In Approssimazioni ad Assetto di volo1, Rodolfo Zucco sottolinea i profondi criteri di simmetria e dissimmetria che sottostanno all’opera di Pierluigi Cappello da Ecce Homo (Comunità montana della Carnia 1989) ad Assetto di volo (Crocetti 2006); essi sono evidenti soprattutto in un volume riassuntivo quale è Assetto di volo, raccolta che, di fatto, nasce dall’aggregazione, aggiornata anche con testi poetici recenti, dei lavori di Cappello già precedentemente editati (anche se modificati o volutamente non considerati per motivi di mancata maturità stilistica, come nel caso de Le nebbie2 o di Ecce Homo). Essa va guardata, dunque, come risultato di un’operazione intellettuale che implica un porsi nella dimensione del tornare.

Prendendo in esame le date di composizione delle singole raccolte – sezioni (escludendo le due intenzionalmente non inserite dall’autore in Assetto di volo), si può notare come La misura dell’erba contenga poesie scritte dal 1993 al 1998, mentre i testi raccolti in Amôrs siano da collocare tra il 1992 e il 1999; a questa sovrapposizione cronologica corrisponde un’opposizione linguistica tra italiano e friulano. Riflessioni simili si possono fare per le due rimanenti sezioni, Dentro Gerico e Dittico, laddove la prima è datata 1998 – 2002, la seconda 1999 – 2003 (in questo caso la prima è in italiano, la seconda in entrambe le lingue). Questi dati ci permettono di individuare in Assetto di volo almeno due spunti: i motivi di una simmetria tra versificazione in friulano e in italiano; il ritorno come una delle possibili direzioni comuni nella scrittura dell’autore.

 

Motivi di una simmetria tra versificazione in friulano e in italiano

Giovanni Tesio, nella prefazione ad Assetto di volo, scrive:

«Questa è anche la via per capire – nell’itinerario di Cappello – la compresenza e la consistenza del friulano (lasciamo stare, qui, di quale friulano) e di italiano. Tra uno strumento e l’altro non c’è scissione ma passaggio, non un dire più diretto e immediato, univoco e unidirezionale, ma un’unione spezzata che implica un ritorno: voce che continua a sporgersi dallo spaesamento cui ciò che si perde induce per metafora più che per nostalgia. Ancora una volta non un movimento che guarda soltanto indietro, ma – heideggerianamente – un moto pendolare. Non c’è un prima e un dopo, ma uno spostamento di spola. Cose che chiedono di essere dette in friulano, cose che chiedono di essere dette in italiano.»

Varie sono le ragioni (formali e contenutistiche) che si potrebbero ipotizzare come motivo di un bilinguismo nella scrittura di Cappello. Per dire, una natura prosodica monosillabica del friulano («jo, ch’o soi ma no soi/ ce ch’o soi stât, ch’o stoi»3) in antitesi al pesante polisillabismo italiano. Tuttavia, le motivazioni dell’autore che sottostanno alla scelta di utilizzare una lingua in alternativa all’altra sembrerebbero essere più legate a questioni riguardanti il significato del dire in versi. Zucco parla giustamente del friulano in Cappello come «luogo mentale di una scrittura sapienziale» in opposizione a un italiano utilizzato invece come lingua dell’esperienza e della realtà. Lo si vede bene, ad esempio, nel modificarsi del soggetto lirico durante il passaggio dai versi in friulano di Dittico a quelli in italiano: dalla prima persona singolare che domina la sezione Inniò (lasciando, però, ogni tanto spazio alla seconda persona singolare, in una sorta di costante dialogo), si trascorre, in Ritornare, a una diffusa prima persona plurale. Da un Io prettamente lirico e interiore, dunque, a un Noi volto verso l’esterno, a una scrittura più narrativa e di un’epica del quotidiano. Inoltre, in tal senso è interessante sottolineare come nei testi le due lingue vengano sempre accostate dall’autore in maniera appositiva; in altre parole, anche nelle pochissime liriche in cui italiano e friulano sono presenti entrambi assieme, essi vengono sempre distinti dal poeta grazie all’utilizzo di soluzioni grafiche come i corsivi (tanto è vero che proprio in Assetto di volo Cappello elimina da Amôrs la sezione di traduzioni in friulano di Caproni in quanto poesie in cui una lingua si fa palinsesto dell’altra).

