da questa bipartizione ad un’ulteriore separazione, quella cellulare, con rimando finale nuovamente all’unità («lo spazio di forme che occupo nella realtà»). Questa dicotomia, unità/separatezza, ci sembra portare con sé il ricordo delle stagioni passate, il presente, l’attesa di quello che verrà: con una formulazione originale, ogni parte del corpo diviene ipostatizzazione di uno stato temporale del soggetto  («sempre torno da te dopo il viaggio e in transito / penso a cosa sia un paesaggio nella memoria, / se il mio paese ha un corpo o solo le città / che ho vissuto sono organi / Torino fegato / Roma polmone // e se le cellule che si separano hanno un cuore / una segreta vita, vivono / anche se muore l’insieme, / lo spazio di forme che occupo nella realtà»).

Ma uomini bluin toto, si pone all’insegna di tale contrapposizione: l’esergo iniziale – come seguendo Margherita Guidacci, inesausta lettrice delle sacre scritture – è tratto dalla Genesi, dal racconto epico di una separazione che, come in tutte le tradizioni orientali come occidentali, dà origine all’intero cosmo, mentre il disegno di Giulia Napoleone, posto ad inizio della raccolta (cf. supra), indica l’unità nella separatezza, “separatezza osmotica e mossa, non separazione statica” (le parole sono di Donzelli stessa).

Una separatezza, dunque, che include, e che segna tutte le fasi della vita di Donzelli; da Torino, la città del radicamento, delle memorie di un’infanzia inconsapevolmente colpita dal terrorismo, fino a giungere – nomade come sono nomadi gli uomini blu (i Tuaregh cui la poetessa assimila la sua famiglia) – sull’asse Roma-Pisa: una realizzazione per lei «che non vuole il lavoro / che vogliono» (cf. midjourney). Questa separatezza inclusiva tocca anche i rapporti più intimi, i legami più privati: il passato non viene tagliato fuori, gli affetti si stratificano, così come gli amori. In essi vive questa coincidentia oppositorum, e si fa anche carne: nei due componimenti finali della plaquette, dedicati al figlio, prende forma una maternità che è sì simbiosi e visceralità, ma anche lacerazione, anche allontanamento.

 

L’unità e la separatezza intridono anche la struttura formale del nostro componimento: quattordici versi e quattro strofe, insomma un sonetto destrutturato che segue una logica binaria sottesa («sempre torno da te dopo il viaggio e in transito / penso a cosa sia un paesaggio nella memoria, / se il mio paese ha un corpo o solo le città / che ho vissuto sono organi / Torino fegato / Roma polmone»). Anche le strofe seguono una logica binaria: mentre le prime due riflettono le architetture razionali e astratte del pensiero (con prevalenza di ipotassi, ma con momenti di contrazione: «Torino fegato / Roma polmone»), le due strofe finali rappresentano una situazione concreta, l’accoglienza e l’atmosfera della casa, descritta con tocchi veloci: vedi i deittici e gli imperativi. Il tutto appare filtrato da una dizione prosastica e comunicativa: ancora una volta Margherita Guidacci sembra lasciare in Donzelli un suo segno.  Tuttavia, questa logica binaria che scinde il verso, il pensiero, le situazioni, rimane comunque osmotica e inclusiva e trova il suo motivo guida negli explicit di fine verso in cui Donzelli affonda e trova poi ancora una continuità: essi sono la struttura portante e però dislocata del componimento.

Non possiamo fare a meno di notare che la punteggiatura è ridotta al minimo essenziale. La voce poetante transita, tra i versi e nella vita, nomade nata da stirpe di nomadi: il rimando alla stabilità della casa è come sospeso, senza un punto. Senza un approdo definitivo.

 

 

 

 

 

Elisa Donzelli è nata a Torino nel 1979 e vive a Roma. Autrice di libri e saggi sulla poesia e la letteratura italiana e straniera del Novecento, è professore associato presso la Scuola Normale Superiore di Pisa. In poesia ha esordito con la raccolta album (nottetempo 2021) ed è risultata vincitrice dei premi “Poesia Città di Legnano – Giuseppe Tirinnanzi”, “Alma Mater – Elena Violani Landi Opera prima” dell’Università di Bologna e “Premio letterario Metauro”. Dirige la collana di poesia della Donzelli Editore ed è fondatrice e direttrice del collettivo poetipost68.

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