[…] quei corpi fatti per sfidare l’entropia / tu ora fattoti misterioso […].

Bastano due versi a Bernard Noël – poeta francese tra i più significativi del secondo Novecento – da Il poema dei morti (Book Editore 2020) per mostrarci l’intero e ineffabile mistero, per l’uomo, di Vita e Morte.

Se vogliamo porci sul piano della termodinamica la vita è fiero combattente opposto al colosso di nome Entropia, volto a trascinare l’universo creato verso un quieto stato di assoluto e imperituro disordine.
Ogni vivente, infatti, crea e perpetua – a partire da un ambiente circostante in eccesso di confusione – un elegante quanto complesso ordine (che caratterizza la sua struttura materica, dal molecolare al visibile), ma ciò necessita di un grande dispendio di energia e un’usura dei meccanismi biochimici utili allo scopo [1].
L’opera di Noël si colloca a frangere quell’invisibile e farne […] carne ferita il sangue ovunque / le urla i colpi il clangore delle armature / miscuglio di mattanza e ferraglia / […] brandelli di corpi tagliati a caso.

Se la morte percorre ogni strada interminabile della Storia, il vivente da sempre l’affianca. Imperituro, egli vìola i principi fisici che regolano le vastità siderali, dicevamo, e ne paga prezzo per partecipare allo spettacolo finale della sua morte. Che – non inganniamoci – è altrettanto complessa: mosca, uomo o elefante morti sono, almeno per un certo lasso di tempo fisico, altrettanto multiformi e difficoltosi oggetti di studio e definizione quanto le centinaia di reazioni chimiche e metaboliche che una cellula può sostenere e portare a termine ogni giorno per garantire la multiformità vita.
Eppure, è più spesso dinnanzi alla morte (fisica) che uno stupore strozzato può capitare ci prenda la gola in quanto […] temiamo tutti un’immagine ben precisa / poiché bisognerebbe inghiottire il proprio abisso / saltar fuori poi cadere dentro […].

“Morire è, prima di tutto, un dovere” sosteneva l’oncologo Umberto Veronesi. Da uomo di scienza aveva ben compreso il compito di chi – o cosa – possiamo chiamare Morte: non puro divertimento che schiaccia a caso mosche, uomini ed elefanti, o fa crollare repentina a terra file di esseri come in un gioco del domino, toccando lieve la prima tessera, bensì funzione di più ampio respiro ben inserita nel complesso ciclo della vita universale: Morte come plasmatrice di Vita [2] poiché, come scrive il poeta Noël […] colui che dissipa l’oscurità / […] mischia a suo piacimento i quattro elementi / lascia che ovunque la morte faccia il suo lavoro / […] la vita non per questo cambia corso.
Sul piano biologico, infatti, è da tempo noto come vita e morte siano inestricabilmente legate – senza poter esistere l’una senza l’altra – attraverso un raffinato processo conosciuto come apoptosi (composto dal greco πό «da» e πτῶσις «caduta») e coniato nel 1972 da John F. Kerr, Andrew H. Wyllie e A. R. Currie:

“It is not confined to vertebrates (Goldsmith, 1966), and we suspect that further work will confirm it as a general mechanism of controlled cell deletion, which is complementary to mitosis in the regulation of animal cell populations. Because of its important kinetic significance we suggest that it be called Apoptosis [3]”.

Termine già usato da Omero per indicare la caduta di foglie dagli alberi in autunno o quella dei petali dei fiori (metafore spesso usate per parlare dell’umana caducità); un modo ‘naturale’ di morire – ossia senza l’intervento di agenti esterni o cause accidentali che porrebbero i sopravvissuti difronte a enigmi inconsolabili come ben descrive Noël […] la tua morte ne è la conferma / la sua mancanza tiene in vita lo scomparso / […] d’un tratto è qui del non essere più qui / violenza improvvisa e solo intima / non direi neppure un’immagine presente.

L’apoptosi è niente altro che un pianificato suicidio cellulare, un consapevole annientamento che, nel rispetto di un compiacimento evolutivo (o in piena ottica di un’evoluzione riduzionista), vuole garantire la miglior sopravvivenza del gruppo grazie al sacrificio di un singolo che, accortosi di un malfunzionamento responsabile di comprometterne l’attività e che potrebbe nuocere a chi gli è attorno, attua la scelta suicida.
Siamo a livello di minime entità biologiche; lungi dall’entrare in discorsi attributivi di chi sono i migliori o i buoni e i giusti destinati a sopravvivere a tale sacrificio e chi a dover soccombere. Piuttosto, risulta opportuno citare il famoso e famigerato gene egoista [4] ben descritto dal biologo inglese Richard Dawkins che, in una visione puramente macchinicistica e materialistica della natura, progetta e costruisce congegni molecolari – e corazze biologiche a loro protezione – sempre più adatti alla sua sopravvivenza e perpetuazione.

