Fra le opere in versi di recente pubblicazione, Campi di battaglia di Jessy Simonini si distingue per una volontà comunicativa attuale, imperativa, potentemente vitale. Il giovane autore, fin dalle primissime pagine, fa una radicale scelta di campo: «aspiriamo a una rivoluzione violenta e definitiva», «Solo per questo scriviamo: / per amore di chi ruba da mangiare, di chi si dispera, di chi crepa». La vicinanza agli sfruttati, agli esclusi di oggi e di ieri costituisce la trave portante di una raccolta poetica in cui si sostanzia un inscindibile nesso fra etica ed estetica: «appendiamoci a un dolore / anche invisibile, ma che sia / sempre e comunque il dolore degli altri»; il ricorrente e nodale quesito – se la poesia contemporanea possa confrontarsi con la dimensione storica e politica in modo esplicito, diretto e non tangenziale o figurato – trova qui una luminosa risposta.

La prima sezione (Il catalogo della Gioia Tauro) ha l’aspetto di un manifesto ideale: la parola deve mettersi al servizio di una rivoluzione che mai come oggi appare lontana e inarrivabile, ma non per questo meno necessaria; il motore di questo movimento è la rabbia, la cui forza sola può opporsi alle ingiustizie patenti: «incapace di contenere la collera / forse perché è proprio la collera / il solo sentimento da salvare», «preferiamo scrivere / nuovi e lucidi versi di guerra / lancia in resta nella nebbia / scegliamo un altro campo di battaglia». L’osservazione del presente nelle sue molteplici iniquità e il conseguente invito all’azione non prescindono però da una prospettiva storica, che indaga e rilegge il passato recente della repubblica, anzi la esigono. L’autore volge pertanto lo sguardo ad uno dei periodi più aspri e conflittuali del secondo Novecento italiano e ad alcune delle figure che segnarono violentemente quei decenni: Margherita Cagol, moglie del brigatista Renato Curcio, e Prospero Gallinari, membro del commando autore del rapimento Moro, sono alcuni dei nomi che abitano queste pagine. Qui troviamo una radicale messa in discussione , un ribaltamento prospettico, di un asserto trasversale e rassicurante, che ha costituito la premessa all’agibiltà democratica di tutti i partiti della prima, seconda e terza repubblica, ovvero la condanna intransigente della stagione di lotta armata rivoluzionaria degli anni ’70 e ’80; una condanna spesso assiomatica, in cui non è prevista contestualizzazione storico-sociale o studio delle cause. La questione è controversa e divisiva e per questo spesso elusa. Che l’interpretazione suggerita dall’autore sia condivisibile o meno, ognuno lo giudicherà sua ratione, ma l’intento non è quello di fornire risposte, bensì di aprire crepe su un muro che appare troppo liscio e smaltato ad arte; senza timore di essere «messi in minoranza dal respiro / duro e franco della storia». I riferimenti agli attori della storia pubblica, quella che si studia sui libri e sulle cronache, si accompagnano però ad una dimensione più intima e familiare, tramandata a voce da uomini e donne che recano al poeta respiri, gesti e fatiche.

La seconda sezione, intitolata Albumi di famiglia, è abitata da figure parentali che appartengono ad un passato novecentesco tanto vicino, come ascendenza diretta; esse vissero l’asprezza della diseguaglianza sociale, testimoniandola col racconto e col loro corpo vivo: «Che mio nonno sia stato lo schiavo / che il suo corpo sia rotto, ancora abitato / da un grumo nero di dolore e fatica: fino alla provinciale a piedi, l’autobus, / nove ore in fonderia, / questa è la mia pena più grande». Assumono qui particolare rilievo madri e nonne, donne umili, latrici di calore e saggezza dolorosa, quali matrici della vita e del mutamento sociale, che si manifestano attraverso credenze arcaiche e contadine, atti di lavoro; «I gesti al femminile sono stati espunti dalla storia eppure sopravvivono in grandi movimenti: / braccia aperte a stendere la sfoglia / mani che si chiudono a fare il pane».

Nella terza e ultima sezione, Campi e campetti, la prospettiva politico-sociale che anima l’intera raccolta assume una specifica declinazione: quella riguardante il genere e l’orientamento sessuale; la questione è affrontata con coerente e attesa radicalità, talvolta imperativa: «Non cedere mai al maschile, / rinunciare agli spazi di potere / sempre maschio e bianco pure / quando a esercitarlo è una femmina / o un frocio». Accanto all’esperienza diretta dell’insulto omofobo e alle traversie sentimentali, appartenenti al presente o al trascorso adolescenziale, anche in queste pagine compaiono nomi che segnarono i decenni passati, fra i quali assume forza di verità e ammonimento quello di Aldo Braibanti, la cui persecuzione e oltraggio sono ferita aperta nel corpo storico della repubblica.

