Nella foto: Leonarda Cianciulli

 

Dalla prefazione di Maria Laura Valente

«In principio c’è la relazione». L’assunto di Martin Buber, imperniato sul riconoscimento dell’innata tensione umana a forme d’interrelazione (das Zwischen) che gravitano nell’orbita dell’identificazione dell’io con l’altro, rappresenta una prima chiave di accesso all’interpretazione delle Assassine seriali di Sonia Caporossi, conturbante e micidiale plaquette, nelle cui pagine le più efferate serial killer della Storia disvelano tanto i propri crimini quanto il proprio animus necandi, attraverso puntuali testimonianze liriche in prima persona, le quali, corroborate dalle introduzioni biografiche curate dall’autrice, restituiscono un prismatico ritratto interiore di queste femmes formidables dell’omicidio plurimo. Tuttavia, dalla lettura dei versi, traspare con immediatezza quanto la prolusiva opera di studio dell’endocosmoaltro compiuta da Caporossi abbia valicato il limes di una generica risonanza empatica, addentrandosi nel campo dell’esplorazione estetica intersoggettiva, al fine di raggiungere una forma di Einfühlung («immedesimazione»), ontologicamente affine all’accezione primigenia di principio del giudizio e del godimento estetico in ambito artistico conferitale da Theodor Lipps in Ästhetik (1903); ciò dona, con evidenza, un prezioso strato aggiuntivo di significazione ermeneutica e valenza artistica al corpus delle Assassine seriali. Eppure, la piena comprensione di quest’opera risulterebbe ancora imperfetta se non ci si soffermasse sull’analisi di un ulteriore, essenziale tassello, ovvero l’inesausto impegno che Caporossi, fine musicista e musicologa, ha inteso profondere nella strutturazione prosodica e metrica dei componimenti, ciascuno dei quali si presenta caratterizzato da un verso ben definito. Lungi da un’astratta adesione a forme di neometrica sommaria, la rigorosa selezione di versi classicamente chiusi nella poiesi caporossiana si configura piuttosto come risultanza necessaria della Einfühlung di cui sopra. Dai settenari doppi di Ezsébet Bathory ai senari di Leonarda Cianciulli, attraversando gli endecasillabi di Vera Renczi e i settenari singoli di Belle Gunness, fino alla cruda e struggente polimetria di Aileen Wuornos, ciascun verso si offre, nella propria unicità armonica e perfezione numerica, quale ulteriore elemento di fruizione estetica e, nel contempo, come addizionale chiave di decrittazione di moventi, ambizioni, dolori e amori delle assassine. Last but notleast, non passa inosservata la presenza di una peculiarità caporossiana: l’umorismo macabro, in bilico tra humour noir bretoniano e Galgenhumor («umorismo da patibolo»), che sortisce il duplice effetto di arginare il patetismo e approfondire la psicologia delle omicide. Indimenticabile, in tal senso, l’esortazione finale di Giulia Tofana, che può, a giusta ragione, assurgere a vessillo dell’opera tutta: «tu sappi che la morte la stai vivendo già / allora, quale torto nel darla a chi la dà?».

Da Assassine seriali (Edizioni Progetto Cultura 2023)

La Marchesa di Brinvilliers

La Marchesa di Brinvilliers Marie-Madeleine d’Aubray, Marchesa di Brinvilliers (22 Luglio 1630 – 16 Luglio 1676), durante il regno di Luigi XIV uccise con l’arsenico suo padre e due fratelli per beneficiare dell’eredità. Era stato suo marito il Marchese a presentarla a colui che sarebbe divenuto il suo amante, il capitano Godin de Sainte-Croix. Questi venne fatto arrestare dal padre della Marchesa, indispettito dalla relazione clandestina dei due. De Saint-Croix fu, così, imprigionato nella Bastiglia, dove apprese da alcuni detenuti come produrre il veleno. Una volta uscito di prigione, si mise al servizio della sua amante, divenendone complice. Marie-Madeleine sostenne, in seguito, che se suo padre non avesse fatto imprigionare l’uomo che amava, probabilmente non l’avrebbe mai avvelenato. I delitti vennero scoperti solo dopo la
morte di de Saint-Croix, che aveva conservato le lettere contenenti i dettagli degli omicidi, da cui emergeva anche il tentativo, da parte della marchesa, di uccidere una sorella, una cognata, una nipote e il marito. Fonti non confermate sostengono che la Marchesa di Brinvilliers avrebbe tolto precedentemente la vita a circa trenta malati, scelti a caso negli ospedali, con lo scopo di testare il veleno. Quando venne scoperta, fu prima torturata fino a confessare e poi messa a morte. La sua storia corse su tutte le bocche. Da quel momento, in Francia si scatenò la psicosi dell’arsenico, che portò alla luce un’infinità di omicidi perpetrati dalle mogli nei confronti dei propri mariti violenti. Si trattò, come attestano le cronache del tempo, di una vera e propria strage per emulazione.

