“Sulla legge di Laplace”, fotografia di Alfredo Rienzi

ESOGRAMMI

Rubrica a cura di Alfredo Rienzi

Linguaggio scientifico e linguaggio poetico: qualche considerazione e un transito nella Camera sul vuoto di Bruno Galluccio

La descrizione di una ipotetica curva di crescita delle scoperte scientifiche e delle relative ricadute tecnologiche segue modelli previsionali non uniformi, ma che concordano sulla occorrenza di una attuale fase di accelerazione. Secondo la celebre opera dell’economista Tim Harford, Fifty Things That Made The Modern Economy[1] che elenca le 50 invenzioni che avrebbero rivoluzionato il mondo, otterremmo un grafico ad andamento esponenziale a base 2. Alcune scienze, come l’informatica, la genetica e la bioingegneria, l’astrofisica e la cosmologia trainano questo trend.

Ma, a fronte della radicale trasformazione pratica delle vita individuale e della società, determinata dalle ricadute tecnologiche e, sia pure su un piano più immateriale e coscienziale, direttamente connessa al diverso sapere scientifico (non è che ci evolviamo diversamente, dopo Darwin, o che percepiamo diversamente in nostro corpo dopo la scoperta del DNA, ma certamente viviamo le esperienze in altro modo, con altra coscienza) vi è stata una qualche parallela o correlata innovazione nella poesia? Il linguaggio poetico, per non dire della stessa occasione poetica, in che modo ha recepito, accolto, metabolizzato la tecnologizzazione della vita? E, ancora, in maniera più astratta, le (nuove) conoscenze scientifiche?

Le due ultime domande, ex post, rivelano un vallo, tra l’inclusione della tecnologia e, invece, la sostanziale estraneità della speculazione scientifica nel linguaggio poetico. Infatti, travalicata la comunque significativa esperienza futurista a bordo dell’«automobile da corsa col suo cofano adorno […] più bella della Nike di Samotracia»[2] il corteo degli oggetti ha inevitabilmente, ma in modo tutto sommato ancora marginale preso dimora tra i versi moderni e contemporanei, dal televisore di Magrelli[3] alla lavatrice di Oldani[4] (insieme a tutte le metafore inverse dei realisti terminali), per sfociare nella pletora di ancora corporei “display” e “tastiere” e di ondulatori “internete “media”. Solo in modo sporadico sembra essere accaduto, invece, un interessamento della poesia per le Scienze in quanto tali, al punto da dover e poter annoverare una ristretta cerchia di nomi di poeti che, pure in tempi recenti di digitalizzazione ed eco-scienze, abbiano affrontato in modo consistente le tematiche o portato contributi sostanziali allo storico dibattito sulle “due culture”.

Questione che, volendoci limitare al Novecento, ha già registrato le contrapposte idee del “razionalista” Pirandello[5] e dell’”idealista” Croce (che poneva l’intuizione pura alla base della creazione artistica) e le posizioni, tra gli anni sessanta e settanta, «da una parte di Anna Maria Ortese e Carlo Cassola, rappresentanti di una cultura umanistica che guarda[va] con scetticismo all’era spaziale e difende la tradizione letteraria da ogni contaminazione tecnico-scientifica» e dall’altra quelle «di Italo Calvino e del filosofo della scienza Giulio Preti, sostenitori della fecondità per l’immaginario letterario della conoscenza e del linguaggio scientifico».[6] È fin troppo evidente come risulti mancante, in quanto sopra accennato, la voce specifica dei poeti e un preciso riferimento o meglio ancora una riconduzione nell’arte del verso, del rapporto tra linguaggio scientifico e linguaggio poetico.

Un contributo che quindi non può che essere accolto con lo stesso sentimento con cui un anuro accoglie l’acqua è quello che apporta l’opera di Bruno Galluccio, laureato in fisica che ha lavorato nel settore delle telecomunicazioni e dei sistemi spaziali, autore con Einaudi di tre raccolte (Verticali, 2009; La misura dello zero, 2015 e Camera sul vuoto, 2022) dove il linguaggio scientifico (e ciò che precede la parola– sia pure con le peculiarità di quella poetica – ovvero il pensiero) si nutre di tematiche scientifiche, tra matematica, fisica quantistica, astrofisica, cosmologia.

In questo primo articolo ci limiteremo a riflettere sul pensiero di Galluccio sul rapporto tra il linguaggio letterario e quello scientifico, espresso in risposta ad una specifica domanda posta da Giovanna Rosadini in una recente intervista[7]. Secondo il fisico-poeta napoletano «il linguaggio scientifico e quello poetico hanno caratteristiche espressive e strutturali lontanissime l’uno dall’altro, addirittura agli antipodi. Il linguaggio scientifico deve essere preciso, non dare adito ad ambiguità […]. La forza del linguaggio poetico […] esprime quanto osservato con un margine di ambiguità, di indeterminatezza, di sfocatura o addirittura operando un capovolgimento».

Come coniugare, quindi, i due versanti se le premesse sanciscono questa distanza? Come trovare, nel modo di dire del mondo, un contatto?

