Uscita a novembre per la collana Smeraldo di critica letteraria di Giuliano Ladolfi, Abitare la parola si accoda alla linea seguita dalla casa editrice di Borgomanero fin dal 1999 con le antologie L’opera comune, antologia di 17 poeti nati negli Anni Settanta e in seguito con La generazione entrante. Poeti nati negli anni Ottanta. L’intento, come scrive la curatrice Eleonora Rimolo nella sua prefazione, è ancora una volta quello di “tracciare un percorso di orientamento analitico sulla generazione poetica nata a cavallo degli Anni Novanta”, in una sorta di mappatura del qui-ed-ora che possa esemplarmente definire lo stato dell’arte. Abbiamo intervistato i curatori, Eleonora Rimolo e Giovanni Ibello, per approfondire intenzioni e moventi di quest’ulteriore antologia per età anagrafica, cercando di fare anche un po’ gli avvocati del diavolo. Riteniamo, infatti, che siano necessarie alcune domande metodologiche che sgombrino il campo da fraintendimenti ideologici, come ad esempio accuse di consorteria o di indistinzione ermeneutica della chose.

Sonia Caporossi: Sono felice di potervi intervistare, anche per poter avere la possibilità magari di risolvere una mia annosa idiosincrasia: in passato, come i lettori sapranno, ho personalmente posto in discussione l’impianto costruttivo delle cosiddette antologie generazionali, che seguono il criterio dell’età anagrafica. In Da che verso stai? Indagine sulle scritture che vanno e non vanno a capo in Italia, oggi le definivo come una “mera classificazione assiomatica che parte da un punto di partenza giudicato anapodittico”. Vorrei offrirvi l’occasione di spiegare il senso di raccogliere canonicamente un insieme di nomi rappresentativi specialmente in corso d’opera, ovvero quando i poeti non posseggono una storia di pubblicazioni e una retrospettiva bastante a determinarne il passaggio dal nomen alla distinzione consolidata di poetica, impronta e stile.

Giovanni Ibello: Perdonerai l’inevitabile retorica, ma questo volume nasce come un dialogo. Più che un’antologia in senso stretto, è una campionatura di nuove voci. Una scelta doverosa a nostro avviso. È evidente che nessuno dei curatori si può arrogare il diritto di pontificare sullo stato di salute della poesia giovane in Italia. Ecco perché il segno di questo percorso è il confronto tra voci discrete, il reciproco e famelico “chiedersi della poesia e sulla poesia”. In buona sostanza, abitare la parola è una promessa incendiaria che “ribalta l’onere della prova”. Se è stato riconosciuto in queste voci (e non solo dai curatori) il germe della poesia, adesso il compito di consolidare la propria voce passa a questi ragazzi, che avranno la responsabilità di confermarsi o meno nel tempo con una ricerca seria e devota.

Eleonora Rimolo: Questa antologia si propone di tracciare un percorso di orientamento analitico sulla generazione poetica nata a cavallo degli anni ’90 (non è una canonizzazione né una consacrazione – nulla di tutto questo): i testi proposti sono rappresentativi – secondo la nostra visione, che non pretendiamo assolutamente sia quella di tutti – di uno slancio poetico direzionato verso una universalità del dettato che attualmente, come già provato da numerosi critici contemporanei, si sta pericolosamente appiattendo su se stesso, centrandosi esclusivamente e in modo nevrotico sul proprio Io. Il tentativo in questa sede – come fu per lo spirito de L’opera comune ma anche de La generazione entrante (Ladolfi e in generale il gruppo Atelier sono da sempre a favore di una mappatura – e non di una canonizzazione, ribadisco, soprattutto in questo caso – delle generazioni che si susseguono in poesia come nelle altre manifestazioni della società, nel pieno rispetto delle idee divergenti) è quello di pubblicare voci poetiche in cui non manchino slanci, accensioni, e in cui venga evitata la freddezza di una scrittura che si esaurisce con lo scrivente disponendo in verticale elementi meramente diaristici e rivelando il carattere compulsivo di un movimento a senso unico della penna. Questa ricognizione tenta di muovere verso una direzione collettiva di ascolto reciproco e di collaborazione attiva, che racconta l’esigenza generazionale di eufonia, e anche di indignazione – nel tentativo di ancorarsi nuovamente ad una realtà attorno a noi sfibrata, confusa, troppo spesso raccontata con strumenti metalinguistici e con tecnicismi che sostituiscono la poesia, sfumandola fino a demolirla del tutto.
È verissimo che “i poeti non posseggono una storia di pubblicazioni e una retrospettiva bastante a determinarne il passaggio dal nomen alla distinzione consolidata di poetica, impronta e stile” e la cosa è stata molto ben messa in luce nella postfazione curata da Ladolfi, che concorda con noi curatori riguardo al fatto che oggi le maglie della critica si sono sfibrate a tal punto che tutti questi autori hanno all’attivo un numero più o meno consistente di recensioni, premi, note critiche e pubblicazioni che rendono difficile la comprensione o la previsione di un consolidamento. Questo, tuttavia, non ci ha impedito di porci in continuità con il lavoro già effettuato per i nati negli anni ’70 e ’80, molto diverso da questo, naturalmente, come ancora si spiega nei saggi introduttivi e in quello conclusivo. Perché l’iniziativa mira soprattutto a una funzione di aggregazione, di attenzione e di incoraggiamento, certamente non di investitura. Siamo consapevoli che alcuni di questi poeti troveranno la giusta direzione e soprattutto la propria “voce” nel panorama nazionale e internazionale e la raggiungeranno se continueranno a studiare, a leggere, a scrivere, a lasciare i testi nel cassetto per mesi, se non per anni, a non accontentarsi dei risultati, a cestinare, a scavare in profondità nel loro animo per ritrarre nella produzione i grandi problemi in cui la società contemporanea si sta dibattendo.