o padre snaturato che non mi vuoi più bene
se mai me ne hai voluto facendomi tua figlia
mi hai tolto quest’amore che solo mi nutriva
imprigionando lui, passione di una vita:
non credo di recarti più torto del dovuto
a dirti che ti meriti ciò che tu hai fatto a me
giacché la crudeltà della separazione
che tollerai quel giorno in cui fu sequestrato
è ciò che ora ti spetta dall’universo mondo
è ciò che ora ti accade, morendo piano piano
col ventre rigonfiato da sangue e vene cave
con quest’emorragia che cresce nello sterno
che sale tra i ventricoli ricolmi di durezza
per quella cattiveria che tu mi hai dimostrato
togliendomi l’amore che solo assicurava
il senso ad una vita già colma d’agi e d’oro
che tosto mi negasti con le minacce a vuoto:
“ti tolgo tutto quanto!”… serviva un atto urgente
che stabilisse a monte la giusta spartizione
dei beni che volevi sottrarmi come adultera
siccome non cedevo ai tuoi rimbrotti inani
adesso sì! lo avverti lo sbocco del rigetto
del tuo rifiuto atavico, da patriarca infame
ti abbiamo combinato quest’ultimo scherzetto
con formule da strega ho fatto tutti i test
“funziona!”: quella gente moriva senza meno
in breve, ci occorreva commettere una strage
eliminare in blocco il parentame ignaro
adesso sai che c’è? ho tutto sistemato
i soldi sono miei, e terre e ville e oro
e tu boccheggi a terra nell’agonia agognata
ti vomiti l’inferno, escluso dal perdono.

*

Erzsébet Báthory

La nobildonna ungherese Erzsébet Báthory ebbe un’infanzia decisamente travagliata. Proveniva da una famiglia in cui, a causa dei matrimoni tra consanguinei, le malattie ereditarie, tra cui schizofrenia ed epilessia, erano all’ordine del giorno. Fin dall’infanzia, fu spettatrice di scene di tortura, amputazioni e innumerevoli crudeltà perpetrate ai danni dei prigionieri turchi durante la guerra contro l’Impero Ottomano. A sette anni, assistette al supplizio di uno zingaro accusato di collaborazionismo per aver venduto i propri figli ai turchi: il malcapitato fu infilato nel ventre tagliato di un cavallo che, poi, venne cucito lasciando solo la testa del condannato all’esterno. A tredici anni, in un villaggio di contadini, un cugino (il principe di Transilvania) la fece assistere al taglio del naso e delle orecchie di cinquantaquattro persone accusate di ribellione. Fin da piccola, Erzsébet aveva dato segni di squilibrio: pare che passasse dalla tranquillità alla rabbia con una ciclotimia impressionante. Fu costretta a fidanzarsi a undici anni e a sposarsi a quindici con Ferenc Nádasdy, nobile guerriero che era solito, a sua volta, torturare i prigionieri di guerra e la servitù: una delle sue sevizie preferite era quella di cospargere il corpo di una serva di miele e legarla vicino alle arnie per punirla. Sembra anche che il marito violentasse frequentemente la moglie esigendo i doveri coniugali con la forza. Quando Ferenc partì in guerra, lasciandola sola a gestire l’immenso patrimonio presso il castello di Čachtice, dimora slovacca della coppia, la già debole salute mentale della donna venne del tutto meno. Ella cominciò a tormentare servi e ancelle, dando libero sfogo al proprio sadismo: inventò macchine come la gabbia per il dilaniamento e metodi di tortura come l’assideramento, ottenuto facendo denudare alcune serve all’aperto in pieno inverno e irrorandone d’acqua il corpo. La contessa partecipava alle orge perverse della zia Karla e apprese la stregoneria da Dorothea Szentes e dal suo servo Thorko, figure ambigue di cortigiani che la compiacevano. Un giorno, dopo aver frustato una domestica, una goccia di sangue della malcapitata le cadde sulla mano: la contessa si convinse che, in quel preciso punto, la sua pelle fosse ringiovanita. Gli alchimisti chiamati a corte, per timore di punizioni, la assecondarono. Da allora, credette che fare il bagno nel sangue di giovani vergini bellissime, nonché berlo appena stillato, le avrebbe garantito la giovinezza eterna. Morto il marito in circostanze misteriose, in pochi anni iniziò ad attrarre nel suo castello numerose vittime, con l’espediente di un’accademia educativa per nobili fanciulle. Inventò all’uopo la macchina da tortura di cui si diceva poc’anzi, una specie di “vergine di ferro” che dilaniava a morte le malcapitate, trafiggendole con lame e spuntoni. Nessuno osò ribellarsi, finché la notizia della sparizione delle giovani giunse ai funzionari ecclesiastici e alla corte dell’imperatore Mattia, che fece svolgere indagini nel castello, dove i funzionari imperiali colsero la contessa nell’atto di torturare alcune vittime. Fu così scoperto che, tra il 1585 e il 1610, ella aveva fatto uccidere ragazze provenienti dalla classe contadina e, in seguito, anche dalla piccola nobiltà, appendendole a testa in giù e recidendone la carotide per raccoglierne il sangue vivo. Fu arrestata con quattro collaboratori e murata viva in una stanza del castello, con solo un foro per i pasti. Erzsébet Báthory si lasciò morire di fame nella sua prigione quattro anni dopo. Nel suo diario, di cui non si è ancora accertata la veridicità, sono registrati i nomi di più di seicentocinquanta vittime, anche se gli storici preferiscono addebitarle tra i cento e i trecento assassinii. C’è da chiedersi: quanto sarà invecchiata nel frattempo, in quei quattro lunghi anni di prigionia, senza il prezioso ausilio del sangue sacrificale da cui era ossessionata?

