Postulato, in forma di premessa

Si intende per poesia la determinazione scritturale per eccellenza come forma d’arte in senso lato. Si intende con prosa un po’ quello che per Molière, nel famoso dialogo di Monsieur Jourdain col Maestro di Filosofia, consiste nell’esclamazione del protagonista:
Jourdain: Come? quando dico: «Nicoletta, portami le pantofole, e dammi il berretto da notte», è prosa?
Maestro di Filosofia: Sì, signore.

Jourdain: Per tutti i diavoli! Sono più di quarant’anni che parlo in prosa. Vi sono molto grato di avermi informato.

Nel definire il tì estìn della poesia, occorre preliminarmente, a mio avviso, determinare ragioni e modi di un soverchiante e paradossale cattivo uso del linguaggio molto diffuso al giorno d’oggi: quello dell’applicazione indebita di alcuni principi strutturalistici alla poesia.

Se lo strutturalismo ha teso, insieme al formalismo, a isolare il testo (comunicativo e artistico) dal contesto (storico e sociale), per rendere le opere mondi chiusi autonomi e universalmente validi metacronicamente per tutta l’umanità, non si capisce come la letteratura di ogni epoca inquadrata come tale, compresa quella del Ventesimo secolo e del qui-ed-ora, possa sopravvivere al massacro: un autore come Pasolini, ad esempio, che fa del vissuto autobiografico e del contesto politico, storico e sociale il sostrato di tutta la sua opera in senso antropologico, isolato da tali contestualizzazioni non sarebbe nulla, ovvero non sarebbe artista, bensì solo un letterato. Il letterato in quanto tale si differenza dall’essere artista per il fatto che, mentre il secondo offre una chiave di lettura ulteriore del sistema di riferimento culturale all’interno del quale, in quanto inquadrato in un tempo storico, è giocoforza immerso, il primo invece non fa che mostrare uno scorcio interessante, al massimo, per lo studio sociologico del suo tempo storico, che al limite, se le carte sopravvivono, si offrirebbe all’ermeneusi soltanto di terzi, ovvero i critici e gli studiosi a venire. Senza questa distinzione fondamentale, di conseguenza, le opere di Pasolini, destituite completamente da qualsivoglia valore artistico perché certo dal contesto non possono prescindere, non si ridurrebbero ad altro che a fonti storiche di tipo documentale, catalogabili come tali, dotate della stessa identica valenza di una moneta arrugginita, di un indumento stracciato e sedimentato negli scavi archeologici e archeotipici, di una ipotetica tavoletta in cuneiforme, contenente non altro che un’anonima e asettica lista mesopotamica della spesa: mera letterarietà documentale, non poesia. Cosa che ovviamente, nel caso specifico e in molti altri, non si dà.

Pensiamo a Barthes che nel 1968 proclama la morte dell’autore. È assolutamente vero che con Barthes “non appena comincia a scrivere, l’autore entra nella propria morte”, affidando l’ermeneusi della propria opera al lettore postumo o presunto; ma questo è vero per il fondo concettuale di ogni opera, non tanto per ciò che le rende forma, per quel residuo estetico di quiddità ineliminabile che pure la determina in quanto opera storica, referenziale, testimoniale ma che permane come elemento di scarto rispetto alla semplice dimensione storica, referenziale, testimoniale.

Perseguire la morte dell’autore, se portata alle estreme conseguenze letterali, conduce inevitabilmente verso un’espressione artistica depurata da qualsivoglia soggettivismo, calata com’è in un oggettualismo anch’esso letterale, copia empirica della realtà empirica. Un oggettualismo di tal sorta, però. pone inevitabilmente una serie di dualismi a cascata, oltre l’immediato riferimento alla distizione soggetto/oggetto, generando giocoforza il manicheismo impedente che separa vita e opera, forma e contenuto, poesia e prosa. Ma che senso ha distinguere ancora poesia e prosa, oggi?

