Fotografia di Dino Ignani

Sigillo (Donzelli editore 2019) è un’opera di Giovanna Sicari pubblicata per la prima volta nel 1989 da Crocetti. Raccoglie le poesie scritte nel triennio 1985 – 1988 dalla poetessa nata a Taranto nel 1954, e scomparsa nel 2003. La nuova edizione Donzelli, uscita nel trentennale della prima edizione, è corredata dall’introduzione di Giancarlo Pontiggia e da una nota di Milo De Angelis.
L’opera cita in esergo la poesia di Amelia Rosselli: “[…] tra i tanti filtri / delle esperienze, sapere che la luce è tua madre, / e il sole è quasi tuo padre, e le membra tue tuoi figli.” Così il mondo e la natura, da subito, entrano nell’opera di Giovanna Sicari e agitano la realtà attraverso il filtro del linguaggio (“m’imbattevo solo nei fumi / di un gasdotto che bestemmiava l’accesso / ad un passaggio invalicabile); la sintassi articolata e i versi che richiamano il paesaggio urbano si mescolano alle immagini della natura, all’emozione dell’esistenza (“E se la pioggia cadesse giù dritta / fino a sfiorare le linee verticali / e se accordassimo come note le gocce, / basterebbe questo”).
Tra la percezione di noi stessi e il “cielo”, prevale la poesia che rappresenta l’incontro con l’universo recuperando il “sacro”: il cielo tolto alla razionalità della scienza, riconfigurato per scoprire l’individualità nelle similitudini, in senso strutturale e ampio, ampissimo, simboleggia l’esperienza della vita che apparecchia su scale diverse di interpretazione, in un piano di coscienza che si vuole illimitato.

Calesse bianco, il tuo trillo di amore insoluto
sembra di brina, capitolo di frecce verso il cielo
capitale divertimento per cuori da clochard!
Ma che stavo inventando per capire gli intrighi?
I signori della terra tendono agguati, alzano per caso
le loro bandiere, è il caso di diffondere
il mio pamphlet, gabbie di canne storte
molliche per vertebrati, serre dalla luce irriflessa!
Oh il mio militare silenzio, il mio pazzo distribuire
aureole che precedeva gli eventi, clausole per dame
profumate, scappavano per un indizio, come scippate
di un fiore a prova di bomba.
Hanno pagato i banchetti, le cose hanno solo nomi
non frutti, essenza, differenza. Banditore oscuro
è il caso dimesso, non le messi, il seme, la terra.

La poesia in questo libro non cela il suo essere rievocante, affidandosi alla memoria come luogo della divinazione, gravitando tra il corpo e i reticolati della realtà, a loro volta descritti in modo cinematografico, tra fotogrammi tagliati e sequenze ricombinate, ma parallele al fluire della vita, e il linguaggio, come scrive Giancarlo Pontiggia nell’introduzione, si fa “parola-corpo”, “di qui il moto di sfida della parola, che ambisce a essere mondo, a uscire dal proprio limite”.

Il concetto di confine, o limite, viene sempre sfidato, perché l’opera molto spesso si trasforma in un viaggio e in una ricerca della poesia in contrapposizione a un éskhatos, un “ultimo” fatto di materia e di progetti “mortali”, troppo mortali, dove “l’essicamento” dell’emozione o l’avvizzimento della specie sono orizzonti vissuti, come in una profezia: gli uomini sembrano estenuati in falsi movimenti, proiettati su “mura come limbo”, in piazze dove accade di espiare più che respirare.
La poesia che si contrappone a questa visione escatologica pare al tempo stesso disciplina estetica ed etica in Giovanna Sicari, e sta alla base della poetica, degli orientamenti in tutti i passaggi di Sigillo. La contrapposizione a questo éskhathos si riflette sui numerosi livelli dell’opera, come pamphlet politico contro i “signori della terra” che “tendono agguati” e “alzano per caso / le loro bandiere”, nelle rievocazioni della “bomba al napalm”, con l’individuo che si pone “all’estremo della prova” di fronte alla “Beata folla”, che si dice “fuori dal turbine della frontiera” rispetto al “lavoro malpagato”; e come posizione esistenziale (“Donchisciotte contro il vento nemico della tua nevrosi”, “Per giocare d’azzardo mi ubriacavo, andando là per sovvertire”) che accompagna anche la vita personale e in famiglia, con ironia e sarcasmo. Le immagini e i simboli vengono fatti svanire in luoghi lontani e distanti, in silenzi “prima della battaglia”, una battaglia contro “bestie feroci” impossibili, immaginarie, ultime, apocalittiche, eppure simboli delle barriere e degli ostacoli che vivono gli uomini.