La morte è, dunque, egoista? Forse, ma non peggiore dell’uso che forze politiche ed economiche possono farne per arrecarsi vantaggi. Del resto, la materia storica è colma di esempi governativi che hanno legittimato stermini e odierni mattatoi, dai tempi dei miscugli di mattanza e ferraglia in cui tutto era un […] corpo a corpo / faccia a faccia in diretta tagliare la carne / staccare in fretta quel braccio minaccioso / a chi, […] sul mercato dello sterminio / asfissiare col gas non pone alcun problema sebbene […] tutto si complica coi cadaveri ammucchiati pag 61 senza dimenticare come con un semplice scomparso / lo Stato nasconde così tutti i suoi cadaveri / […] che renderà legale il prossimo massacro poiché […] tutto sarà giustificato se sputa / un paio di nomi prima dell’ultimo respiro. Una riflessione, quella del poeta Noël, sulla realtà storica troppo spesso dominata da una ragione di Stato pianificatrice della soppressione di chiunque si opponga a logiche politiche o economiche alienanti la dignità dell’individuo.

Se la morte appare egoista non da meno è la tanto decantata, in termini di ottimismo, ‘forza della vita’ che, seguendo una corrente – arbitrariamente definibile – di ‘brutalismo evolutivo’ (simile all’attività degli ‘Stati Padrone’) è protagonista di un gioco privo di norme o vivificanti forze esterne a regolarlo: un gioco che, ammettendo ogni tipo di inganno e bassezza – o meritevole e sorprendente azione – si dimostra essere attività quanto più onesta e corretta si possa pensare [5] anche perché […] l’immortalità non è più necessaria / l’angelo agita per poco la spada ardente / […] che noia sarebbe vivere per sempre […].

Proprio in questo la vita si dimostra feroce e connessa con l’intimità della morte dovendo, per forza di cose, condividere con essa in un abbraccio dialettico il panorama universale, onde garantire la completezza energetica e materica di un tutto unico ma dalla essenziale natura mutevole: un dao senza fine [6], insomma, come già magnificamente descritto dalla dottrina filosofica cinese secoli fa.

Lo stesso Dawkins introdusse in un capitolo del Gene Egoista un concetto di infinito ripetibile, frettolosamente riassumibile come: la vita è virale quanto un meme [4]. Meme (dal greco μίμημα, mímēma, ossia ‘imitazione’) – ora riconosciuta come idea o azione che si propaga capillarmente nella comunicazione sociale per imitazione – è termine coniato proprio da Dawkins. Lo scienziato se ne servì per approfondire il concetto di gene egoista ritenendolo come minima unità bio-culturale, ossia l’informazione essenziale trasmissibile alla prole e custodita nella memoria molecolare del DNA. E come il meme è soggetto a modifiche così il gene può subire una mutazione evolutivamente vantaggiosa e dunque trasmissibile o inutile e destinata a estinguersi.

In tale ottica tutto diviene lecito purché aumenti la capacità trasmissiva e la sopravvivenza della specie; dunque, anche la morte [5]. Del resto, come disse Steve Jobs, la morte era senza dubbio “La più grande invenzione della vita”. E, in un’acuta quanto drammatica estremizzazione, il poeta Noël scrive come La vita è ormai un’impresa / […] bisogna saper speculare su sé stessi / far salire la propria quota e il suo valore […]. 

Cosa possiamo, dunque, vedere, della morte (di un uomo)? [7] Gli arti divengono freddi, si manifesta un ridotto stato di coscienza, sonnolenta e confusa, verso la fine. […] il pensiero danza attorno l’impensabile / cerca un’uscita o un’invenzione / […] seziona tutto il canale pensante /e più nulla alcun segno alcuna forma […]. Il respiro da irregolare diviene rantolo per l’inefficienza dei muscoli della gola: è […] il vuoto o l’infinito / o due povere parole per dire la stessa cosa […].

Dicono, in assenza di malattie contagiose, che se tocchi, accarezzi, sostieni il corpo della persona durante e subito dopo la morte, ti possa essere di conforto perché anche noi stessi spettatori, in una comunione di intenti misteriosi che, assieme il morente-già-staccato, frugano nelle pieghe della morte, ci troviamo difronte alla […] soglia senza battente / dato che sarebbe inutile / come pensare che chi lo spinga / sia già indifferente al ritorno.

È giunto il momento di riformulare la domanda iniziale e chiederci: cosa possiamo, dunque, vedere quando si muore? Ecco come in una semplice particella pronominale è racchiuso l’insopportabile – ma necessario e non eludibile – peso e rinascere che ogni vivente racchiude in sé.

