Nell’introduzione all’antologia Poesie (1986-2016) di Filippo Davoli, edita da Transeuropa (2018), Massimo Morasso parla di «grazia dello stile semplice». Da allora sono trascorsi tre anni; dall’uscita del libro d’esordio In epigrafe (Mierma 1986) più di trenta, eppure nella breve nota che chiude il nuovo Dentro il meraviglioso istante (CartaCanta/Capire 2021) Davoli considera valida la possibilità di scrivere «sempre lo stesso libro», perché in fondo «la poesia fa lo stesso tragitto della vita» e «la ri-vela»: seppur «cambiata di tono, arricchita dall’esperienza, con-vertita, […] il fondamento rimane quello che l’ha originata». Che sia la vita, insomma, o la poesia che ne sgorga – e non viceversa, come spesso Davoli invita a riflettere in confidenza, al tavolo, invertendo il flusso di certi vizi assurdi del pensare – tanto l’una quanto l’altra non possono essere snaturate («Sono uno che scrive […] So soltanto / che devo», «È la mia lingua. È la mia natura»). Così nella prefazione all’ultima raccolta, con altre parole, anche Giovanni Tesio rileva che a «prevalere è l’immediatezza della comunicazione», l’«equilibrio di scrittura». Oltre a Tesio già Franco Loi e Massimo Raffaeli, ad esempio, sono andati alla ricerca della sorgente di questa limpidezza linguistica, rintracciando una linea che tra gli altri – compreso Montale, secondo chi scrive, spesso sintatticamente vicino, oltre che a livello lessicale in scelte quali «pomario», «dipana», «gazzarra» – coincide soprattutto con il magistero di Mario Luzi e Vittorio Sereni: ivi s’innesta la recente opera di Davoli, che non rinuncia al controllo espressivo tipico della tradizione lirica novecentesca e non solo. Il tono complessivamente elegiaco, la versificazione piana, il dettato calibrato e improntato sulla modulazione sciolta in particolare dell’endecasillabo favoriscono l’armonizzazione di tutti gli elementi, comprese le non rare infiltrazioni terminologiche colte e dialettali. L’autore stesso ribadisce che Luzi è il riferimento principale (alcune sequenze ipotattiche e interrogative disseminate qua e là ne sono un saggio), scegliendo un passaggio di Sotto specie umana («Però dentro la vita, dentro / il meraviglioso istante») come esergo e per intitolare la sezione eponima di inediti, preceduta da Riletture di versi già pubblicati e revisionati. Come esergo, si diceva, ma non l’unico: una citazione da Novilunio di Alfonso Gatto («Ora mi vedo in alta strada e ascolto / il mio silenzio») traccia un’altra coordinata che spinge Tesio a indagare e segnalare la presenza di un «ermetico strascichio», annotando che Davoli «in qualche caso anche passa attraverso una potenzialità analogica che si manifesta in salti mitemente quantici, riconducibili a più assorte atmosfere di ascendenza remotamente ermetica (un ermetismo postremo e profondamente rivissuto e ri-usato)». Tali slanci trovano la loro ragion d’essere nello spiritualismo, nella consapevolezza che il corpo («Da quel me / che fa schermo alla voce») e tutto ciò che partecipa alla manifestazione del reale siano il riflesso di un progetto divino, promessa di libertà eterna («Oggi che almeno nell’intenzione sono libero / di stare dentro un disegno che mi supera»). È qui, forse, che coincidono il cristianesimo luziano e il richiamo al vertiginoso e impronunciabile silenzio di Gatto («Silenzio che scalmana», «È sempre più elevato il silenzio», «Solo silenzio / di chi guardando ascolta», «Quel silenzio irreale che pare la neve», «Ora un grande silenzio di molecole», «E in quel silenzio irreale sento di essere / un tutto che si apre dal suo nulla», «Ci troveremmo / come allora in silenzio dentro le ore»): nell’oscillazione tra riferimenti tangibili, nitidi, orizzontali e la sensazione pura, abbacinante, verticale («Senti portarti via, uscirti, essere / attraversato dai giorni, dentro un oltre») di una «grazia», appunto, e di una «luce», che riproducono verità trascendenti e assolute («Significare / non altro che un pulviscolo su cui / la luce imprime un nome»). Il contatto con il carattere pulsante degli eventi e degli interpreti più prossimi, spie di un mondo che offre occasioni quotidiane di riflessione all’osservatore e all’ascoltatore che le sa cogliere, fa pensare a un poeta-flâneur che assorbe ciò che lo circonda: negli spazi – paesaggi borghigiani, marittimi e collinari – si muovono persone (affetti vari, amici, famigliari) e personaggi (su tutti il caro, benché lontano nei secoli, concittadino Padre Matteo Ricci e l’amata Mina), membri della comunità umana convocata a stringersi per condividere («Un’emorragica distanza / del comune sentire») e orientarsi («La nostra vita ridonda di grumaglia»), per reggere l’impatto di avvenimenti tragici come quello del terremoto (si veda il poemetto Zirzilah, che in lingua dari significa proprio terremoto), per testimoniare il «farsi delle cose» sedimentato nella stratificazione di un tempo nostalgico («L’orma di un ricordo, l’aura / di un altro vivere», «Anni trascorsi per poterci raccontare / qualcosa di inedito»), nelle cui «vicissitudini occultate» (che non a caso ricorda la «vicissitudine sospesa» di Luzi) smarrirsi («La parte che non so della mia vita») e ri-conoscersi («Non si tratta tanto di sapére quanto di sàpere») attraverso la parola: «Le parole, / sono loro che ogni giorno inventano il mondo».

