Saggio di Maria Luisa Vezzali

Quando i prefissi si moltiplicano, è difficile orientarsi nelle definizioni. Ebbene, però, ormai sembra assodato di vivere un’epoca (forse è meglio dire una fase?) post-postmoderna: se sia qualcosa di nuovo o un giro a 360 gradi di ritorno su paradigmi precedenti non è chiaro. Così come non è chiaro se l’uso di questo termine intenda affermare l’uscita definitiva dalla stagione post per l’ingresso in quella post-post, come ritiene la critica canadese Linda Hutcheon, che nel suo volume The Politics of Postmodernism (Routledge 1989) ha dichiarato senza incertezze «Let’s just say it: it’s over». Anche in architettura – la disciplina che d’altronde aveva preceduto le altre nell’esplorazione delle possibilità offerte dall’uscita dal formalismo primonovecentesco – l’inglese Tom Turner (City as Landscape: A Post Post-Modern View of Design and Planning, Taylor & Francis 1995) ha diffuso l’appello a operare una svolta rispetto al distacco ironico e al relativismo pluriprospettico del postmodernismo. E in letteratura fioriscono saggi per inserire scrittori come Foster Wallace, Franzen o Zadie Smith in questa categoria, a seguito del loro interesse ad accedere a una qualche forma di autenticità nonostante gli ostacoli frapposti dalle tare del tardo capitalismo o delle disuguaglianze economiche e razziali.
Nel navigare tra i nomi della galassia dei poeti post-post si incontra Karyna McGlynn, fiorita come performer all’interno della scena slam della fine degli anni Novanta. Al suo attivo ha due raccolte (I Have to Go Back to 1994 and Kill a Girl, Sarabande Books 2009, e Hothouse, Sarabande Books 2017) e tre plaquette. Ha un MFA in Poesia conseguito all’Università del Michigan e il PhD in Letteratura e Scrittura creativa dell’Università di Houston, dove è stata editor della rivista «Gulf Coast». Ha ricevuto diverse onorificenze, tra cui il Verlaine Prize, il Kathryn A. Morton Prize, l’Hopwood Award e la Diane Middlebrook Fellowship in Poesia all’Università del Wisconsin, e attualmente è Visiting Assistant Professor di Poesia e Traduzione all’Oberlin College (Ohio). Nel disegnare la propria carta d’identità poetica McGlynn menziona tre ambiti di ricerca: Spoken Words, ovviamente, e poi il Gurlesque (a uso di chi, come la scrivente, non avesse mai sentito prima il termine, si tratta di un’attitudine ibrida che fonde la teoria del carnevalesco di Bakhtin, la celebrazione del bizzarro, la teatralità del burlesque e il femminismo punk delle Riot Grrl) e il movimento della New Sincerity.
Ora, per chi volesse inoltrarsi nel ginepraio di comprendere cosa implichi in questo contesto un termine scivoloso come “sincerità” (in cosa differisce, chessò, dalla «poesia onesta» di un Umberto Saba?), è significativo che tra i testi di McGlynn ne compaia uno che sceglie questa formula come titolo, e quello che resta dopo la lettura sia il quadro di una generazione stordita e in preda alla nausea, che si dibatte tra il rituale degli aperitivi, l’accumulo delle serie televisive, l’ipertrofica presenza dei marchi d’abbigliamento e dei blog dove si esalta «ogni giorno una Cosa Assolutamente Fantastica» diversa.
In ogni caso dalle due opere dell’autrice ormai quarantaseienne emerge una personalità estremamente lucida nell’esame degli incubi della società americana, sopravvissuta a una giovinezza trascorsa nell’età reaganiana per ritrovarsi adulta in uno scenario costellato dei detriti della cultura pop e delle merci e inquinato da un continuo senso di pericolo, dove la paranoia è la malattia nazionale, come nelle poesie testimoniano le fitte allusioni a stupri, assassini, abusi di minori, enigmatiche perversioni alla Twin Peaks.
La raccolta I Have to Go Back to 1994 and Kill a Girl, spaesante già dal titolo, si struttura in tre sezioni che mettono a fuoco la dote della poesia di infestare il tempo con le sue virtù medianiche: Planchette (con relativo esergo «Forse non ti rendi conto che stai muovendo / l’indicatore, ma lo muovi») si riferisce alla Tavola Ouija, che gli adolescenti Usa utilizzano così di frequente nei film per giocare a loro rischio con l’evocazione degli spiriti; Visitant («Ho ricevuto questi suoni – quando lei era sospesa in un’altalena che pendeva dal soffitto – / quando era chiusa in una gabbia metallica – e quando era caduta svenuta su un divano. / Li ho uditi su un Harmonicon di vetro – sentiti sulla spalla e sotto le dita. / Li ho uditi su un foglio di carta, tenuto per un filo passato in un angolo») sciorina una galleria di presenze fantasmatiche; Revenant («Quando la visitatrice ritorna, non è più un’estranea») fissa il passato con l’occhio straniante di una rediviva, in anticipo sulla serie televisiva francese omonima del 2012.