Purtroppo […] la notte, lì dentro è davvero troppo nera / persino gli dèi vi si perdono / giocando invano con il coltello dei misteri e assumendo a rifugio confortante la coperta avvolta del si muore, aggiriamo la responsabilità di assumerci la conferma della nostra morte. Il nucleo più profondo di ogni uomo, come ci ricorda Heidegger, è l’essere-per-la-morte, il Sein-zum-Tode: un esserci che identifica una morte solo e soltanto propria [8].

Trattandosi di un’incombenza futura il senso del morire è un vigile attesa notturna, sotto l’unica luce stellare, di chi a noi difronte con lentezza più o meno costante, si avvicina: una morte come fine che, superata il cerchio limitato delle supposizioni e conoscenze umane oltrepassa la linea, ci raggiunge e interrompe la vita; e una morte con un fine, ossia il compimento doveroso del processo di vita nella proiezione biologico-esistenziale dell’umano, in sintesi «un totale prendersi-in-possesso della persona, un aver realizzato-sè-stessi»[8].

Evitare di prendere atto di quanto ci attende o, meglio, più di tutto ci appartiene, significa rigettare l’inevitabile e lanciarsi in un’affannosa ricerca di […] un aldilà sempre da inventaredove il vecchio traghettatore non è scoraggiato / attende che l’attuale naufraghi.

È innegabile, comunque, che oltre ogni filosofia dell’esistenza accada con la morte un decadimento putrefacente della materia che ci anima. Per questo il poeta Noël pone l’accento furioso sull’aspetto carnale della dipartita, sulla sua violenza che distrugge, sconquassa, stritola e fa marcire nell’olezzo la caduca esistenza materiale dei corpi. Così, quando le ossa si spezzano e il grasso si scioglie / il corpo umano espelle il proprio cadavere finché non accade […] alcuna reazione in quel sacco di carne […] finché […] se ne immagina la gelatina / e l’avanzata fermentazione.

La morte si sconta vivendo, inutile dimenticarlo; e, abbiamo visto, si sconta su ogni piano dell’esistenza, da quello biochimico all’emotivo. Riconciliarsi con la morte, nei confronti della quale lotte e tentativi di distruzione sono impossibili, può permettere il riappropriarsi di una dimensione più naturale della vita stessa.

Nell’attuale contesto storico e scientifico la vita, da prezioso bene ciclico della natura, è divenuta un prodotto migliorato e migliorabile della tecnica (soprattutto) medica che consente al corpo di sopravvivere a malattie e infortuni grazie una continua manutenzione (con farmaci e abilità chirurgiche) e, si ipotizza in un futuro molto prossimo, di essere ricreato pezzo a pezzo artificialmente [9].

Riconciliarsi con la morte comporterebbe il sanarne la scissione con la vita, permettendone una miglior comprensione nel contesto della realtà umana e sottraendola a giudizi e connotazioni per riportarla sullo stesso piano di ciò che è la vita stessa: un evento naturale. È quanto sta insito nel concetto di ortotanasia, proposto nel 1995 da Kurt Eissler, psicanalista austriaco: nessun danno o ingiustizia rappresenta la morte ma un momento fulgido e irripetibile in cui passato, presente e futuro si ricongiungono stabilmente per creare l’unica e vera realtà da quell’ora in avanti, dimorerà ciò che chiamiamo essere [10].

Così mentre la natura scompare la tecnica ripara la vita (o ne costruisce di nuove) e turba quell’atemporale equilibrio dell’abbraccio daoista tra vita e morte: nel mondo occidentale cosiddetto libero, per alcuni esseri pensanti ognuna di loro ha, adesso, un peso e molti lo sentono premere e schiacciare qualche paesaggio interiore. Per altri si tratta di due aleatorie presenze confuse e confondibili alle quali risulta difficile, se non impossibile, attribuire il reale e immenso valore – o peggio si soprassiede, svogliatamente.

Una ‘privazione di senso’, quella descritta, che rappresenta il nucleo polemico e poetico maggiore del poeta Noël; un fenomeno di ‘sensura’ [11] ossia il “progressivo processo di castrazione mentale e di svuotamento della coscienza critica che avviene all’insaputa della sua vittima” opera del processo di tirannia cultura e ideologica messa globalmente in atto e sostenuta dai media.