SC: Fondamentalmente, ogni antologia di tipo analitico non può mai essere altro che una legittima e patente operazione ideologica. Potete riassumerla per i nostri lettori così come la esponete nell’apparato critico intorno ai testi?

GI: Nel mio testo introduttivo ho richiamato due autori a me molto cari. Uno è Leonardo Sinisgalli, un adorato poeta del nostro Sud (per “nostro” intendo il Sud mio e di Eleonora); l’altro è René Char. Sinisgalli sosteneva che in poesia le proporzioni del salvabile sono minime. Per Char, invece, il bravo poeta “si distingue dal numero di pagine insignificanti che non scrive”. Ecco, noi abbiamo provato a premiare chi ha mostrato un approccio serio, quasi sacrale, nei confronti della parola poetica. Abbiamo cercato un “rabdomante” della parola, un autore che sia prima di tutto consapevole dei rischi sottesi al fare poesia. Il rischio ovviamente è quello del crollo. Abbiamo cercato il giovane poeta che al di là dei propri limiti sia consapevole di questa apocalisse e non si perda quindi nella demenza, nel vuoto diarismo o, peggio ancora… nell’ipertrofia dell’ego. In altre parole, il mio appello alla nuova generazione non può che essere questo (un appello che rivolgo anche al sottoscritto): siate spietatamente severi con voi stessi.

ER:   Noi crediamo fermamente che sia ancora possibile un accesso al simbolico per le nuovissime generazioni che si affacciano alla poesia – e alla vita: in una società ormai disancorata da qualunque struttura significante, questi versi che abbiamo scelto (e che non hanno pretesa alcuna di esaustività) tentano di contrastare disperatamente la regressione cinico-narcisistica della soggettività opponendosi all’indebolimento-inebetimento della parola abitandola dall’interno, occupandola per mettere radici nuove nel linguaggio. Questi giovani poeti sono dei sacerdoti solitari (perché l’arte, come ricorda anche recentemente Massimo Recalcati, «comporta una vocazione sacra, se per sacro si intende l’accesso alla relazione con ciò che sfugge a ogni principio di relazione») con l’intenzione e il sogno dell’autenticità. Essi intendono sfiorare il mistero irriducibile delle cose e dell’essere, provano a rendere visibile l’invisibile attraverso una parola che scavi, scuota, tenti di produrre inconscio (nella consapevolezza che viviamo attualmente in condizioni storiche di afasia psichica) partendo da sé per approdare sulle rive dell’Altro: è indubbio, infatti, che l’universale «non si consegua con una individuazione senza riserve» e ciò lo dice bene Adorno quando parla della creazione lirica di Pindaro, di Alceo e di Walther. Anche quando un’opera lirica prende vita da una serie di esperienze biografiche e/o da reinterpretazioni della tradizione va sempre specificato che quei versi non devono mai contenere qualcosa di esclusivamente autobiografico, ma solo l’impronta ricavata da un inventario privato della realtà, cioè un veicolo, come avevano già sostenuto Freud e Thibaudet, Bachtin e Debenedetti, per mezzo del quale il passato, l’esperienza vissuta, il proprio stesso io empirico riescono ad aprire di nuovo la porta al caos, al divenire, all’universo dei possibili. Insomma le esperienze di questi autori vengono in questi testi incanalate e dirette verso un’apertura alla realtà generica, in vista di una dimensione in cui ciascuno può riconoscersi e riconoscere un frammento di sé – o di ciò che ci circonda: è necessario creare tale identificazione empatica tra scrivente e lettore, anche senza un exemplum astraente, come faceva Montale.

