Immagine: Studio UAE

Recensione di Fabrizio Ferreri

Avvicinare, anche per semplice occasionalità, libri di poesia distanti come le raccolte Scienza d’amore (Ensemble Editore 2022) di Marilina Giaquinta e I silenzi (Archilibri Poesia 2021) di Fabrizio Cavallaro, può offrire lo spunto per incursioni non accademiche, e dunque tanto più vitali, nell’orizzonte poetico di autori il cui accostamento, per quanto contingente, diventa singolarmente rivelatore di motivi e aspetti di poetica altrimenti meno visibili. Due autori, Giaquinta e Cavallaro, molto diversi tra loro, ma con un tratto – fondativo – in comune: sono due poeti comunicativi, che non temono di ricercare il senso e di ancorarlo a un’esperienza reale. Per la loro ricerca di una chiarezza espressiva corrono, consapevolmente, il rischio di risultare marginali rispetto a certa poesia contemporanea paga della propria autoreferenzialità. Due libri, Scienza d’amore e I silenzi, anch’essi, seppur distanti per forma e stile, con un elemento fondamentale in comune: l’amore. Il libro della Giaquinta più esattamente è un libro sull’incapacità di amare (“Ci portiamo addosso/ dentro il pensiero/ nei segni delle parole/ milioni di anni/ di evoluzione/ senza riuscire/ ancora ad amare.”, pag. 140, vv. 51-57), quello di Cavallaro sull’impossibilità dell’amore. L’amore, tema comune, viene però declinato secondo due misure differenti, che configurano anche due differenti “antropologie”. Quella della Giaquinta potremmo definirla a tutti gli effetti “un’antropologia relazionale”: si è, in senso forte, dentro alla relazione, in forza di essa (“Siamo inganno/ separato dal senso/ siamo il rumore del mondo.// Siamo amore senza saperlo”, pag. 14, vv. 21-24; “[…] il mondo accade solo insieme/ e si costruisce solo nella relazione”, pag. 110, vv. 24-25; “[…] l’unica realtà/ che conosciamo/ è che siamo continui/ a ogni altro/ e non possiamo/ risolverci da soli”, pag. 87, vv. 19-24). La verità del nostro essere risiede nell’Altro, non nell’altro qualsiasi ma nell’Altro che ci ama e che, amandoci, ci restituisce a noi stessi.

Non è però tutto così semplice. Questo essere – questa verità – che l’amore ci restituisce non è pieno (non è pienezza), non è compiuto (non è compiutezza), ma è apertura che ci mantiene nei nostri vuoti, nelle nostre mancanze, perché se ne prende cura e le custodisce: l’amore non riempie i nostri buchi ma ci libera ai nostri vuoti, alle nostre imperfezioni, è “il perfetto incompleto” (pag. 75, v. 24), ci restituisce il nostro essere “incerto di caso” (pag. 110, v. 3), la cui “condizione” “è l’errore” (pag. 32, vv. 27-28), un essere quindi, proprio in ragione delle sue incolmabili slabbrature, non rinchiuso in se stesso, nel proprio baricentro, ma capace di divenire plurale, come nella bellissima poesia che segue di pag. 49:

L’unico rimedio
è non separare
essere tutti gli altri
non distinguersi
pensarsi indeterminati
non avere un baricentro
la stabilità e la sicurezza
del riflesso di sé
cercare
l’abbandono e la scoperta
di altre mani
essere
l’indifferenza della notte
in cui non c’è contorno
o profilo d’anima
o angolo di sorte
visibile.
[…]

Plurale proprio perché attraversato, come detto, dalle fenditure dei propri vuoti: noi incontriamo l’altro solo a partire e per mezzo dei nostri vuoti (“e ci muove la mancanza/ cava del nostro difetto”, pag. 83, vv. 35-36); se fossimo pieni d’essere resteremmo chiusi in noi stessi, in una solitudine assoluta come quella del dio di Aristotele, pensiero di pensiero, che in quanto perfetto può pensare solo la perfezione ovvero se stesso. Questo essere plurale-mancante è espresso in versi mirabili: “Noi siamo fatti/ per esistere/ come attrazioni/ di stelle” (pag. 78, vv. 21-24): siamo campo aperto di forze, di attrazioni multiple, la nostra verità non è dentro di noi, ma fuori, spiegata nelle relazioni, nelle connessioni – amore è forza di connessione, è la continuità dell’essere (pag. 87, vv. 7-22):

Ma davvero
siamo parti
di un insieme
che va scomposto
per essere capito?
[…]
Quando l’unica realtà
che conosciamo
è che siamo continui
a ogni altro
e non possiamo
risolverci da soli.