Ancora una rapida, ma fondamentale precisazione: non intendo qui, la distanza epistemologica, ché sia la Scienza che la Poesia mirano a una conoscenza sempre in divenire, se vogliamo “razionale” la prima, “intuitiva” l’altra, detto con (in)evitabile semplificazione. Sia la Scienza che la Poesia non spargono – si badi bene – certezze, ma probabilità e soggettività, specie dopo la formulazione del principio di indeterminazione di Heisenberg[8] e le aperture della fisica quantistica. Con un parallelismo un po’ forzato come quantità, ma non discutibile (allo stato attuale delle conoscenze) sia l’oggetto fisico (per non dire dell’evento) che l’oggetto poetico vengono rivelati al mondo non in senso assoluto, ma mediato dall’osservatore o dal lettore.

Ma torniamo alla centralità, secondo Galluccio, della diversità del linguaggio scientifico e di quello poetico. Lasciamo parlare i versi del poeta, dalla Sezione I di Camera sul vuoto:

l’universo potrebbe esser nato dal nulla
per una fluttuazione quantistica del vuoto cosmico

un evento casuale improbabile

anche il prevalere di materia su antimateria
un disequilibrio fluttuante di un istante

e una lunga catena di combinazioni accidentali
per cui siamo qui ora a formulare congetture

(pag. 6)

si ipotizza che esistano galassie/
espulse in direzioni opposte
nelle prime fasi di espansione
a velocità superiore a quella della luce

risultano più distanti dell’età luce dell’universo

(pag. 10)

Il testo a pag. 13, che chiude la sezione, è ancor più paradigmatico. Ne forzerò, consapevolmente in maniera poco ortodossa, la stesura omettendo gli accapo:

«l’universo si espande con accelerazione crescente e nel farlo non va ad occupare spazio vuoto ma crea spazio e tempo aggiuntivo né le galassie si allontanano tra loro migrando verso un fuori preesistente ma è lo spazio che si dilata trascinando le masse nel moto di espansione».

Risulta chiara l’operazione che Galluccio compie, con questo primo gruppo di testi, ove gira la manopola decisamente sulla polarità scientifica, non solo per il pregnante contenuto concettuale, ma anche per il registro sintattico-lessicale che impiega. Dove troviamo il poetico in quanto letto? Non lo troviamo! L’autore ne prepara però l’arrivo, lo evoca e lo evoca il lettore per contrasto e se ne definiscono (parte de)i contorni che ne conterranno le tematiche.

Si apprezzi lo stacco che produce la lettura di un paio di testi dalle successive otto sezioni:

i dolori si diluiscono uno ad uno e scendono nel tempo

La tavola da pranzo porta ferite pesanti
I bicchieri vengono da un’epoca remota

la scala tornata in vita quella dove ti arrampichi
Cerchi il senso delle parole da un’altezza nuova
Le visite su di te che ti erano state celate

la capacità di descriverci di fare la mappa
delle nostre regioni mentali si inceppa
non si racconta che per fermate accidentali
e rimane un incaglio una fessura

le regole grammaticali distrutte nell’incendio
lo sforzo mentale il disordine ridotto in polvere
il grande sospiro che sempre di più include
regioni disparate e frontiere

coglie ancora gli impulsi il gemello della galassia
i battiti che vengono dalle nostre anime quasar

(pag. 52)

comincia il viaggio
in bilico tra qui e l’assenza
tra la presa in cura e le rivoluzioni cosmiche

Avevamo aspirato a diventare angeli

e gli angeli infine nascono e fioriscono
dal bianco perenne del marmo
intaccano la superficie del tempo uniforme

la materia ridiventa materia, su dalla tenebra
filtra vita di materia
un corteo complesso, l’incanto di una cosa
ricordata a grandi linee ma dimenticata
appartenente a una catastrofe remota

(pag. 97)

 

Così, a mio modo di vedere, Camera sul vuoto contiene una fase altra o ulteriore rispetto ai precedenti lavori dello stesso e di altre poetiche “a contenuto scientifico”, per tema trattato e/o per ricorso a lessici settoriali o specifici metalinguaggi: fornisce una riflessione diretta sul rapporto tra linguaggio scientifico e poetico e ne dichiara ed esperisce una separazione/unione a diversa intensità nell’àmbito di una stessa opera di poesia. Con ciò, lo confermerà o smentirà il tempo, pietra miliare nel dibattito sulle “due culture”.

 

[1] Tim Harford, 50 cose che hanno fatto l’economia moderna, Trad. P. Conversano, EGEA 2017

[2] Filippo Tommaso Marinetti, I Manifesti del futurismo, lanciati da Marinetti [et al.], Firenze, Lacerba 1914

[3] Valerio Magrelli, “Ecce video” in Poesie e altre Poesie, Einaudi 1996

[4] Guido Oldani, in Il cielo di lardo, Mursia 2008

[5]  cfr.Claudio Vicentini, L’estetica di Pirandello, Milano, Mursia 1970

[6] Stefano Redaelli, La scienza nella letteratura italiana, Aracne 2016, p.14

[7] https://www.atelierpoesia.it/bruno-galluccio-anteprima-editoriale-atelier-laboratori-poesia/, 28 agosto 2022

[8] Il principio di indeterminazione da un punto di vista concettuale significa che l’osservatore, non può mai essere considerato un semplice spettatore, ma che il suo intervento, nel misurare le cose, produce degli effetti non calcolabili, e dunque un’indeterminazione che non si può eliminare.

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