In tutta l’opera la tonalità dominante è l’unheimlich d’accezione freudiana: persino le situazioni più frequenti e familiari si caricano di un orrore perturbante che si manifesta tanto nella bambina affogata di Un triciclo rosso nel ventre della piscina, quanto nei corridoi senza uscita di Oh, non vuoi veramente entrare in biblioteca, tanto nei cadaveri delle ragazze ritrovati nelle fattorie (La casa di Amanda Hopper), quanto nei sensi di colpa di un’adolescente per le prime esperienze masturbatorie (Dio, ho allungato la mano laggiù per venire), un orrore che investe pubblico e privato con la medesima carica deformante. In Lucifero che hai chiuso questo istante in un blocco di gelatina trasparente la visione allucinata della nonna stroncata da un aneurisma contagia il senso stesso di identità dell’autrice («mai la conoscerai, non sei mai nemmeno esistita»). Ma è soprattutto in Mi presento dodici anni in ritardo per il coprifuoco che i brividi penetrano nell’ambiente che dovrebbe rappresentare il rifugio protettivo per eccellenza, la méta privilegiata di ogni istanza regressiva: la casa dei genitori. Questi ultimi, invece, si presentano come «educati, ma rigidi, come una famiglia ospitante francese» e appaiono irrimediabilmente alieni («Hanno occhi castani con pagliuzze dorate, diversi dai miei»): non ricordano i gusti alimentari della figlia e neppure il suo secondo nome; tutto si svolge all’interno di una percezione acuta dell’inaffidabilità dei dati sensibili – quasi orchestrati da un genio maligno cartesiano – e si conclude in un’atmosfera à-la-Lynch con i parenti-estranei intenti a giocare a Monopoli in un ambiente allagato dall’«oceano innaturale del loro nuovo tappeto blu».
Nella più recente Hothouse risaltano due motivi particolarmente dominanti: la riflessione metapoetica e lo sfacelo dei rapporti affettivi. All’interno della prima linea, oltre alla già citata La Nuova Sincerità, l’incalzante monologo di Non riesco a smettere di essere performativa fa cozzare l’inarrestabilità tumultuosa dei versi con il rovello sulla coerenza delle intenzioni, sulla dicibilità delle cose e sul rapporto tra le une e le altre: «striscio sul letto… / per te, ma non / per te»; «perché non lo farò e anche lo farò»; «indosso una camicia da notte e la chiamo / camicia da notte»; «se mi amassi, chiameresti questo / costume costume»; «dico che non abbiamo niente… / con cui giocare tranne questa / vecchia plancia di Scarabeo a cui manca metà delle lettere». E non manca il sarcasmo di una battuta triviale: «Questa è la differenza / tra Karyna e una lampadina: a screw», dove ovviamente nell’ultimo termine consistono in una coabitazione impraticabile nella lingua italiana la vite della lampadina e la scopata con cui il soggetto sta aggredendo un partner che nella sua passività coinvolge e avvolge il lettore. Tra i versi di Confessionale in affitto, infine, McGlynn affronta la tendenza confessional della poesia con la sua caratteristica vena pungente di denudamento. «Cerchi di scrivere la verità ma ti rende infelice»: l’«impresa» è monotona e puzza «di zolfo», ma non resta alcuna «canzone country nel cuore», solo l’immagine di un bambino in castigo nel «seminterrato» dell’interiorità che scribacchia disperatamente alla ricerca dell’autentica «fonte della scrittura», mentre è sempre in agguato la tentazione narcisistica di accendere i «riflettori» sull’ego e i segni tracciati sulla tabula rasa della pagina «girano in tondo» sfociando unicamente in «sconcertanti inconclusioni».
Quanto alla seconda linea, la lirica d’amore è decostruita innanzi tutto con la forma-prosa Quando qualcuno dice ti amo, dove la convenzionalità del titolo agisce da ring sul quale demistificare tutti i luoghi comuni. «Siccome dicono amore pensano di non poterti ferire», ma l’organo dei sentimenti si è mutato in un «cuore di bue», un «grande tremolante» pomodoro di cera, «sudato per lo sforzo della sua stessa improbabilità». L’autrice impiega tutte le sue armi per infierire sull’ingenua persistenza dell’idea che l’amore possa sempre «risucchiare tutto il vuoto» dell’anima e alla fine trova anche il tempo per una stoccata contro la convinzione di aver raggiunto l’emancipazione del sé e del linguaggio con la schwa ridotta a onomatopea del roteare regolare di un ventilatore a soffitto. Quasi sempre, infatti, la relazione è una cella, una «camera perfettamente quadrata» (Camere quadrate), dove penetrano correnti fredde nonostante il caminetto funzionante. E, se all’interno di essa ci si può sentire finalmente realizzate, giunte insomma al centro di se stesse, non può non scattare il confronto con il «perfetto quadrato» della camera di Emily Dickinson, in cui l’amore è un biglietto di San Valentino inviato alla solitudine, ma almeno non ci sono armadi che nascondono casse di «bottiglie di champagne nuziale avanzate».
Nel libro si percorre un panorama di relazioni fallite a ripetizione, che non crollano con effetti grandiosi ma si sbriciolano in «minuscoli relitti» (Russel dice che tutti sono Aubrey), inservibili resti di un naufragio in cui «stiamo affondando tutti insieme». A ripetizione, perché la coazione a ripetere errori e miraggi è la maggiore forza in campo e stampa sul volto di ogni nostro prossimo incontro i lineamenti dell’ultimo fallimento. Un tempo fossile, un futuro irrimediabilmente prigioniero della replicazione del passato, in cui può annidarsi il sentimento che la vita sia finita a 24 anni.
Irrinunciabile, quindi, un pensiero sulla morte. Di fronte alla quale non c’è remissione (L’aldilà delle mie giacche perdute), solo il computo delle cose perdute, l’«inferno» dell’irriducibilità della materia quando si scontra con l’immateriale, l’evidenza delle inezie che resteranno di noi («steli / di ciliegia annodati, cartine di pastiglie per la tosse, ottantatré / centesimi, una ricevuta del distributore»). Ma anche una disperata forma di tenerezza all’idea di potersi riunire nell’aldilà alle gerarchie angeliche delle nostre giacche che, per quanto maltrattate e dimenticate nei ristoranti o nei taxi, ci hanno protetto nel corso dei giorni, contro un freddo magari più metaforico che climatico. E un monito che pare un’ottima conclusione provvisoria (Di tutti i morti che conosco): «Serve una nuova immaginazione quando si arriva / alla morte».