L’amore non fa dunque del nostro essere-errore (un’erroneità che è individuazione, clinamen irriducibile, ecceità) un essere perfetto, l’amore, con piglio filosofico, è “accidente” (pag. 54, v. 13), è “[…] malinteso/ che esclude la comprensione” (pag. 54, vv. 14-15). La scienza d’amore di Giaquinta, conseguentemente, non è una scienza dei conti che tornano, dei rapporti causa-effetto, una scienza euclidea; è una scienza in cui “[…] se unisci due cuori/ non sarà mai una somma/ perché se così fosse/ peserebbero di più/ mentre il mio è leggero/ e batte veloce/ adesso che tiene dentro/ il tuo” (pag. 73, vv. 30-37): questa scienza sovverte ogni algebra possibile, ogni calcolo, ogni stringente raziocinio. La scienza dell’amore che qui ci viene offerta, fuori da ogni consunto romanticismo d’accatto, è evidenza della contraddizione, della contraddizione significante: “Amarti/ (voglio dirti)/ è senso/ che mi divide/ e che mi aggiunge” (pag. 95, vv. 30-34); “Tu sei il mio caos/ che mi consiste” (pag. 107, vv. 47-48).

Il pensiero – nel riferimento esplicito da parte della poetessa allo scienziato Damasio – non è macchinico, vive di emozione; vive non di ripetizioni stantie come nella logica ma di unicità che solo il silenzio sa dire, che la parola è sempre sul punto di tradire e soltanto il silenzio sa preservare. Quel silenzio che ritroveremo, centrale, sin dal titolo, anche nel libro di Cavallaro. Per amare bisogna accettare che la comprensione, sempre autocentrata, non sia tutto, bisogna sentire che esiste un’ulteriorità, e infatti se lo sguardo, come da tradizione filosofica, esprime questo bisogno di capire e spiegare ogni cosa riportando a sé, la Giaquinta rileva prontamente “la maledizione dello sguardo/ che sta sempre aperto sul mondo/ che si chiude solo quando bacia/ che neanche il sogno riesce a farlo cieco” (pag. 121, vv. 47-50).

Dal punto di vista formale e stilistico, l’andamento delle poesie della Giaquinta, riflessivo-raziocinante, spesso filosofico e pertanto in equilibrio intorno a un proprio asse, è sempre fatto saltare dall’interno da una forza magmatica incandescente, ora ironica ora torrentizia che non si mantiene alla logica, la supera. Qui probabilmente sta il senso di ricorrere alla poesia per parlare d’amore: la poesia consente questo salto oltre la logica che non la nega ma la riconosce e la oltrepassa terremotandola dall’interno in funzione di un’ulteriorità eminentemente terrena ma sempre di là dall’essere raggiunta che solo la poesia sembra in grado di custodire o indicare. La poesia stessa, in tal senso (pag. 125, vv.24-37), è amore:

E tu che mi ascolti
ascolti me che scrivo
che ti leggi e ti riconosci
in questa mancanza di versi
in questa pena che va
e non sa andare
tu che mi ascolti
[…]
chiedimi di scrivere ancora
così che dovrai ancora ascoltarmi
che io mi attardi ancora a scrivere
e ancora continuare ad amarti.

È amore poiché è apertura integrale e autentica verso il lettore, il quale costituisce qui quell’oltre, quell’ulteriorità/alterità rispetto all’ego del poeta verso cui sia Giaquinta che Cavallaro costantemente tendono nella loro scrittura. La poesia di Cavallaro si impone come immediatamente fotografica, fotogrammatica. Il suo libro, si diceva, è un libro sull’impossibilità dell’amore. La sua poesia è pervasa da una tristezza di fondo (“[…] sarà/ quest’inverno, dicono il più/ freddo e triste di sempre”, pag. 19, vv. 8-10), che si declina nel senso della disillusione e del disincanto. C’è un senso della fine imminente dentro a ogni inizio (pag. 21):

A voi, che un bacio lungo distrae
e il paese dei balocchi si riapre
con occhi di serpente o di bambino,
a voi che il fine di ogni mezzo
ritorna a bussare nel compendio
di queste vite in un mezzo angolo,
[…]
se il presente è fatidico miraggio,
il domani un mattino ingrigito
con le palpebre spesse un dito.

E una sensualità spiccata ma senza affondo, più desiderata che compiuta, dove il guardare prevale quasi sempre sull’agire, sull’agito (“Cielo che rimaneva lì a spiare/ il tuo corpo nudo come un regalo”, pag. 23, vv. 3-4). Sono poesie pertanto, come quella di pagina 35, in cui prevalgono le ottative:

Vorrei poterti vedere
come ci si vede e basta,
[…]
Allora vorrei amarti,
in un nido di tepore,
tra abbracci svelti come
formiche sulla pelle.

