Intorno a un’omissione significativa

Una piccola citazione da Ovidio – due semplici versi dei quasi dodicimila del poema, due frammenti strappati ai marosi dell’Ellesponto che compaiono più o meno a metà libro – parla del carro di Cerere, dei draghi che lo conducono negli spazi infiniti dove il suo percorso produce pioggia, sole, nubi, venti. In questo caso le bestie meravigliose non suscitano cambiamenti atmosferici ma vanno verso la Fame, chiamata a punire Erisìctone. I draghi sottoforma di serpenti giganti quasi mai muniti di ali ma che semplicemente procedono col vibrare della coda, dovrebbero essere trattenuti da morsi e da briglie. Gli artisti, sia scultori che pittori non hanno mai rinunciato a tratteggiarli. Sin qui. È questa semplice omissione che produce lo scarto. “La distanza non deve spaventarti. Prendi il mio cocchio, prendi i miei draghi; manca l’ultima parte del secondo verso: con le briglie li guiderai per il cielo.” Dunque è singolare che la citazione sia monca, presupponendo che i draghi di Cerere vadano liberamente e naturalmente verso il cielo. Non è così. Se non fosse per il polso fermo della Oreide a cui Cerere li ha affidati, non procederebbero. Uno sterzerebbe a sinistra, l’altro magari volerebbe dritto davanti a sé. Ne deriverebbe un moto sussultorio e una quiete scombussolata. Se non accade è perché il morso li trattiene, le redini li guidano, la mano della ninfa del Pelio li comanda. Così mi pare si debba dire dei draghi qui descritti. Ancorché il carro che va verso il Caucaso (e oltre, sino all’Estremo Oriente o all’Islanda) si dichiari condotto da liberi animali, c’è una regola, c’è una dolorosa disciplina prodotta dal togliere, dal limare e dal cancellare e che segue una rotta riconoscibile. Qui non ci sono numeri di pagina ma coordinate geografiche; in qualche caso nomi di città, paesi e quartieri: il disorientamento produce movimento e, nonostante un procedere contraddittorio, sembra seguire una linea tracciata con determinazione. Credo dipenda sentimenti opposti: dal fluire e dal compenetrarsi di memoria e curiosità; da uno sguardo che si volge verso il passato e da un occhio fisso sul presente. Ma forse anche dalla semplice illusione che quel che si racconta, quel che si scrive, quel che s’immagina non abbia freni né briglie o morsi dovuti al passato, ai rimpianti o ai desideri. Sappiamo che non è così ma ci piace immaginarlo. (Filippo Tuena)

 

Da Bestiario, metamorfosi (Gattomerlino, 2019)

 

eravamo i bambini che nel buio
si facevano coraggio
imparavamo la voce diretta delle cose
un uovo insanguinato, latte, caldo
e calma

*

CAFFÈ ITALIA

i.
Ci hanno fatti accomodare e poi non è venuto più nessuno.
Quell’atmosfera da mensa di sanatorio in inverno. Sempre un
po’ troppo freddo. Il bianco, il coltello piatto e il burro sul
pane, le porte di legno sbrecciate. Le occhiaie grasse, la bambina
che dorme e il cane che abbaia per il cibo.

ii.
I lupi famelici che inseguivano il fiume, i primi animali feroci
di cui sentii parlare nelle fiabe. Per tutta la notte mi sono
morsa la guancia. Mi estraevano dal cuore un martello.

iii.
Le campane, il canto del gallo, il latrato dei cani da caccia, la
nebbia, la terra unta, i lombrichi.
La vecchia sdentata conta i soldi, non può permettersi la dentiera,
le visite, la casa è una ghiacciaia.
Questa è la povertà in cui si sembra ricchi.

iv.
Nel campo di sterminio la cosa più schifosa sono i bagni.
Devo prestare molta attenzione a non sporcarmi quando faccio
un bisogno.

*

Cronaca della provincia di Hitachi e dei suoi costumi.

Il luogo è inospitale, le locande sono deserte, sono aperti solo i due negozi che vendono sale; il sentiero degli orchi sbuca su una baracca di lamiera piena di scatoloni. I palazzi enormi, arrugginiti cinacomunista. Bianchi, marroni. Nella hall e nei corridoi la moquette è polverosa, impregnata di fumo e macchiata. C’è uno scarafaggio, una cimice in sala da pranzo, il cibo ha il sapore del fango.
L’acqua bollente del tenburo è meravigliosa.
Nel fondo dell’aprile splendente sono io, il faro, soffia forte il vento e le foglie della foresta dei cedri luccicano, i prati delle erbe velenose e fluorescenti.

Dancing drummers, Namahage Daiko, ridiamo, battiamo le mani. Forse siamo stati ingannati.

A notte fonda, tutti i mostri del Giappone si arrampicano sulle pareti dell’onsen, oni, tartarughe, rospi, i fantasmi, ombre sulle pareti di carta di riso, dal mare ostile emergono le rocce sono dragoni, stanno venendo a prendermi per entrare nella mia testa.

*

Da bambina foravo il foglio tanto calcavo.

Il significato simbolico dei fatti.
L’atto sessuale è simbolico e non fisico.

Forse la domanda non era quanto siamo distanti ma
quanto a fondo.

*

Usciamo a cena io, lui, la sua ex e la fotografa.
Io gli siedo di fronte, al suo fianco ha la ex.
Dopo poco iniziano a ridere, corteggiarsi,
lui le bacia un seno. La fotografa mi fa un cenno
sbigottita,
io le rispondo che ci siamo lasciati.
Me ne vado, lui mi segue
dicendo che stavano solo scherzando.

*

bestiario, metamorfosi

in primavera siamo molto tristi

conosciamo la nostra fame
ma ignoriamo cosa fare

questo trattenersi diventa dolore
tremiamo di freddo

 

Paola Silvia Dolci, nata e residente a Cremona, è ingegnere civile. Si è diplomata presso il Centro Nazionale di Drammaturgia. Collabora con diverse riviste letterarie. È direttore responsabile della rivista indipendente di poesia e cultura Niederngasse. Tra gli altri ha tradotto Maxine Kumin, Galway Kinnell, Christian Gabrielle Guez Ricord e Albert Camus. Ha pubblicato: Bagarre (Lietocolle ed., 2007); NuàdeCocò (Manni ed., 2011); Amiral Bragueton (Italic Pequod ed., 2013); I processi di ingrandimento delle immagini (Oèdipus ed.,  2017).

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