da I Have to Go Back to 1994 and Kill a Girl / Devo tornare nel 1994 a uccidere una ragazza (2009)

La casa di Amanda Hopper

Era una fattoria dove uccidere,
del tipo che ho visto sul giornale sopra una fila di foto di laureati:

ragazze ritrovate in cantina,
Ombretto satinato, frange come nidi di uccelli.

Ragazze che quando le ho viste mi sono detta:
bene. se lo meritano.

“Stupide troie” mi spunta sulla lingua.
Deglutisco, ma le stupide troie stanno incollate lì come ossa di pollo.

Come la sorella maggiore di Amanda, Gloria,
sdraiata sul cofano dell’utilitaria del suo ganzo.

Dal tavolo della colazione
lo guardiamo mentre le divarica le gambe secche e le preme

la fibbia della cintura contro il cavallo dei jeans.
Sono le 9 del mattino e masticano gomme all’uva.

Seguiamo i vortici di lumaca dei loro baci alla francese
mentre la signora Hopper guarda fuori, diffidente, da dietro

il titolo del giornale: Corpo di adolescente scomparsa ritrovato nel capanno di famiglia.
Pesca nella vestaglia rosa un pacchetto di sigarette,

se ne mette una al mentolo tra le labbra rugose,
accarezza l’accendino, si leva una pellicina,

bofonchia dall’angolo della bocca
smettete di fissare e finite i vostri fottuti cereali.