Il desiderio resta sospeso, non si adempie: “Non so cosa sia in me/ che allontana me che amo./ Ognuno uccide amore,/ ma io lo tengo con cura/ lo spio, dondolo, soffio,/ ma quando provo/ ad allungare la mano/ come nebbia si eclissa” (pag. 29, vv. 1-8). Un desiderio che si nutre di chiari e certi riferimenti letterari, Penna e Pasolini per restare alla nostra tradizione novecentesca; non sorprende che il desiderio configuri allora un amore solo “congetturale” (pag. 29, v. 10), che sia più nel pensiero che nel fatto (pag. 50):

Chiudo gli occhi per pensarti,
mi viene meglio stringere le labbra,
il gusto del veleno è una vela sottile,
le tue camelie si sono scoperchiate
come scatole di scarpe o corolle
carnali

Questa impossibilità dell’amore è l’amato che suona “a un’altra porta […]” (pag. 51, vv. 1- 3), è l’amore indecifrabile, che si nasconde, “eri un libro aperto a metà,/ quella facile da decrittare” (pag. 77, vv. 5-6), è l’amore fatto di un’attesa che non matura mai, “Che vuoi che sia, se t’ho atteso/ al di là delle varie sorti,/ […]/ la tua venuta dinoccolata, pigra/ che la diceva lunga/ su un cuore acerbo”, pag. 69, vv. 1-8), è un amore che è perdita (“Dicevamo – poi ci siamo perduti”, pag. 55, v. 1), o commedia, parvenza, pagliacciata che lascia sempre l’amaro in bocca, come nella bellissima poesia di pag. 115:

L’angolo era a sinistra, vicino
alla finestra, pronto per la
fuga in avanti, o tutt’intorno
come quando la mattina ti alzavi
dal letto e prima che io aprissi
gli occhi e capissi ch’era tutto
completato il varco della commedia,
già vestito di tutto punto e chiuso
nella tua figura di pagliaccio a cui
han disegnato sulla faccia il sorriso,
mi guardavi dall’altro capo del letto
impaziente di prendere il volo.

Nessuna stagione è buona per l’amore, nemmeno l’estate penniana (“L’estate mi fa pena/mi fan pena le città/devastate dalla fretta”, pag. 37, vv. 1-3; “Agosto è un fronte mortale/ strade mascherate da streghe,/ un dolore sottile, disarticolato/ il pianto delle edicole notturne”, pag. 104 – tutti versi iniziali che scolpiscono sin dall’abbrivio l’umore che trasuda dalla poesia di Cavallaro).
L’amore “[…] marcisce nel suo fiore” (pag. 94, v. 2), non c’è scampo, l’amore è sempre attraversato da una forza corrosiva di erosione che non è esterna ad esso, ma lo costituisce: l’amore è solo nella sua impossibilità. In questo senso, per tornare al confronto con Penna, ben diverso e si direbbe anche opposto è l’uso delle tante similitudini nei due poeti: in Cavallaro la similitudine ha l’effetto di oggettivare e mettere a distanza, in Penna invece la similitudine è per unire, per avvicinare tramite la parola ciò che la realtà tende a tenere distante. Eppure solo nel “tu” – potremmo dire con Giaquinta, solo nella relazione – la parola si ritrova (“Quando c’eri tu/ la parola si faceva/ ampia, convessa”, pag. 92, vv. 4-6) e con essa, naturalmente, anche il poeta. Ma la verità del proprio essere – che ancora una volta è amore, come per Giaquinta – è presa in una gabbia “[…] di briciole e doveri” (pag. 43, v. 16), di “[…] camuffamento” (pag. 47, v. 5): non si ha mai la vita piena dell’amore, l’amore è sempre spacciato. Dal momento che l’amore gira a vuoto, cosa resta al poeta? Rimane “quel sacrificio in forma di parole,/ sudore che lima solitudini” (pag. 90, vv. 3-4), resta cioè la parola, che dell’amore simula gli effetti (il sudore). La parola svolge una funzione vicaria che è tutta la vita del poeta. Non resta allora che socchiudere “[…] gli occhi/ come fanno i gatti sopra i cofani” (vv. 2-3) e assorbire “il tiepido dei motori” (v. 4) “quasi studiare il tepore/ spiare fuori il gelo del cielo,/ […] (vv. 6-7, come i precedenti a pag. 116). Se la parola è l’unica ricchezza del poeta, perché Cavallaro sceglie di intitolare la raccolta “Silenzi”? Il silenzio ha una sua ambiguità, come ambiguo e irrisolto è l’amore: vi è il silenzio che è “[…] l’opzione più teatrale” (pag. 58, v. 10), silenzio cioè che nasconde, che inganna; e vi è però anche un silenzio che è quello dell’amore che ammutolisce, che già abbiamo trovato in Giaquinta, e la stessa parola non fa altro che tendere a questo silenzio, provare a custodirlo (“parole da pesare/ nel silenzio/ in cui decantano”, pag. 57, vv. 8-10). Torniamo ancora al testo di Cavallaro (pag. 39):