Non è un caso che Michele Zaffarano, in un’intervista a cura di Francesco Pontorno su pordenonelegge.it, per definire con una boutade la prosa in prosa citi proprio il noto passo di Molière sopra addotto, ovvero la definizione che il Maestro propone a Jourdain: “tutto quello che non è prosa è verso, e tutto quello che non è verso è prosa”, rifacendosi infine J. M. Gleize che afferma: “la prosa è la continuazione della poesia con ogni mezzo”.

La prima affermazione molièriana è colma di ironia in quanto banale e naif; la seconda, però, può essere strutturalisticamente rivoltata nel suo contrario. È altresì vero, infatti, che la poesia sia la continuazione della prosa con ogni mezzo: figurale, analogico, formale. Ma è anche vero che se esiste una distinzione, essa viene circolarmente posta dalla sua stessa determinazione. Ovvero: se la prosa è prosa, è prosa in quanto prosa; se la poesia è poesia, è poesia in quanto poesia, ma anche viceversa: la prosa è prosa se è prosa, la poesia è poesia se è poesia. E via di questo passo, all’infinito. Fino alla prosa in prosa, che è prosa, se è prosa. O, per dirla con Antonio Pizzuto, a è b, se a è b, finché a è b.

L’annullamento del dualismo, in effetti, non è mai innocuo ed esangue: nell’osmosi dialettica, inevitabilmente, con l’auf-gehoben, se pure si accresce la determinazione via via nel suo farsi, da qualche parte si perde sempre qualche cosa, checché Hegel ne dica. Poniamo però il caso che si superi il limite asfittico della determinazione categoriale e della differenza tra poesia e prosa in quanto generi distinti, come in molte scritture esplorative e di ricerca si cerca di fare da diversi anni a questa parte anche in Italia. Se identificassimo poesia e prosa come tentativi parziali e in fieri di commistione metagenere, ciononostante non verrebbe lo stesso superata la divergenza sottesa alle differenti istanze comunicative che afferiscono alla poesia in quanto tale rispetto alla prosa. Giacché il vero dualismo da indagare per venirne a capo non è quello del genere, ma quello tra forma e contenuto.

In un mio vecchio articolo pubblicato su Diaforia da Daniele Poletti, nominavo per quanto riguarda gli autori della Prosa in prosa (Gherardo Bortolotti, Alessandro Broggi, Marco Giovenale, Andrea Inglese, Andrea Raos e Michele Zaffarano) “l’esplicita ripresa delle movenze e dei dettami di Jean-Marie Gleize sulle orme di Francis Ponge, laddove il richiamo è alla letterarietà senz’ulteriore determinazione di senso, senza cornice sottotestuale di sorta: ciò che Zublena, insomma, definisce come assimilabile alla «littéralité di Gleize» che essendo «insieme assenza di sovrasenso e riferimento all’evidenza della tipograficità alfabetica, conduce alla redazione di testi che sono sommamente chiari e enigmatici a un tempo», in una forte determinazione del cosiddetto “infraordinario”. Questa declinazione della poesia in prosa è stata esplorata dagli autori succitati con l’intenzione esplicita di proporla come tertium datum rispetto alle modalità tradizionali della poesia e della prosa narrativa in quanto tale (romanzo, racconto eccetera), tale che, nelle loro intenzioni, di poesia in prosa alla fine non si potrebbe, a rigore, nemmeno più parlare”.

Proponevo lì una quarta possibilità (oltre alla poesia in poesia, alla poesia in prosa, alla prosa in prosa), ovvero la prosa in poesia come manifestazione di un’auspicata tendenza (da me perseguita all’interno di una produzione narrativa metagenere volta al neomassimalismo come fusione di istanza poetica, prosastica e filosofica con Opus Metachronicum del 2014 e il recentissimo Opus Metamorphicum); proposta che, a ben vedere, non fa altro che coincidere con quella di un contenuto posto in forma di poesia nel senso di informato dall’istanza poetica, pur mantenendosi in prosa; peraltro non coincidente con la definizione di prosa poetica o di prose-poem (che è sempre, volendo, un mero genere), bensì nel senso estetico del fatto che, per farsi arte, una prosa deve mantenere un elemento scrittorio che diviene scritturale, ovvero un’intenzione artistica determinata dalla forma che le si dà. Motivo per cui, come ho detto molte volte anche altrove, è la forma la determinazione del poetico in quanto tale, mentre il contenuto può essere oggettivamente qualsiasi cosa.