Amanda Hopper’s House

It was a farmhouse for killing,
the kind I saw in the paper above a row of senior portraits:

girls found in the basement,
Frosted eye-shadow, bangs like birds’ nests.

Girls I saw and said to myself:
good. they deserve it.

“The stupid sluts” sit on my tongue.
I swallow, but the stupid sluts stick there like chicken bones.

Like Amanda’s older sister, Gloria,
splayed across the hood of her boyfriend’s Chevy Nova.

From the breakfast table
we watch him open her dry skinny legs and press

his belt buckle into her denim crotch.
It’s 9 am and they chew grape gum.

We follow the unfurling snail silhouettes of their French kisses
as Mrs. Hopper looks out, wary, from behind

the newspaper headline: Body of Missing Teen Found in Family Shed.
She fishes in her pink robe for a pack of cigarettes,

places a menthol between her feathering lips,
flicks her lighter, picks her cuticle,

tells us out the corner of her mouth
to stop gaping and eat our fucking Lucky Charms.

*

Lucifero che hai chiuso questo istante in un blocco di gelatina trasparente

A chissà quale fine Lucifero preserva questo scatto nero inodore:
un po’ troppo fioco per vedere il diorama
1971 – mia nonna con il suo vestito verde muschio
una gamba nella vasca e l’altra fuori. Riesco a distinguere
il suo profilo al negativo, le spirali della schiuma che germogliano
in piccoli fiori scheletrici – solo per metà nel mondo
lei si china, sorride a una mosca schiacciata
una piccola cosa, lasciata cadere nel tubo di scarico. Non riesco a vedere
la malattia, i tre secondi che la schianteranno
come un interruttore, lì
la sua visione si spezza e io sarò sempre
la cosa nascente, un mezzo
gorgoglio esofageo sospeso nel nero –
fosforescente uovo chiazzato di ruggine,
pesce radioattivo che emette luce propria con, oh
l’emivita di qualcosa molto più longeva di lei si è fermata
le dita dei piedi olivastre, meno porose della cosa che potrebbe essere, lo so
e lei è solo per metà nel guscio di questo tempo
un aneurisma apre la trappola, o il diavolo dice:
mai la conoscerai, non sei mai nemmeno esistita

Lucifer who put this moment in a clear block of gelatin

Lucifer who preserves to what end this odorless black snap:
almost too dim to see the diorama
1971 – my grandmother in a moss green sundress
one leg in the bathtub, one out. I can make out
her negative edges, the bubble cup curls which bloom
in small skeletal fleurs – only half in the world
she is bending down, smiling over a stroked fly
something small, dropped inside the drain. I cannot see
the sickness, the three seconds that will snap her
down like a switch, there
her vision cracks like I’ll always be
the thing nascent, esophageal
caught mid-gargle in the black –
rust-flecked egg phosphorescent,
radioactive fish which makes its own light with, oh
a half-life of something so much longer than her stopped
olive toes, less porous than the thing I know could be
and she only half in the shell of this time
an aneurysm opens its trap, or the devil says:
you will never know her, you never even happened

*

Mi presento dodici anni in ritardo per il coprifuoco

Appaio fredda, confusa, instabile nell’atrio.
I miei genitori sono educati, ma rigidi, come una famiglia ospitante francese.

Hanno nuovi figli, con nuovi giocattoli
che producono rumori intergalattici nella notte.

Hanno occhi castani con pagliuzze dorate, diversi dai miei.

O non riescono a ricordare o non gli importa
che odio i pomodori. A cena, mia madre chiede
il mio secondo nome. Quando le rispondo, lei dice “ah sì?”

Cercare di sentirsi importanti ora è un po’ come
toccarsi la bocca imbottita di anestetico,
o pronunciare la parola “bouche” da ubriaca.

Studio l’oceano innaturale del loro nuovo tappeto blu
cercando di non masticare come una morta di fame.

Questa è la mia famiglia, persone totalmente inette in cose come
Memoria e Monopoli, mi sento un demone ingannatore
mentre nascondo i miei soldi finti sotto il tabellone.

I show up twelve years late for curfew

I appear cold, muddy, unstable in the foyer.
My parents are polite, but stiff, like a French host family.