 

la vita non dipende dal senso delle cose
non è la volontà a darle direzione
ci sono forze occulte che prendono il potere
e il mio destino, certo, non può fare eccezione
così, studiando bene la pia stregoneria
sono arrivata alfine a questa conclusione:
l’esoterismo domina gli istinti primordiali
ci sono forze ignote che reggono il creato
e se ci liberiamo dalla morale ignara
di quali forze tengano le essenze materiali
possiamo scavalcare i confini dell’ignoto
e assumere un potere precluso a tanti umani
su vita, morte e casi del singolo individuo
sull’esito beffardo del corso naturale
così, ho studiato a lungo, lasciandomi un po’ andare
a quell’istinto atavico che mi bruciava dentro
le formule e gli arcani che dominano il mondo
per acquisire il dono dell’immortalità
adesso sono fiera della mia competenza
questa violenza innata la lascio fuoriuscire
in tutte le mie azioni con atto di dominio
a questo son preposta, per questo adesso vivo!
è il mio destino chiaro quello di torturare
per trarre il mio piacere e l’eterna giovinezza
se la soverchieria è mio diritto araldico
non c’è poi da stupirsi di quello che otterrò
ho ucciso molte donne, e cento e ancora cento
e centinaia ancora io ne sevizierò
perdendone il conteggio in questo scannatoio
che giù nelle segrete ho predisposto ad arte!
per ricordarmi tutto lo scrivo nel diario
che un giorno qualcheduno poi mi contesterà
tacciando d’impossibile che siano così tante
le vittime accertate del mio delirio immane
eppure, vi assicuro, io le ho tutte scannate
per berne caldo il sangue, per farci le abluzioni
perché l’età non prenda l’usato sopravvento
perché la morte evada da questo corpo intonso!
mi vesto come un maschio ma voglio la bellezza
eterna e naturata nell’immacolatezza
per questo, quelle macchie di sangue sulla cute
son l’unica certezza della mia mondazione:
purifico la pelle con la sostanza impura
che sola mi proviene dal corpo virginale
in fondo mi dispiace che una beltà siffatta
sia sottoposta a questa mia sete d’infinito
ma io trionferò laddove qualcun altro
chiamato dorian gray saprà d’aver fallito
mi chiamo erzsébet báthory e bevo il sangue altrui
nessun potere al mondo è superiore al mio
non credo che sia amaro sorbir da questo calice
non credo che sia immondo uccidere anche te
se dracula venisse, mi scioglierebbe i sandali
se dracula vedesse, si inchinerebbe a me