Ecco come allora tutto diviene […] soggetto alla giustizia / certo in nome di una legalità / sempre e solo al servizio del potere […] e come occorra fare […] attenzione al contagio / la malattia della morte è comune / nessuna legge che la metta in quarantena

Morte, vita. Continuare a vivere, darsi morte nel più ampio significato che ciò possa assumere. Ora che all’uomo è data possibilità di scegliere, tentiamone un’esperienza riappacificatoria, prendiamo in mano, provando a osservarlo, il coltello dei misteri.

da Il poema dei morti (Book Editore 2020)

8

la morte ha fato di te un ammasso informe
un’atroce poltiglia su un marciapiede
non ho visto nulla e non smetto di vedere
un anno giorno per giorno dopo Unica
non so quanto dopo Réquichot
di cui ammiravi l’opera e il comportamento
né quanto prima di Deleuze e Vuarnet
questi nomi triste corona mortuaria
non per costruire macabra compagnia
ma per ricoprire la cosa sanguinolenta
che sempre fermenta nel mio pensiero
ci vorrebbe che il nome fosse come un osso
un feticcio sospeso nella testa
e non quel chiodo che denuda la piaga
con defecazioni di dolore
la vista del feretro non ha placato nulla
dissimulava lo stato cadaverico
com’era predisposto per l’ultimo viaggio
vederlo avrebbe potuto uccidere le immagini
di carni macinate o triturate dall’urto
di cervello colante dal cranio rotto

11

fuori il lamento funebre dei gabbiani
dentro gli utensili raggelati del morto
parquet macchiato e tavoli straripanti
flaconi scatole boccali stracci pennelli
la mano è passata dietro la. schiena
la schiena è partita per stendersi a terra
tutto si è stancato di non servire più
l’archiviazione ha sostituito la vita
muore luce s’alza polvere
più non si sa se l’ombra ne faccia parte
accostati ai muri pacchi anonimi
forse altrettanti fantasmi discreti
è stato fatto l’inventario dice qualcuno
l’opera non è altro che una lista di titoli
con date dimensioni e tecnica
si è certo corredato il tutto d’immagini
semplificano la realtà
non si sa più servirsi dell’invisibile
per ravvivare la superficie che muore
ma si fa affidamento sulla plastica imbottita
per imbalsamare tutti i quadri rimasti

20

il succo della morte come un sudore
certo le si tende il sudario più candido
si desidera cosi cogliere la presenza
benché il suo gusto sia assai amaro
questo gusto com’è vale più dell’immagine
l’ultimo respiro già è svanito
Iside lassú l’ha carpito
per con esso ricucire la sua Osiride
i brandelli divini possono ritornare utili
anche la nostra chirurgia sa farlo
l’immortalità non è più necessaria
l’Angelo agita per poco la spada ardente
l’Espulsione è certo definitiva
che noia sarebbe vivere sempre
nessun metro divino può misurarla
l’umano ama inventarsi problemi
senza rapporti con la sua realtà
la mitologia permetteva il sogno
ne si truccava la testa dei giorni
il consumo permette soltanto
di auto-consumarsi senza saperlo

Bibliografia e Sitografia

[1] Biochimica – Kevin G. Ahern Christopher K. Mathews Kensal E. van Holde.
[2] Filosofia della morte e Arte del morire – Luisa de Paula.
[3] Br. J. Cancer (1972) 26, 239 Apoptosis: a basic biological phenomenon with wideranging implications in tissue kinetics. J. F. R. Kerr, A. H. Wyllie and A. R. Currie.
[4] Il gene egoista: il libro di Dawkins che vede il gene al centro del meccanismo evolutivo – Marianna Minniti.
[5] “Vinca il peggiore” – Ciottoli di Psicopatologia Generale Nr. 42. Roberto Lorenzini.
[6] Yin e yang. Dizionario di filosofia (2009) – Treccani.
[7] Quando la morte è imminente – Elizabeth L. Cobbs, MD, George Washington University; Karen Blackstone, MD, George Washington University; Joanne Lynn, MD, MA, MS, Altarum Institute.
[8] Parusia e Sein-zum-Tode. Paolo, Heidegger, il tempo – Nicoletta Celeste.
[9] Morte e bioetica. Ridiscutere la definizione di morte – Simone Pollo.
[10] Morte – Carlo Alberto Defanti, Giovanni Carlo Zapparoli – Universo del Corpo (2000).
[11] Dalla prefazione di Fabio Scotti a ‘Il Poema dei Morti’.

Bernard Noël è nato nell’Aveyron in Francia nel 1930. Poeta, narratore, saggista, drammaturgo e traduttore, è oggi ritenuto uno degli autori più significativi del Secondo Novecento. La sua opera, salutata con entusiasmo da Aragon, Mandiargues e Blanchot, è incentrata sulla ricerca di un’autentica scrittura del corpo e indaga i segreti circuiti fisici e mentali che legano il pensiero alla creazione, in una realtà minacciata da quella che egli chiama «la sensura», ovvero «la privazione di senso».
Tra i suoi libri tradotti in italiano: Diario dello sguardo (Guerini e Associati, 1992), Il rumore dell’aria (Edizioni del Leone, 1996), La caduta dei tempi (Guanda, 1997), La bocca di Anna (Archinto, 1999), Estratti del corpo (Mondadori, 2001). A cura di Fabio Scotto, nel 2020, è uscita la traduzione de Il poema dei morti (Book Editore).

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