They have new children, who have new toys
which make intergalactic noises in the night.

Their eyes are brown with gold flecks, not like mine.

They either can’t remember things or don’t care
that I hate tomatoes. Over dinner, my mother asks
my middle name. When I tell her, she says “oh yes?”

Trying to feel relevant now is a bit like
touching my own mouth shot full of anesthetic,
or forming the word “bouche” while drunk.

I survey the unnatural ocean of their new blue carpet
and try not to chew like a starving person.

This is my family, people so inept at things like
memory and monopoly, I feel like a trickster god
hiding my funny-money under the board.

*

da Hothouse / Serra (2017)

Quando qualcuno dice ti amo

tutta la stanza si riempie di tè freddo, accade qualcosa: il sole si stacca dalla tua finestra, un limone zuccherato, intero, fiammante, sospeso. Gli dici che devono: bucarti il petto con una cannuccia per risucchiare tutto il vuoto, ma siccome dicono amore pensano di non poterti ferire, persino di salvarti la vita, motivo per cui galleggi su su su, sbattendo le dita arricciate dei piedi e il fiato ossesso contro il soffitto macchiato di tè, per cui nuoti come una sentinella sopra il cuore di bue che ha inondato il tuo letto, ti ha svuotato del tutto. Guardalo lì: grande tremolante frutto di cera, sudato per lo sforzo della sua stessa improbabilità, ogni getto di umori un grido a cui sei ulteriormente grata, una dolcezza allenata contro la tua migliore alchimia. Strega, puoi solo guardare questo salasso dall’alto, puoi solo emendare l’atto di proprietà del tuo corpo: guardalo dillo anche tu, guardalo come un coniglietto con una torsione sul collo e spera di poter essere così, essere presa, essere tenuta, ma invece diventi di legno e ti giri sulla schiena. Un’elica? No, non c’è scampo da questo, e quindi: un ventilatore a soffitto annega la loro gioia sommessa, emettendo schwa schwa schwa nella guaina di luce del tardo pomeriggio del letto.

When Someone Says I Love You

the whole room fills up with iced tea, something gives: the sun peels from your window, a sugared lemon, whole, flaming, hanging there. You tell them they must: puncture your chest with a straw to suck all the empty out, but because they say love they think they can’t hurt you, even to save your life, which is why you float up up up, knocking your curled toes and bedeviled breath hard against the tea-stained ceiling, why you swim sentry over the oxheart that flooded your bed, hollowed you out. See it there: big and bobbing wax fruit, sweating with the effort of its own improbable being, each burst of wetness a cry to which you are further beholden, a sweetness trained against your own best alchemy. Witch, you can only watch this bloodletting from above, can only amend the deed to your body: see it say it back, see it like a little rabbit with a twist on its neck and wish you could be that, being had, being held, but instead you grow wooden and spin on your back. Propeller? No, there is no getting away from this, and so: ceiling fan, drowning their hushed joy, going schwa schwa schwa in the bed’s sheath of late afternoon light.

*

L’aldilà delle mie giacche perdute

E infine il Diavolo mi porterà in uno scantinato
dove ci riuniremo: io e le mie giacche.
Centinaia e centinaia di loro, su grucce,
o cumuli in cui devo eternamente frugare:
mentre vermi ciechi strisciano lungo le coste
del velluto e la mia anima rivolta
tutte le tasche. Devo ricomporlo:
questo progetto che i vermi devono disfare, premendo
le loro bocche umide contro le toppe sui gomiti,
guastando lo scozzese e tarmando la lana.
La mia anima cerca di provare i giubbotti di jeans.
Sulle spalle non mi stanno bene perché non
ho spalle. È questo l’inferno dell’essere
immateriale su una montagna di materiale?
Da viva ho pianto la perdita delle mie giacche,
abbandonate sul retro di sedie, nel retro di taxi.
Nell’aldilà mi cadono attraverso.
Talora saltano fuori piccole cose: steli
di ciliegia annodati, cartine di pastiglie per la tosse, ottantatré
centesimi, una ricevuta del distributore e, una volta, una bustina di fiammiferi
con una scritta all’interno: “Karyna,
hai sprecato così tanto del mio tempo. Brucia il messaggio”.