 

Il ritorno come una delle possibili direzioni comuni di una scrittura

L’esplorazione del concetto di ritorno, se già è individuabile nell’operazione intellettuale complessiva di Assetto di volo e in alcune banali evidenze testuali (la seconda sezione di Dittico si chiama Ritornare), lo è anche in altri aspetti, come ad esempio l’intertestualità esposta in Amôrs: i testi della sezione Il me Donzel, infatti, propongono un dialogo con la scrittura friulana di Pasolini (basti solo guardare a termini come «Donzel», «Rosada»4) che non è solo formale ma è anche un confronto tra due condizioni dello stare in un paesaggio friulano storicamente e socialmente mutato; i componimenti della sezione Amôrs, invece, recuperano modi e forme della lirica trobadorica (di cui è attestata una tradizione friulana dal 1300) in un confronto con la Domine (Zucco frettolosamente accosta questa operazione al Giudici post – moderno di Salutz quando invece sarebbe meglio essere prudenti come è Giuseppe Zoppelli5 e guardare a un gesto di pensiero diverso in Cappello). Il tornare, però, lo si trova anche in quell’intercedere per epanalessi e anadiplosi («lì c’era il verde del verde lì c’era»5) o a tratti per poliptoti e in maniera come anaforica (dunque iterata sempre sul medesimo tratto) frequente nella scrittura dell’autore (cito, ad esempio, la poesia Rondeau con quel «in nissun puest» e la rima finale ripetuta nel primo verso di ogni strofa) o, ancora, in negativo (come impossibilità di ritorno, di direzione che si faccia interiorità) nell’orizzontalità delle figure umane di Ritornare lasciate come abbozzi di descrizioni quotidiane che non hanno spinta, verticalità, ripiegamenti nel sé ma solo quel «fuori» in cui «c’è troppo poco cielo per dire domani / per dire cosa siamo stati»6.

1 Rodolfo Zucco, Approssimazioni ad Assetto di volo, in G. Borghello, D. Lombardi e D. Pantaleoni (a cura), Per Teresa. Dentro e oltre i confini. Studi e ricerche in ricordo di Teresa Ferro, Forum, 2009.

2 Pierluigi Cappello, Le nebbie, prefazione di Maria Tore Barbina, Campanotto Editore, 1994.

3 Nono componimento in Il me Donzel, sezione di Amôrs in P. Cappello, Assetto di volo, op. cit.

4 Settimo componimento in Il me Donzel, sezione di Amôrs in P. Cappello, Assetto di volo, op. cit.

5 Giacomo Vit e Giuseppe Zoppelli (a cura), Fiorita periferia. Itinerari nella nuova poesia in friulano, Campanotto Editore, 2002

6 In un bar, a Chiusaforte in Ritornare, sezione di Dittico in P. Cappello, Assetto di volo, op. cit.

 

 

 

Testi tratti da Assetto di volo (1993 – 2004)

 

da La misura dell’erba (1993 – 1998)

Esco in giardino, stanco, a mezzasera;
lì c’era il verde del verde lì c’era
il cielo del cielo lì c’era il vero
perduto di me nel perdermi
o per farmi archeonauta di me stesso
con il passo che da seguito al passo
dentro quel verde che ricordo scorto
scendere le erbe e morbide salite
e, ahi, quanto la pietra di pietra in pietra
a poco a poco in sabbia passo, e come
dentro il numero del cerchio smarrite
nascono e rinascono le ore, e quanto
quello che era ieri non era, ma adesso

***

da Amôrs (1992 – 1999)

Mondimi me, che par volê florî
di flôr in flôr florint soi deventât
ramaç no in flôr nì niçulât da l’aiar:
libare tu, Domine mê, la mê
libertât, metimi dentri tai vôi
la lûs tenare e garbe de to piel di vencjâr:
l’amôr al è cuant che i miei deits
a tocjâti a deventin
la ponte dai tiei.

Mondami, che per voler fiorire di fiore in fiore, fiorendo sono diventato un ramo senza fiore, né mosso dal vento: libera tu, Domine, la mia libertà, mettimi dentro gli occhi la luce tenera e aspra della tua pelle di vinco: l’amore è quando le mie dita a toccarti diventano la punta delle tue.

***

Donzel, anime magre,
peraule di cjatâ;
mi vûl une rosade
disore cheste sagre

di cartelons e spots
e trends e leasings, bars
e marketings e stops

che, cotulis di bande,
a balin di lusôr
parsore il cidinôr.