In effetti, per attenersi alla questione della differenza categoriale tra poesia e prosa (pur non credendo alle categorie se non come modalità di sistemazione provvisoria della materia d’indagine), occorre comunque rendere atto del fatto che molta gente si esprime ancora andando a capo, e se lo fa, ci sarà un perché. La domanda conseguente è: nonostante i multiformi tentativi post-poetici di superare il dualismo tra poesia e prosa, perché esso sembra ostinatamente permanere come Grund sostanziale al netto del lavoro di ricerca?

Per rispondere a questa domanda, in base a una prospettiva filosofico-estetica, occorre tentare di identificare quale sia il principio su cui il poetico si poggia. In anni di ricerche filosofiche sul campo, non ho fatto altro che scoprire “l’ovvio della non-ovvia condizione dell’ovvio” (Emilio Garroni): mi sono persuasa, infatti, che il principio di determinazione estetico della poesia intesa come atto artistico (anche laddove sia espresso in prosa) non sia altro che l’analogia.

Lo spostamento semantico continuo del senso che viene operato all’interno del linguaggio poetico è, a mio avviso, la vera causa sui del poetico in quanto tale. In questo senso, nell’introduzione all’antologia La parola informe (Marco Saya Edizioni 2018) parlavo di una “esperienza poetica per eccellenza: quella dell’intuizione aurorale, in dotazione ad ogni essere umano, ma presente nell’artista in maniera esemplare, che esista un nesso retrostante all’accostamento tra le parole e le cose stesse, possibile unicamente in virtù del principio cardine del poeticum in quanto tale, ovvero l’analogia” (cit. p. 8), nel senso che “lo spostamento di significato operato dai tropi che fondano la propria ragion d’essere sull’analogia garantisce i più eccelsi livelli di evocatività e comunicabilità espressi attraverso il massimo grado dell’arbitrio” (cit., p. 9).

Con le prossime puntate della presente rubrica, approfondiremo la distinzione tra poesia e prosa e tra forma e contenuto in senso estetico nonché il concetto di analogia come fondamento del poeticum che abbiamo qui appena introdotto, per vedere come in realtà alla fine, nel prodotto artistico in quanto tale (artistico, non semplicemente documentale), il dualismo dilegui nell’identità irriflessa.

Intanto, si rileggano i tre testi qui riportati: Pasolini, che notoriamente “non prende l’Optalidon”, si ostina a ostendere un io politico, nel senso di lirico e civile insieme, pur nel dileguamento delle forme classiche: soffre di varie algesie, prima fra tutte il dolore che lo abbarbica al mondo (e all’io) con una “disperata vitalità”, ma proprio per questo rimane in lui la forza del poeta vero che non teme di autopronunciarsi. Zaffarano, dal canto suo, ci mostra un saggio di sparizione del vitalismo sofferente del primo e di tanta progenie poetica successiva, certificando che pure senza l’io “qualcosa di autentico avanza comunque, si rivela” persino nella prosa del mondo; ma, aggiungiamo noi, a patto che la datità del testo si dia nel figurale e continui ad affidarsi all’ermeneusi del lettore barthesiano di turno. Daniele Bellomi, infine, ci offre un saggio di fusione tra le istanze (lirica/ricerca, forma/contenuto, poesia/prosa), laddove la forma poetica (in senso strutturale) si adegua al dettame dello spostamento continuo di senso nella prassi di una scrittura analogica totale, che fonde contenuto e forma, e fa del primo corpo simbiotico con la seconda.