SC: Il problema, com’è evidente, abbraccia fondamentalmente il discorso sul “canone”. Tempo fa scrivevo che “a mio parere, un canone letterario di autori viventi non è mai in funzione del domani, ma dell’oggi” e che “potrebbe non essere parziale solo a patto di essere onnicomprensivo, ma ciò è impossibile”. C’è sempre qualcuno o qualcosa che rimane “fuori” per forza di cose, rendendo inutile e impossibile qualsiasi canone. Quale è il vostro parere a riguardo e come vi siete mossi nella selezione degli autori considerati?

GI: A mio avviso parlare di canone in riferimento alla poesia dei giovanissimi è un esercizio ozioso. Occhio allo strumento dei social che può concretamente minare la prospettiva di un sano confronto. In merito alla selezione non c’è molto da aggiungere rispetto a quanto già detto in precedenza: non essendoci alcuna intenzione di “canonizzare” è di tutta evidenza che siamo stati orientati da altri principi.

SC: Giovanni, nel tuo contributo critico al libro affermi che avete cercato “il poeta che non si perda nella demenza, nella giostra della vanagloria”, ovvero “un rabdomante della parola, un sacerdote discreto e devoto, il poeta che fiuti prima di tutto il segno, che parta dal segno della cosa reale per trasfigurare le leggi del mondo, la civiltà, “l’atto di prepotenza umana sulla natura” (Ungaretti)”. Si tratta della perfetta definizione della figura del “poeta outsider” o di un ritorno alla concezione della sacralità irriducibile della parola?

GI: Per quanto mi riguarda non esiste parola poetica che non sia sacra e irriducibile.

SC: Eleonora, tu scrivi che “questi versi tentano di contrastare disperatamente la regressione cinico-narcisistica della soggettività opponendosi all’indebolimento-inebetimento della parola abitandola dall’interno, occupandola per mettere radici nuove nel linguaggio”. Attraverso quali espedienti e modalità il pericolo onnipervadente della chiusura asfittica nell’io viene superato dai giovani poeti antologizzati?

ER: A nostro giudizio questi giovani poeti si pongono nella condizione di chi percepisce in nome di una intera umanità attraverso la testimonianza vera, onesta e necessaria dell’esperienza del limite, mediata e integrata dalle proprie singolarità e dalle proprie idee sul mondo, oltre che da un rapporto sano con i padri; perché l’imitatio non è un retaggio dimenticato del classicismo, ma un sano modo di intrattenere un rapporto con i propri precursori, senza i quali un testo non assume dignità letteraria alcuna e il poeta non conquista alcun tipo di identità o di originalità – cosa non scontata, e resa ancora più complessa e fumosa dall’uso spregiudicato del web e dei social, che hanno stravolto le modalità informative e comunicative della poesia oltre a contribuire alla proliferazione di scritture istantanee che non hanno nessun tipo di relazione con la poesia e che non sono mediate da nulla, esistendo in funzione degli apprezzamenti di un pubblico inesperto ed eterogeneo che chiede a gran voce e di continuo contenuti spettacolari, performativi (al di là della sproporzione evidente tra produttori di testi e fruitori). Penso che questi testi mirino a realizzare quel processo di creazione poetica che Hugo sintetizzava in due passaggi fondamentali e interdipendenti tra loro: osservazione della realtà esterna e commozione interna. Da questo incontro-scontro nascono versi che non sono semplicemente un guardarsi allo specchio ma un tentativo di partecipazione a quelli che sono i bisogni dell’uomo e le sue esperienze, i mutamenti sociali, che poi sono i nostri stessi mutamenti – certo, ma attraverso uno scarto del dettato poetico che apra spazi immaginativi universali. Perché l’universalità non è sinonimo di popolarità, come troppo facilmente si ritiene: penso ad un passo del Pascoli, lontano anni luce da tutto questo, che dice “non c’è forse sentimento al mondo, nemmeno l’avidità del guadagno, che sia tanto contrario all’ingenuità del poeta quanto questa gola di gloria, che si risolve in un banale (e io aggiungerei deprimente) desiderio di sopraffazione”. Più in particolare, questi autori provano a evitare il joysiano flusso di coscienza, che troppo spesso giustifica qualsiasi strampalato accostamento di situazioni, riflessioni, metafore, blocchi di percezioni ecc.; a non usare troppe immagini neoromantiche modellate su parole come vento, melograno, luna, stelle, foglie; a lasciar perdere l’accumulo di accostamenti fantasiosi, inaspettati, tesi a chissà quale effetto, in un lambiccamento intellettualistico, in un espressionismo fine a se stesso, in una ricerca spasmodica della metafora più strana, più inusuale, più eccentrica, nel tentativo di “poetizzare” il testo mediante forme peregrine. Abbiamo cercato di evitare gli ornamenti retorici fini a se stessi, le evanescenze linguistiche di carattere sentimentale, l’accumulo di parole in un fantasmagorico carnevale poetico di impronta dadaista, l’oscurità caotica, ricercata per esprimere più che l’inesprimibile l’incomprensibile (in primo luogo allo scrittore), le soluzioni astratte, in cui stemperare il dettato poetico e gli sperimentalismi neoavanguardistici, che, dopo più di mezzo secolo, sperimentalismi più non sono.