Il silenzio è decisivo,
porta le somme accapo,
pacifica gli addendi,
mette la riga sotto,
traduce intimità.

Solo il silenzio dell’amore porta a compimento e la parola è segno di incompiutezza ma al poeta resta solo questo – una dote, l’unica, che non pacifica mai del tutto, che non può mai consolare fino in fondo perché è indice, sempre, di una mancanza incolmabile.

 

Fabrizio Ferreri è assegnista di ricerca all’Università di Catania, Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali. Già dottore di ricerca in Filosofia, Università Statale di Milano, e in Sociologia dell’innovazione e dello sviluppo locale, Università Kore di Enna, è socio della Società dei Territorialisti, dell’Associazione Italiana di Sociologia e di Riabitare l’Italia. Fa parte della Rete Nazionale di Giovani Ricercatori per le Aree Interne promossa dal Politecnico di Milano. In poesia ha pubblicato Corpo a Corpo (Ladolfi Editore, 2019, con prefazione di Gabriella Sica) con cui ha ricevuto la menzione d’onore al Premio Lorenzo Montano 2019. Sue poesie sono apparse su diverse riviste e blog. È direttore del Festival e del Premio di Poesia Paolo Prestigiacomo – San Mauro Castelverde.

Marilina Giaquinta, catanese di nascita e di vita, ha pubblicato cinque raccolte, tre di poesia e due di racconti, delle quali Addimora, Manni Editori, e Malanotte, Coazinzola Press, sono state inserite nella classifica di qualità del Corsera. I racconti sono stati tradotti in Germania. Ha condotto per alcune radio programmi sulla poesia e la letteratura, ha partecipato ad antologie, ha curato rassegne letterarie e scrive su varie riviste e blog. Nel corso degli anni ha girato l’Italia con le sue performance poetiche, accompagnata da musicisti di vaglia e si è cimentata nel teatropoesia e nel “rap poetico”. Nell’autunno del 2019 ha partecipato al progetto della Fondazione Treccani, tenendo laboratori di poesia per i ragazzi dell’Istituto Penale per Minorenni di Acireale. Nel luglio 2020 è uscito il suo primo romanzo Non rompere niente, definito dal mensile ELLE tra “i migliori libri gialli del 2020”. Fa parte del Comitato Organizzativo e della giuria del Premio Nazionale Elio Pagliarani.

Fabrizio Cavallaro, nato a Catania nel 1967. Dove vive, scrive, disegna e fotografa. Ha pubblicato alcune raccolte di versi, tra cui Latin lover (Prova d’autore, 2002 – prefazione di Attilio Lolini); Poesie d’amore per Clark Kent (Lietocollelibri, 2004). Dopo 12 anni circa di silenzio editoriale, ha pubblicato, tra le altre, le raccolte: Sala d’aspetto (Eretica, 2017); Di seconda virtù (Interno Poesia, 2017 – prefazione di Gandolfo Cascio); Estività (Ensemble edizioni, 2018); In febbre e sudori (A&B editore, 2019); Figure terrene (Lietocolle 2020); Alta stagione (RPlibri, 2021); I silenzi (Archilibri 2021). È autore anche di testi teatrali, tra cui Salomè (A&B Editore – con note di Renzo Paris e Francesco Scarabicchi). È curatore, dei volumi antologici: L’arcano fascino dell’amore tradito – tributo a Dario Bellezza (Giulio Perrone Editore, 2006) e Umana, troppo umana – poesie per Marilyn Monroe (Aragno, 2017) insieme ad Alessandro Fo. Ha curato, insieme a Francesco Scarabicchi e Massimo Raffaeli, l’edizione postuma della raccolta di poesia di Dario Bellezza La vita idiota (Lietocollelibri). Nel 2018 ha curato, insieme a Gandolfo Cascio, l’omaggio a Sandro Penna Dieci cento mille Sandro Penna – Florilegio per un poeta (Edizioni Forme libere).

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