Vedremo in seguito, se avrete la bontà di seguirmi, come superare l’impasse manichea dei dualismi tramite il principio dell’analogia, che dovrà essere ulteriormente approfondito, anche e soprattutto nel senso di intendere la poesia come “la determinazione scritturale per eccellenza come forma d’arte in senso lato” di contro all’unico senso in cui la prosa non coincida con la poesia, ovvero laddove la prosa non sia intesa come scrittura che sorge da intenzioni letterarie e artistiche, ma, alla Molière, come “uso banale del linguaggio”.

Giacché, è questo il punto, la prosa in senso scrittorio non è affatto antitetica, bensì coalescente alla poesia, e dunque appare paradossale e contraddittorio parlare di post-poesia in senso estetico; principio sottile, che andrà anch’esso ulteriormente spiegato.

Buona lettura.

Pier Paolo Pasolini, da Poesia in forma di rosa (Garzanti 1964)

Quanto al futuro, ascolti:
i suoi figli fascisti
veleggeranno
verso i mondi della Nuova Preistoria.
Io me ne starò là,
come colui che
sulle rive del mare
in cui ricomincia la vita.
Solo, o quasi, sul vecchio litorale
tra ruderi di antiche civiltà,
Ravenna
Ostia, o Bombay – è uguale –
con Dei che si scrostano, problemi vecchi
– quale la lotta di classe –
che
si dissolvono…
Come un partigiano
morto prima del maggio del ’45,
comincerò piano piano a decompormi,
nella luce straziante di quel mare,
poeta e cittadino dimenticato.”

(Clausola)

“Dio mio, ma allora cos’ha
lei all’attivo?…”
“Io? – [un balbettio, nefando
non ho preso l’optalidon, mi trema la voce
di ragazzo malato] –
Io? Una disperata vitalità.

Michele Zaffarano, 20, da Prosa in prosa (Tic Edizioni 2009)

L’autentico. Oppure il libro che non sarebbe mai stato scritto se le parole non avessero assunto questa forma particolare di bêtise. Il lavoro, gli aneddoti raccontati. Nessun dubbio che ciò che viene letto possa finire per restare impresso. Nello stesso tempo, l’ascolto percorre i suoi sentieri, inganna chi resta all’interno dell’ambito. Se ancora, in casa, c’è un ambito, se ancora ci sono le categorie di interesse, i manichini non convenzionali, la possibilità di un racconto pensato per lamentarsi. Nel corso di queste righe, non c’è alcuna intenzione di rivelare fatti intimi, alcun desiderio di esibirsi in modo sconcertante. Di questo parleremo in seguito. Intanto: togliere di mezzo, ripulire con cura, non scrivere nulla per nulla, offrire le stesse astute bêtises del quotidiano, farle durare, sentirle esistere, resistere, e poi eliminarle, parlare, parlare. Spesso capita che dalla scrittura il dubbio su ciò che viene letto sia posto addirittura dagli invitati. Qualcosa di autentico avanza comunque, si rivela.

Daniele Bellomi, da La parola informe. Esplorazioni e nuove scritture dell’ultracontemporaneità (Marco Saya Edizioni 2018)

l’effetto punta si è esaurito, la resistenza resta capillare, figurata.
l’impressione oppone la sua forza, argina l’infranto, il monocorde, il
morso infetto, il bagno aspettuale, la perseveranza, il nunca mas.
condurre alla cacciata, comprendere rotte e sbaragli,
sbandamenti, l’inclinazione stabile delle morìe, la renitenza della
riva, la misura del particolato, la resa, la predeterminazione. il
gioco degli allarmi ottici attivati, dopo le armi, avviene per
condurre al cedimento. dalla fuga termica si legge la deriva,
l’accento, il deludere, la dispersione dell’unico niente per parole.
nel paesaggio terminato
i raccordi prima o poi saranno elusi, let them use, “anche come
aggettivo (vedi voce)”: basterebbe, in fondo, accedere da
dentro, piegare la struttura dall’interno, accompagnarla del
tutto fuori bordo, essere in grado di ridurne la pendenza,
regolarne l’alveo.

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