SC: Considerando che l’era delle antologie del qui-ed-ora sembra in realtà non essersi mai interrotta (penso a opere come I Poeti di Vent’Anni a cura di M. Santagostini uscita nel 2000 e Nuovissima Poesia Italiana a cura di Cucchi e Riccardi pubblicata nel 2004, alla recente antologia curata da Giulia Martini per Interno Poesia e al lavoro di Alberto Pellegatta e Massimo Dagnino con  Planetaria – 27 poeti del mondo nati dopo il 1985), cosa vi aspettate da questo lavoro?

ER: Una semplice accoglienza delle nostre “percezioni” priva di pregiudizi o prese di posizione, ma ricca di spunti di riflessione, di condivisione di idee, di confronto e di desiderio di collaborazione.

GI: Noi vogliamo dialogare con gli autori coinvolti nel progetto (dal momento che sono loro i veri protagonisti). L’auspicio è che questo starting point possa motivarli a essere integerrimi verso la propria ricerca. Abitare la parola, forse, vuol dire proprio questo: interrogarsi sull’opportunità di ogni verso.

Poesie precedentemente inedite da Abitare la Parola, a cura di Eleonora Rimolo e Giovanni Ibello (Ladolfi Editore 2019)

Michele Bordoni

Sapersi definiti, gravitati
occupare spazio, essere d’ingombro.
Sapienza remotissima del corpo,
del suo non essere
se non in opposizione.
Te lo dice quel poco d’acqua e schiuma
che sborda dal profilo della vasca
e si fa lago in terra, superficie,
specchio; tutto il volume della carne
e del principio d’Archimede svela
che si è impermeabili, organismi
rigorosi, insolubili, ermetici.
(Domani Cristo lo appendono alla croce,
lo innalzano, vessillo o banderuola,
al legno che si flette sotto al peso.
Eppure le Scritture, se non mentono,
raccontano che altri insieme a lui
se ne stanno coi chiodi nelle vene,
figli e fratelli dello stesso male,
ridotti al culmine del loro essere
unici, singolari. Corpo vile,
materia su materia, legno e ferro,
come la spoglia ammollo nella vasca.
Materia su materia, corpo vile
che non si oppone al mondo, lo contiene)

Davide Cuorvo

*
Non so restare in un confine – o in uno spazio –
e mi ritrovo sempre fuori dagli insiemi.
È un bene che la pioggia perda peso
o che l’erba strappi a morsi il silenzio
dai lampioni, dalle case, dai respiri della luna.
Anche i fiori attendono sulla soglia
dell’autunno con timore, solo il vento
ha mani e piedi mattutini, un sorriso
di grandine e salsedine. Restare è come
la candela che al buio non si eclissa,
costeggiare i bordi delle aiuole, in un limite finito.

Letizia Di Cagno

*

Caro F., / non conosco niente che in origine / non abbia
avuto l’odore dei fiori. / Vedi cosa si può sprigionare da qui,
/ da un semplice punto? / A quest’ora, / su un altro sistema
solare con abitabilità planetaria, / forse sono presenti più
malintenzionati / che malintesi. / Qui no. / È piovuto, adesso
non piove più. / Si sente l’annuncio dei pensieri finiti.