Donzel, anima magra, parola da trovare; mi serve un velo rorido sopra questa sagra di cartelloni e spot e trend e leasing, bar e marketing e stop, che come gonne di latte ballano di luccichìo sopra il silenzio.

***

da Dentro Gerico (1998 – 2002)

GERICO

È raro sentire cantare per strada
molto più raro sentire fischiare
o fischiettare
se qualcuno lo fa
l’aria sembra fargli spazio
ti sembra che un refolo muova
la flora dei tuoi pensieri
ti metta dove prima non eri;
ma come passa chi fischia
la noia stende la vertebra al sole
e tu rientri dov’eri
dietro il douglas dei serramenti
dentro il livore
degli appartamenti
al tango delle dita sul tavolo ti chiedi
da quali trombe scosse
scrollate le mura
per quali brecce potremo vedere
– fresca –
come un sogno appena sbucciato
la terra che calpesteremo, allegri.

***

da Dittico (1999 – 2003)

INNIÒ

E cuan’ che tu sarâs già muart, ma muart
chês tantis voltis dentri une vite
ch’a si à di murî, alore slargje ben i tiei vôi
a la cjavece dal sium
e clame cun te ogni bielece ch’a ti bisugne
e intal rispîr di chel mont, met dentri il to:

cjamine pûr cun pîts lizêrs e sporcs
come chei di chel che sivilant al va par strade
ma tant che cjaminant su un fîl di lame fine
e al indulà che tu i domandis
lui, ridint, a ti rispuint
cence principi o pinsîr di fin:
«Jo? Jo o voi discôlç viers inniò»
i siei vôi celest, piturât di un bambin.

In nessun dove. E quando tu sarai morto, ma morto quelle tante volte dentro una vita che si deve morire, allora allarga bene i tuoi occhi alla cavezza del sogno e chiama con te ogni bellezza di cui hai bisogno e nel respiro di quel mondo, metti dentro il tuo: cammina pure con i piedi leggeri e sporchi come quelli di chi fischiettando va per strada, ma come camminando su un filo di lama sottile, e al dove vai che tu gli chiedi, lui, sorridendo, ti risponde senza inizio o pensiero di fine: «Io? Io vado scalzo verso inniò», i suoi occhi il celeste, pitturato da un bambino.

***

IN UN BAR, A CHIUSAFORTE

Guardate come sta, come sta in piedi ancora
i pantaloni senza la riga, larghi sul davanti
e appena sporchi agli orli
la giacchetta era delle feste
dei Natali e dei funerali
e adesso stringe gli anni e insieme
un magro di scapole e le spalle
piegate sul bancone, manda dai polsini il bianco della mano
per dire mettimi davanti un altro nero
e fa’attenzione al colletto.
Quel poco di sé è le montagne di Chiusaforte
quando d’inverno si spaccano col gelo
e un poco franano ogni giorno.
Uno qua uno là, gli altri leggono il giornale
guardano la televisione da lontano
dove un cuoco e una allegra con le tette grosse
insegnano ricette.
Fuori c’è troppo poco cielo per dire domani
per dire cosa siamo stati
e il sole splende sull’autostrada
e sulla corsa delle macchine
quando uno apre la porta ed entra per guardare
come se il tempo lo guardasse da sempre.

 

 

Pierluigi Cappello ha pubblicato le raccolte di poesie Ecce Homo (Comunità montana della Carnia 1992), Le nebbie (Campanotto 1994), La misura dell’erba (Ignazio Maria Gallino Editore 1998), Il me Donzel (Mondovì 1999), Amôrs (Campanotto 1999), Dentro Gerico (La barca di babele 2002), Dittico (Liboà editore 2004), Assetto di volo (Crocetti 2006), Mandate a dire all’imperatore (Crocetti 2010), Azzurro elementare (Rizzoli 2017), Stato di quiete (Rizzoli 2016); il romanzo Questa libertà (Rizzoli 2013); la raccolta di prose e interventi Il dio del mare (Lineadaria Editore 2008); l’antologia di traduzioni in friulano Rondeau. Venti variazioni d’autore (Forum 2011); il libro di filastrocche per bambini Ogni goccia balla il tango (Rizzoli 2014). Per il suo lavoro poetico ha ottenuto il Premio Viareggio – Repaci 2010.  È morto nel 2017.

 

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