Il dettaglio e l’acume con cui i versi di Simonini attraversano il nostro tempo e rileggono il passato recente dimostrano uno studio approfondito di fatti, dinamiche ed eventi; una conoscenza consapevolmente orientata si affianca al dato autobiografico, costituendo il pilastro di una proposta ideale forte e oppositiva. Ma ciò che più conta è la capacità dell’autore di dare forma a un linguaggio poetico molteplice e capace di esprimere le contraddizioni del reale senza maschere, veli o torsioni labirintiche; alla chiarezza ideale corrisponde un’eleganza marmorea del verso, che appare spesso quasi scolpito. La sintassi è lineare e il poetico, senza timore di accostarsi o alternarsi alla prosa, si dichiara senza forzature, passando con disinvoltura dal descrittivo al ragionativo, al confessionale; rallegra che un giovanissimo poeta dia prova di tanta nettezza e intensità.

 

da Campi di battaglia (Sensibili alle foglie 2021)

III

Mi spinge avanti un amore preciso
per chi non ha armi contro il dolore

odio con tutta la forza che ho
per il male che a loro è stato inflitto

per questo s’arrotano i coltelli
si sfalda la lingua di pace che qualcuno
ci ha imposto:

le classi non esistono
rivoltarsi è sbagliato
rispettare le regole del campo democratico

questo è il lessico armonico
designato dal mondo di su:

preferiamo scrivere
nuovi e lucidi versi di guerra
lancia in resta nella nebbia
scegliamo un altro campo di battaglia

per difendere il mondo qui giù

mossi dalla rabbia
innestata ovunque
e dall’amore immenso per tutti loro:
i disprezzati dal capitale il cuore
di ogni rivoluzione

les gueux les peux
les rien les chiens
les maigres les nègres.

*

«Ay ay ay, que el esclavo fue mi abuelo es mi pena, es mi pena. Si hubiera sido el amo, sería mi vergüenza»
(Julia de Burgos)

Che mio nonno sia stato lo schiavo
che il suo corpo sia rotto, ancora abitato
da un grumo nero di dolore e fatica:
fino alla provinciale a piedi, l’autobus,
nove ore in fonderia,
questa è la mia pena più grande
e vorrei mostrare agli altri le bombole dell’ossigeno
da ricaricare, la distesa di antidolorifici,
i nostri rispettivi apprendistati infermieristici
l’amicizia telefonica con l’operatirice
Anna, del centralino di un ospedale.

Oggi scrivo su un foglio
fra il latte e il lievito da comprare domattina
tutti i nomi dei responsabili.

Che anche mia nonna sia stata schiava
e schiava anche sua madre,
così la madre di suo padre,
che questa schiavitù venga chiamata
mezzadria o latifondo,
fabbrica o stanza d’ospedale,
che siano le botte che si sono presi tutti,
dalle squadracce e poi da Scelba,
poi dal Partito
traditi dalla sola cosa che non tradisce
questa è un’altra pena difficile da sopportare
e allora scrivo su nuove grandi pagine
i nomi di tutti i colpevoli.

Che io ti possa amare sempre
ma più forte nel momento prima del sonno
pensando al padre di tua nonna
agli archivi ordinati
che ne consegnano il ricordo
la sua esistenza luminosa di ladro
sui treni delle Ferrovie Appulo-Lucane
questa non è una pena né vergogna

ma è la sola forma di vita
che voglio salvare.

Oggi ho capito che nessuno di loro
e nessuno di noi
mai è stato è sarà un giorno
padrone.

*

MOVIMENTO

Promettimi che non faremo la fine di Pezzana
o quella più squallida di Renaud Camus:
un tempo rivoluzionari di professione,
adesso autori sul Foglio o teoreti
affermati della Grande Sostituzione:
abbiamo venticinque anni, fammi giurare
che fino all’ultimo saremo
rivoluzionari senza professione,
che non compreremo un figlio
e non accenderemo un mutuo,
riprendimi e dimmi come l’amore
sia in ogni caso sovversione, anzi
amore impossibile senza spazi
in cui sognare lumbifragi
per industriali e capitale,

ti prego non voltare mai il dorso
della mano alla promessa,
anche a costo di finire soli
e poveri, ma intimi e politici,
nella casa-torre a Castell’Arquato
dove immagino sia morto
Aldo Braibanti, ancora innamorato
di Giovanni Sanfratello.

 

Jessy Simonini (1994) è nato in provincia di Bologna. Dopo gli studi in letteratura medievale all’ENS di Parigi, è stato ricercatore e insegnante di letteratura francese presso l’Università di Nantes. Attualmente è dottorando presso l’Università degli studi di Trieste. È direttore responsabile della rivista di poesia Le Voci della Luna.

(Visited 526 times, 1 visits today)