Sofia Fiorini

*
Eccezione

La tua testa non è cosa animale –
mammifera tensione di abitare –
piuttosto è un minerale la tua testa,
addosso ha gli anni fossili del mondo
e ha atteso molte vite nei torrenti
per imparare a scindere la voce
dei cristalli dai rami e dagli uccelli.
Non ha avuto infanzia elementare
la tua testa – deve essere stata
uno dei sassi rari e prodigiosi
che ho salvato ai bordi dei ruscelli,
quegli esseri che spiegano i silenzi
per vie insieme galattiche e terrestri,
che stanno in una mano e sono immensi.

Emanuele Franceschetti

*

Partire da un’immagine. Sapere
che nulla capovolgerebbe il nastro, che domani
altri occupanti abuseranno del dormiveglia,
delle meditazioni dentro i treni. L’immagine resiste.
L’illusione di ricostruire un corpo, una disposizione di
oggetti,
un umore di pioggia, il lascito di una telefonata.
Un nucleo a malapena si conserva:
un codice di segni universali, una radice.
Accorgersi del mondo, del suo scorrere.

Giorgio Ghiotti

*

E tu dov’eri in questo sfondo d’anni
mentre i pianeti ruotavano più lenti
e io inventavo una versione allegra
del vuoto intorno che mi hai lasciato,
dov’eri in sogno mentre si svegliava
la città padrona dei ricordi, e ogni
luogo mi portava al centro esatto
del respiro condensato nell’aria,
bianco splendore lunare, fumo lieve
che se lo porta il vento, che sale
e lo disperde come perdo i giorni
ad aspettare l’acqua che trascina
nomi e bussole della tua mappa infedele.
Non sono stato in nessun luogo che non fosse
ritorno e nostalgia, ripetersi del viaggio,
e ogni alba indicava una via e nei tuoi occhi
raccoglievo un secolo, un paesaggio.

Gaia Giovagnoli

*

Spinge il piano sette
in ascensore;
ritira il polso;
si butta poi sul quadro
di controllo;
alt e un colpo;
un volo del fegato
non pronto;
schiaccia il terzo
che è quello giusto
Da quando ha avuto
due numeri a mente
si scorda le soste
Insegue una casa
che scappa tra i piani
e le sballa la conta:
se gratta per rientrare
sbaglia porta

Federica Volpe

*

Il giorno in cui nascesti
fu la vita dalle acque e
tra gli arbusti. Tutto ciò
che aveva voce cantò
la meraviglia del tuo nome
fatto carne, e nessuno sapeva
il lungo viaggio che aspettava
dietro lo steccato della prima
casa. Da quando sei è
tutta un’oasi boschiva,
un nascere e mietere
di grano, la gioia di casa.

Eleonora Rimolo (Salerno, 1991), laureata in Lettere Classiche e in Filologia Moderna, è Dottore di Ricerca in Studi Letterari presso l’Università di Salerno. Ha pubblicato il romanzo epistolare Amare le parole (Lite Editions, 2013) e le raccolte poetiche Dell’assenza e della presenza (Matisklo, 2013), La resa dei giorni (Alter Ego, 2015 – Premio Giovani Europa in Versi), Temeraria gioia (Ladolfi, 2017 – Premio Pascoli L’ora di Barga, Premio Civetta di Minerva) e La terra originale (pordenonelegge – Lietocolle, 2018 – Premio Achille Marazza, Premio Pordenonelegge Poeti di Vent’anni, Premio Minturnae). Con alcuni inediti ha vinto il Primo Premio Ossi di seppia (Taggia, 2017) e il Premio Città di Conza (2018). È Direttore per la sezione online della rivista Atelier.

Giovanni Ibello (Napoli, 1989) vive e lavora a Napoli come avvocato. Si occupa di privacy e diritto informatico. Nel 2017 pubblica il suo primo libro, Turbative Siderali (Terra d’Ulivi edizioni, con una postfazione di Francesco Tomada). Nello stesso anno l’opera vince il “Premio internazionale di letteratura Città di Como” come Opera Prima, risulta finalista al “Premio Ponte di Legno Poesia”, al “Premio Poesia Città di Fiumicino” (come Opera Prima) e al “Premio Camaiore Proposta – Vittorio Grotti”. Il lavoro è stato recensito su diverse riviste letterarie e lit-blog italiani. È redattore della rivista «Atelier» (sezione online) e collabora con il blog di poesia della Rai di Luigia Sorrentino. I suoi versi sono stati tradotti in sei lingue tra riviste, blog e volumi antologici di poeti italiani all’estero. Nel 2018 vince il “Premio Poesia Città di Fiumicino” per la sezione “opera inedita” con il poemetto “Dialoghi con Amin”.

 

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