Erano curve le loro vene

Appoggiata appena allo schienale
ero là che invocavo tutti i santi
del paradiso, i divini, i malcapitati
ammaliatori ostaggi dell’anno duemila.
Voce d’aria, impero del coraggio
vi affranco da ogni male
pescatemi ancora più giù nella scarpata.
Avvolgevo la sorte e chiudevo
chiudevo per folgorare
mescolando con me i canti dell’animale.
Frequente rotta vedi qualcuno per domani?
Più che incerta sembrava la guardia
gli altri finivano, erano curve
le loro vene, i giardini
oh i giardini giravano dentro
sdoppiati, oltre ogni misura scoppiavano.

L’esperienza del viaggio psichedelico e del paradiso artificiale viene riferita ma sublimata per affrancare gli uomini dal male di vivere, e trova un appiglio nelle ricerche antropologiche sullo sciamanesimo: il canto e il linguaggio degli uomini si fondono nella loro prima esperienza verbale, nell’interpretazione dei richiami degli animali. Il tema di Dio e della ricerca si unisce poi a quello della nascita e della continuazione. “Ogni scheggia dice addio alla saggezza / salpare dovremmo venerando la vita”, e ancora asini si sentono ragliare, mentre il corpo tutto cerca di farsi cellula e midollo.

Sembra che ogni frammento di Sigillo conduca verso un telos fatto di unità e di simboli (“Oh, creazione, mossa della bambina cantante!”), coordinato da uno “stato di trance”, come scrive Milo De Angelis a proposito del processo formativo utilizzato, simile a un rituale. “Seguitemi – dissi – ho mani divise / cerco un insensato forte luogo / di alghe e sesso / dove lo scenario ha puri battiti sfrenati / coperte nuziali ricamate di cielo”, e non si può che seguire questa poesia che dispone “segni e sigilli” nella “chiesa” di noi “malvissuti”, nella chiesa dell’umanità, aperta al cielo, oltre la vertigine dell’aria e del respiro, verso l’ignoto e il “pianto del neonato”.

Giovanna Sicari (Taranto, 1954 – Roma, 2003) è stata poetessa e scrittrice. Dal 1962, con la famiglia, si trasferisce a Roma, nel quartiere Monteverde. Le sue prime poesie escono a partire dal 1982 sulla rivista Le Porte, quindi su Alfabeta, Linea d’Ombra, Nuovi Argomenti. A partire dal 1986 pubblica in poesia: Viaggio clandestino (Quaderni di Barbablù 1984); Decisioni (Quaderni di Barbablù 1986); Ponte d’ingresso (Rossi & Spera 1988); Sigillo (Crocetti 1989, nuova pubblicazione Donzelli 2019); Non solo creato (insieme a Milo De Angelis, Crocetti 1990); Uno stadio del respiro (Scheiwiller 1995); Nudo e misero trionfi l’umano (Empirìa 1998); Roma della vigilia (Il Labirinto 1999); Epoca immobile (Jaca Book 2004); Naked Humanity. Poems 1981-2003 (Gradiva Publications 2004); Poesie 1984-2003, a cura di R. Deidier (Empirìa 2006). Dal 1985 al 1989 è redattrice della rivista Arsenale. A partire dagli anni ‘80 inizia inoltre a lavorare come insegnante nel penitenziario di Rebibbia, a Roma, incarico che mantiene fino al 1997, quando si ammala gravemente. Dopo essersi sottoposta a interventi e cure prima a Roma, poi a Milano – dove nel frattempo si era trasferita col marito Milo De Angelis e il figlio Daniele – torna a Roma nell’estate del 2003, dove muore nella notte tra il 30 e il 31 dicembre.

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