*

Leonarda Cianciulli 

Leonarda Cianciulli (Montella, 1894 – Pozzuoli, 1970), detta la saponificatrice di Correggio, è la più famosa serial killer italiana. Epilettica sin da bambina, della sua infanzia raccontò: «Cercai due volte di impiccarmi; una volta arrivarono in tempo a salvarmi e l’altra si spezzò la fune. La mamma mi fece capire che le dispiaceva rivedermi viva. Una volta ingoiai due stecche del suo busto, sempre con l’intenzione di morire, e mangiai dei cocci di vetro: non accadde nulla». Impulsiva e millantatrice, negli anni della giovinezza trascorsa in Campania venne perseguita per furto, truffa e minaccia a mano armata. Sposò un uomo contro il parere dei genitori, tanto che la madre la maledisse in punto di morte. Una zingara le predisse le morti dei suoi figli: su diciassette gravidanze, tre si conclusero con aborti spontanei, mentre altri dieci figli morirono in culla. Queste tragedie la cambiarono: cominciò a studiare stregoneria, per scongiurare altre perdite filiali. Scrisse nelle sue memorie: «Non potevo sopportare la perdita di un altro figlio. Quasi ogni notte sognavo le piccole bare bianche, inghiottite una dopo l’altra dalla terra nera… per questo ho studiato magia, ho letto i libri che parlano di chiromanzia, astrologia, scongiuri, fatture, spiritismo: volevo apprendere tutto sui sortilegi per riuscire a neutralizzarli». All’inizio della Seconda Guerra Mondiale, il marito l’abbandonò con i quattro figli sopravvissuti. Quando il figlio maschio a cui era particolarmente legata rischiò di partire per il fronte, lei decise di compiere sacrifici umani per propiziarne la sopravvivenza. Uccise solamente tre donne, ma la modalità ancora fa scalpore: dopo il delitto, ne scioglieva parte del corpo nella soda caustica mescolata a profumi ed essenze per trarne saponette; col sangue essiccato al forno produceva dolcetti di cui poi si cibava e che offriva agli ospiti che andavano a trovarla, ma che faceva mangiare soprattutto ai figli per preservarli dalla morte, come una novella Teti. Nelle sue memorie, colpisce la descrizione delle procedure delittuose: «Gettai i pezzi nella pentola, aggiunsi sette chilogrammi di soda caustica, che avevo comprato per fare il sapone, e rimescolai il tutto finché il corpo sezionato si sciolse in una poltiglia scura e vischiosa, con la quale riempii alcuni secchi e che vuotai in un vicino pozzo nero. Quanto al sangue del catino, aspettai che si coagulasse, lo feci seccare al forno, lo macinai e lo mescolai con farina, zucchero, cioccolato, latte e uova, oltre a un poco di margarina, impastando il tutto. Feci una grande quantità di pasticcini croccanti e li servii alle signore che venivano in visita, ma ne mangiammo anche Giuseppe ed io». Nel suo memoriale, riguardo al movente, affermò accorata: «Non ho ucciso per odio o per avidità, ma solo per amore di madre».

 

amore di mamma
amore di fiele
non startene in pena:
ti avvolgo di bene
con questo cadavere
sciolto nel fuoco
rinnovo il mio patto
di averti di nuovo
illeso qui a casa
dal fronte occupato
di stringere ancora
al grembo angustiato
la mia figliolanza
di sangue e di carne
per poi riabbracciarti
tra formule arcane
che leggo la sera
sul pio calderone
col quieto paiolo
che volge le ore
vieppiù necessarie
alla dissoluzione
di ossa e cordami
di tendini e cuoia
con la soda caustica
in ebollizione
rimangono i denti
dall’oro piombati:
magari li tengo
per farti un regalo
ti faccio il sapone
con la pece greca
l’allume di rocca
e col cardamomo
mio figlio adorato
l’ho chiesto alle streghe
se dio m’ha ascoltato
ti veglia il demonio
perciò, stai tranquillo
non devi temere:
la mamma ti pensa
la mamma ha pregato

 

Sonia Caporossi (Tivoli, 1973) è musicista, poetessa, prosatrice, critica letteraria e saggista. Ha pubblicato numerosi libri. Tra gli ultimi ricordiamo il saggio critico Le nostre (de)posizioni. Pesi e contrappesi nella poesia contemporanea emiliano-romagnola, con E. Campi, Bonanno, Acireale 2020; la curatela su G. Leopardi, L’infinita solitudine. Antologia ragionata delle poesie, Marco Saya 2020; la raccolta di monologhi filosofici Opus Metamorphicum, A&B Editrice 2021; la trilogia poetica Taccuino dell’urlo, Marco Saya 2020, finalista al Premio Montano 2020; Taccuino della madre, Progetto Cultura 2021; Taccuino della cura, Terra d’Ulivi 2021. Dirige per Marco Saya Edizioni la collana di classici italiani e stranieri La Costante Di Fidia. Collabora con Poesia Del Nostro Tempo, Versante Ripido, Bibbia d’Asfalto e col festival Bologna In Lettere. Ha fondato il blog multidisciplinare Critica Impura. Attualmente dirige l’antologia permanente online Poesia Ultracontemporanea. Il suo blog personale è disartrofonie. Vive e lavora a Cesena.

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