The Afterlife of My Lost Blazers

And then the Devil will bring me to a basement
where will be reunited: me and my blazers.
Hundreds upon hundreds of them, on hangers,
or hillocks I must eternally rifle through:
the blind worms inching down the wales
of the corduroy, my soul turning out
all the pockets. I must piece this together:
this project the worms must undo, ressing
their wet mouths into elbow patches, under-
mining the plaid and mothing the wool.
My soul tries to try on the jean jackets.
The shoulders don’t fit because I have
no shoulders. Is this the Hell of being
immaterial on a mountain of material?
In life I mourned the loss of my blazers,
left on the backs of chairs, in the backs of taxis.
In the afterlife they fall right through me.
Sometimes little things fall out: knotted
cherry stems, cough-drop wrappers, eighty-three
cents, a gas receipt, and once, a matchbook
with something scribbled inside: “Karyna,
you wasted so much of my time. Burn this.”

Karyna McGlynn è nata nel 1977 ad Austin, Texas. Si è distinta come performer all’interno della scena slam della fine degli anni Novanta. Al suo attivo ha due raccolte (I Have to Go Back to 1994 and Kill a Girl, Sarabande Books 2009, e Hothouse, Sarabande Books 2017) e tre plaquette (Scorpionica, New Michigan Press 2007; Alabama Steve, Sundress Publications 2014; The 9-Day Queen Gets Lost on Her Way to the Execution, Willow Springs Editions 2016). Ha un MFA in Poesia conseguito all’Università del Michigan e il PhD in Letteratura e Scrittura creativa dell’Università di Houston, dove è stata editor della rivista «Gulf Coast». Ha ricevuto diverse onorificenze, tra cui il Verlaine Prize, il Kathryn A. Morton Prize, l’Hopwood Award e la Diane Middlebrook Fellowship in Poesia all’Università del Wisconsin, e attualmente è Visiting Assistant Professor di Poesia e Traduzione all’Oberlin College (Ohio).

Maria Luisa Vezzali (Bologna 1964), docente di Materie letterarie nella scuola superiore, è traduttrice di Adrienne Rich (Cartografie del silenzio, Crocetti 20202, e La guida nel labirinto, Crocetti 20212, premio per la traduzione dell’Università di Bologna) e Lorand Gaspar (Conoscenza della luce, Donzelli 2006). Per Raffaelli (2011) ha curato un’edizione dell’Anabasi di Saint-John Perse. Altre autrici tradotte su rivista: Michelle Cliff, Carole Darricarrère, Imtiaz Dharker, Marlene Dumas, Shira Erlichman, Elaine Feinstein, Denice Frohman, Vénus Khoury-Ghata, Jade Lascelles. In poesia ha pubblicato L’altra eternità (Edizioni del Laboratorio 1987), Eleusi marina (in “Terzo quaderno italiano” a cura di Franco Buffoni, Guerini e Associati 1992), dieci nell’uno (Eidos 2004, disegni e sculture di Mirta Carroli), lineamadre (Donzelli 2007, premio Anterem/Montano), Forme implicite (Allemandi 2011, gioielli e disegni di Mirta Carroli), Tutto questo (Puntoacapo editrice 2018, premio don Luigi Di Liegro 2020). Suoi testi sono tradotti in inglese, spagnolo, francese, tedesco, svedese e arabo. È comparsa in numerose riviste e antologie, tra le quali Sotto il cielo di Lampedusa. Annegati da respingimento (Rayuela 2014), Sotto il cielo di Lampedusa II. Nessun uomo è un’isola (Rayuela 2015), Officine della poesia/1. Bologna (Kurumuny 2018) e Lunario di desideri (a cura di V. Guarracino, Edizioni Di Felice 2019). È stata invitata al Festival di Mantova nel 2011 e nel 2022, al Festival dell’Autobiografia di Anghiari nel 2018, a Vola Alta Parola nel 2021, nonché in varie edizioni di PoesiaFestival, Pordenonelegge e Bologna in Lettere. Nel 2012, 2018, 2019 e 2020 ha tenuto lezioni all’interno del “Corso di Etica e Politica in prospettiva di genere” dell’Università di Bologna. Fa parte dell’Associazione Orlando e del collettivo di traduttrici WiT (Women in Translation), che ha prodotto Audre Lorde, D’Amore e di lotta (Le Lettere, ottobre 2018). www.marialuisavezzali.com

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