 

da Dentro il meraviglioso istante (CartaCanta/Capire 2021)

La nostra debolezza si fa grande
delle piccole cose di ogni giorno.
Spesa, dottore, tasse, qualche incontro,
il giornale sfogliato nel caffè,
un titolo in vetrina che cattura.
Presto per l’aria brillerà la rondine
sfuggita come il sogno al sognatore.
Ma ne è in realtà l’effigie nella luce
che fa festa nei giochi dei bambini.
Dentro la vita semplice, così è scritto.

 

*

Le foto degli amici nella camera.
Sbucano tra i libri, fanno appena
capolino accennando, li riaggiusto
chi dietro, chi più avanti, perché appaiano
tutti, sopra la mensola.
Poi mi perdo a fissarli, e duro in essi
e con essi trasvolo.

E penso a come inquieta questo tempo
se sono stretto a me. Come divaga
la vita, e come fugge. E come invece
sazia se resto semplice e ancorato
altrove, spossessato nella luce.

 

*

Siamo la nostra memoria. Un complesso caleidoscopio
in cui si fa nuovo il ricordo e si sommano i giorni,
la nostra stessa carne è questa memoria che si espande
e si riassume. Come nascemmo già sapendo piangere
e sbadigliare, altrettanto in noi un universo si muove
e cresce imprimendosi un volto e una dimensione
che si connette a un mondo altro da noi.

Siamo i bagliori della nostra sapidità,
i punti fermi delle infinite rinascite.

Siamo un costrutto di attimi che si dibattono
e ricompongono. La cernita incasuale
tuttavia ci sorpassa. E riappaiono voci
lontane, sagome nella foschia che ci convocano
a un delicato presente di nuove abitudini.

Ci appartiene oppure no, questo filo di volti?
Siamo o non siamo noi? Quale traccia
dovremo riprodurre per crederla viva?

Pietre, ninnoli, aneddoti
che si intersecano nella fitta nuvolaia
dove appare un lampo di chiaro,
come un filo d’azzurro. E ci allontaniamo.

Guarda indietro, se puoi. Cogli ancora
tutto quello che sei. Fatti condurre
con il bagaglio intero di là dal fiume.

 

*

Non scampa al rigore
il primo lembo di settembre. Invano
tornano le giornate chiare
ma un brivido acuminato le percorre
e ne allontana il cuore dell’estate.
Le spiagge aperte ormai
alla assolata solitudine, l’acqua
di nuovo impraticabile e gelida.

Se le raggiungi con lo sguardo trema
dentro di te la vita, t’infuturi
nella linea sperduta dell’orizzonte.
E già sei oltre, nei nidi.

 

*

Fosti ai miei occhi come lo scrimolo
del quale chi ha ventura scopra prima
l’irsuto volto, l’asperrima cima
che divieta il viandante a proseguire.
Ed egli non si astenne, però.
T’aggirava con astuta civetteria
(o era il suo desiderio di raggiungerti?)

In un balzo fu uomo e ti conobbe
lì dove il cuore èrgota e s’azzurra,
s’abbruna il sangue e sròndina. Ma alta
ne è la gazzarra, rimontante il botro.
Un esplodere d’acque tra le giuncaglie
e il formichìo.

La luna ti recinta dentro il buio.

 

Filippo Davoli (Fermo, 1965) vive e lavora a Macerata. Ha tra gli altri pubblicato Alla luce della luce (Nuova Compagnia Editrice 1996 – introduzione di Franco Loi), Un vizio di scrittura (Stamperia dell’arancio 1998), padano piceno (GED, Biblioteca di Ciminiera 2003), Come all’origine dell’aria (L’arcolaio 2010) e La luce, a volte (liberilibri 2016 – con una nota di Massimo Raffaeli), in parte confluiti nell’antologia Poesie 1986-2016 (Transeuropa 2018 – introduzione di Massimo Morasso). Finalista al Premio “Dario Bellezza” del 2001, è tra i vincitori del “Premio Montale” dello stesso anno per l’inedito. È tradotto in Francia e in persiano. In ambito critico, insieme a Guido Garufi ha curato il volume In quel punto entra il vento, dedicato alla poesia di Remo Pagnanelli (Quodlibet Studio 2008). Appare con un suo studio nel volume Cantami di questo tempo. Poesia e musica in Fabrizio De André. Atti del Convegno dell’Università di Cagliari, giugno 2003 (Aipsa Edizioni 2007). Da sempre vicino al mondo musicale, con il cantautore Claudio Sanfilippo e Neri Marcorè ha inciso nel 2015 il cd Avevamo un appuntamento. Un altro suo testo è stato inciso in una versione del brano Mi farò trovare pronto di Nek. Ha inoltre curato la biografia di Tarcisio Carboni. Un pastore con l’odore delle pecore (Fondazione Padre Matteo Ricci 2015). Direttore della rivista cartacea “Ciminiera”, ne ha ricreato le intenzioni nella web-zin “Nuova Ciminiera” (www.nuovaciminiera.it), diretta con Gabriel Del Sarto. È compreso in antologie come La poesia delle Marche. Il Novecento (Il Lavoro editoriale 1998 – a cura di Guido Garufi), Il pensiero dominante. Poesia italiana 1970-2000 (Garzanti 2001 – a cura di Franco Loi e Davide Rondoni), Trent’anni di poesia italiana e dintorni (Book Editore 2005 – a cura di Alberto Bertoni) e Sulla scia dei piovaschi. Poeti tra due millenni (Archinto 2015). Della sua scrittura si sono occupate diverse testate, tra cui “Sole 24 Ore  Domenica”, “Avvenire”, “La Stampa”, “Rai RadioUno”, “Il Tempo”, nonché riviste come “America Oggi”, “Poesia”, “ClanDestino”, “Origini” e “Pelagos”.

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