Fin dal primo approccio, questa nuova pubblicazione di Annarita Zacchi, Utopie del corpo, edito da Arcipelago Itaca, si ha la netta e palpabile sensazione di trovarsi di fronte ad una sezione di un cammino creativo più ampio, articolato e sfaccettato, che abbraccia un paesaggio vasto di temi, produzioni e pratiche che coinvolgono la sensibilità poetica e che denunciano apertamente tutte le contraddizioni che l’essere umano vive tatuate sulla propria esistenza.
La cifra precipua della silloge sembra infatti essere una riflessione accorata e tesa sulla precisa collocazione del corpo come identità, che tuttavia s’imbatte e si scontra con una persistente sensazione di disorientamento, di uno straniante vagabondaggio. Questa direzione del ragionamento investe sia la propria che l’altrui esperienza, secondo un intento di conflittuale immersione / dispersione nel flusso della natura, col fine di ritrovare un senso di radicamento, di appartenenza. Il processo che ne consegue coinvolge il paesaggio, che simbolicamente si carica di una visceralità che va esibita, sottolineata in un vero e proprio atto dello squarcio che mostra, porta alla luce, espone.
Tuttavia, non ci sono esiti pacificanti in questa quête, poiché il mondo non pare proprio volerci accogliere, tanto tutto ci appare spinoso e punge, elementi umani e non. Ciò non vuol comunque significare che rappresentiamo un corpo estraneo, anzi: la voce poetante afferma la sua tensione comunitaria, inclusiva, nel suo anelito a «far parte di un abitato» (p. 55), fatto che significa essere una tessera della storia, un nodo per cui passa l’energia del flusso esistenziale. Questa scoperta e questo esercizio imperterrito hanno uno stigma prettamente sensuale, dato che la vita interiore, per l’autrice, si manifesta «come un’allegoria di un involucro» (ibidem) denunciando, in questo verso, tutta la labilità dell’individuo nella complessità della materia mondo.
Il mondo è appunto casa, residenza, ma anche groviglio: è un meccanismo che ferisce, un processo che esige martirio, in cui non c’è posto per tutto ciò che è tenero. Tanto quanto il corpo, che è sottoposto ad una continua scarnificazione, anche il dettato testuale è composto da una lingua spolpata, in un florilegio di graffi e «tatuaggi di sangue» (p. 57), per cui non resta spazio, nella ritmica serrata e sincopata, per determinazioni, articoli, preposizioni non funzionali, lasciando il posto al nudo acciaio del verso petroso. Non casuale è infatti la presenza, magari ossessiva ma con funzione cardinale di orientatamento, in exergo ad ogni testo, di strappi (appunto) dalla tradizione due-trecentesca.
In Utopie del corpo Annarita Zacchi ci mostra, come risvolto del tragitto condotto in questo nostro cosmo, anche il sentimento per eccellenza dell’incontro, ovvero l’amore: dai versi risulta lampante quanto sia accidentato il processo edificatorio della relazione amorosa, al netto della vampa emotiva che compatterebbe ben poco l’organismo aggregato di due in uno. Tuttavia anche qui il graffio, l’escoriazione apre la strada ad una sutura, ad un nuovo amalgama da cui non possiamo che aspettarci nuovi sentieri, nuova vita.

 

da Utopie del corpo (Arcipelago Itaca 2020)

 

dall’Isola
risalite/1

salendo dalla buca Serrone
pesto cieca il cisto spinoso, m’infilzo
gli alluci, ai lati gendarmi cactus
guardiani del paradiso lunare
avvertono il piede ferito
dell’accesso al dopo
ma transitano segnali
dai vivi, il pesce arancio lo
rigettiamo in mare.

 

corpo in ostaggio
Holter

sono qui per la latitanza
del battito
sono qui spillata, punta
da sguardi competenti
sfiorata da camici fiacchi
alla radio gracchia il cuore
sono questa cavità dove
stava l’organo disertore

 

II

l’acqua del cuore
scorre bassa e incostante
vi attingo per i giorni
in cui saremo
in assenza di lacrime.

 

Annarita Zacchi è nata a Castelnuovo di Garfagnana e vive e lavora a Firenze, dove insegna italiano a stranieri all’EUI (Istituto Universitario Europeo). Oltre ai corsi di lingua conduce Laboratori di scrittura (Scrivendo dalla città, Scrivere con i sensi, Memoir Improptu), Camminate letterarie e organizza insieme ad altri appassionati un Festival delle Arti.
Per diversi anni, prima dell’insegnamento, ha svolto attività di giornalista per alcuni quotidiani e riviste e si è occupata di uffici stampa (fra cui Lista Verde Regione Toscana e Materiali Sonori casa discografica).
Per la poesia, suoi testi sono stati pubblicati sulle riviste “Semicerchio” e “Clandestino” e nel volume collettivo Varianti urbane, mappa poetica di Firenze e dintorni, Damocle Edizioni, Venezia. Ha realizzato varie letture sceniche e installazioni da raccolte proprie, tra cui Lavoro e antilavoro. Sogno dell’insegnante errante, con suoni, video e registrazioni di Leonardo Gandi ed ha anche collaborato a riscritture poetiche e letture sceniche da Genesi e Qohelet. Sue sillogi individuali sono Rotte terrestri (Teseo 2014) e Voi e lo sparso (Chipiuneart 2015).

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