Il titolo presagisce già un linguaggio diretto, ben mirato verso del senso dell’immagine. Così Disadorna (Italic Pequod 2022) di Rossella Renzi inizia con lampi di visioni spezzate, con frammenti di discorso che svelano il dettaglio impercettibile, l’essenza delle cose minime e fondamentali: “e un segno leggero sulla scapola/la punta di una fioritura, un’ala”.
Un’allocuzione verso un interlocutore indeterminato sancisce una netta tensione dialogica tra l’io poetante-narrativo e l’ambiente umano, relazionale.
Compaiono dei corsivi, come se si volesse sancire una voce fuori campo che si immette con forza dentro al discorso, e ne prende parte, proprio come i profughi di Lipa che attraggono l’immaginario verso un preciso riferimento di cronaca – e di coscienza.
La cenere ricorre come simbolo di una dissoluzione, di uno sbriciolamento etico che diventa anche linguistico: “Siamo stati stranieri/e non lo sapevamo./Per il pane e una coperta di lana/abbiamo ringraziato, per il fuoco”.
La disperazione si evolve in preghiera, dispiega nella parola un paesaggio apocalittico e funzionale a una strenua ricerca di salvezza (che, successivamente, assumerà plurimi significati): “La promessa del seme/domanda tempo e luce/ è la consolazione”.
Una perdurante viandanza lascia il segno sulla terra. Il gioco dei bambini imprime il passo sul terriccio, la fuga è un desiderio generale, eppure è bloccata – o rallentata- dal dazio della richiesta (forse un’aspettativa, o una pretesa di ciascuno verso sé stesso) nel luogo di devozione alla finitezza umana.
Cosa significa essere luce nel buio più profondo? Un quesito antico che, certamente, attraversa tutto il Novecento, ed è sempre capace di acquisire nuove sfumature e differenti ipotesi di risposta.
Uno sprazzo di gioia denuda la desolazione: la compagnia di qualcuno che ci è caro (nonostante persista il dubbio che possa essere l’ultima volta, una perpetua incessante ossessionante ultima volta) rinverdisce una contraddittoria e travagliata, persino sarcastica joie de vivre.
Il cambiamento di soggetto narrante -o di interlocutore- tra le varie poesie, crea slittamenti grammaticali che ritraggono nella forma l’instabilità dell’esistenza, quella supposizione ardita di nonsense che ammanta l’esperienza della vita: “Riconosco la creatura dell’alba/la bambina lasciata sola nel campo nel pianto/esplodevano i trifogli/un cristallo infiammato tra le mani”.
Essere nudi – o disadorni dalla propria stessa forma – appare come una postura d’ascolto, un cenno volontario della carne verso la sua stessa natura fragile.
L’inverno, come ambientazione rigida e dispersiva, può volgere al termine ma nessuno sa come sarà – o sarebbe stata – la vita senza il gelo a cui si è avvezzi. La possibilità di sopravvivere senza la necessità del clima emotivo e storico più rigido è, forse, simile a un oblio, a una rimozione della verità così come la si percepisce. In questa ricostruzione non distopica ma simbolico-deduttiva della realtà, sembra smarrirsi la casa come possibilità topica di sentirsi a casa. Sembra perfino perdersi “la possibilità del gesto che non è stato”, e affiora una certa mancanza di salvezza come diretto effetto dello straniamento del sé – qui più che mai collettivo, pur mantenendo sempre una sfumatura intimistica (nel solco, probabilmente, della poesia confessionale americana).
Nella “notte interiore”, si può sparire nel bianco. A vegliare, un insetto avvezzo al buio, la falena tigre, fa da testimone alle umane faccende, all’intimità del quotidiano: “Muta sulla parete della stanza/lei è testimone degli amanti/la semina, il canto,/l’incendio delle ali”.
Affiora una dimensione onirica come punto di equilibrio tra i desideri e le insidie dei desideri stessi, d’altronde, risiede “nel sonno il mistero del fuoco”.
Una mostruosità latente riaffiora nella relazionalità umana, una sorta di dis-antropomorfizzazione straniante: “Ma tu al risveglio sei un’altra creatura/le spalle sono rami più forti/ed io solo un frammento di radice”.
Così come il corpo, al contatto con l’altro, sembra cambiare sembianze, l’io poetante torna indietro nel tempo, si avviluppa nell’infanzia, chiama l’origine a sé: “Al risveglio ho appena due anni/la voce di mia madre che chiama”.
L’argilla o la pietra lo insegnano: si può modellare il corpo dell’arte, si può plasmare la visione sull’ambiente che ci circonda. Ricorrono “purezza e disperazione” come nutrimenti, elementi necessari alla sopravvivenza.
L’atto creativo artistico, richiamato attraverso la citazione di Camille Claudel, è una rinascita della materia dalla materia stessa, dalla sua essenza informe a quella formata e formante, attraverso la fluidità dell’acqua che richiama al movimento, alla trasformazione.
L’amicizia, il ricordo, le abitudini condivise, le promesse e le transizioni esistenziali affiorano dall’accostamento – o dallo scontro – della sfera pubblica e di quella privata, perfino da quelle relazioni ipotetiche e ideali nate nel solco di affinità elettive mai realizzate: “Eppure non ci siamo mai incontrate/solo un suono che lega le palpebre/il nostro modo di parlare col vento”.
Tu non ascoltavi nessuno/premevi sul petto/per fermare il tamburo” è la prima riflessione che parte dall’ “umano rumore”. Il suono è un passaggio fisico, immanente benché non tangibile (non a caso la sezione si apre con un esergo di Bonnefoy), ma si assiste a una esondazione spirituale dalla oggettualità, a un travalicamento coscienziale dalla cosa che non culmina in dimensioni ultraterrene bensì nello slancio dello sguardo che fa dell’uomo un essere eticamente evolutivo: “Continui a graffiare la parete bianca/poi ti fermi e osservi gli uccelli/schizzi che volano oltre la grata”.
In uno “schianto di stelle” si riuniscono tutte le necessarie fragilità individuali.
La felicità è un ricordo con cui nutrire il presente, ritagliare la lievità del tempo dal peso dell’impermanenza.
La parola è gravida degli spiriti che ciascun individuo nasconde nel suo inconscio, ed è proprio attraverso la parola che si potrà partorire quella luce residua nel presente che abbuia.  Con una apparente palinodia, è nella compresenza del linguaggio che sarà possibile – o si sarà costretti – a tornare cenere: “bruciare/tornare cenere/con tutte quelle lettere/mischiata alle parole”.
L’estate, nell’accezione di un tempo dello strappo, è il nome in cui abita la radice, è pratica reiterata e reiterabile della soglia, è un margine incredibilmente privo di limite.
Quelli di Renzi sono versi brevi, non oggettivabili in una realtà tangibile se non per rimandi memoriali, toponomastici, culturali, di esperienza o di consapevolezza d’attualità, eppure scandiscono un tempo presente ben preciso in cui la vaghezza e le alternative ermeneutiche rappresentano l’approdo gnoseologico-linguistico, oltre che antropologico, alla realtà contemporanea: “per noi che siamo orfani di orizzonti contiamo il tempo della fioritura”.
La ripetizione di un verbo essere declinato al passato (“Eri scintilla o la bestia che fugge”), rivolto alla seconda persona singolare, sancisce una trasfigurazione delle figure pronominali da un presunto io a un ipotetico tu che è già stato, che si è già trasformato ma da cui emerge – prorompente – il femminile. Ecco che fa il suo avvento una “temuta gentilezza”, proprio “nella stanza materna”.
La preghiera, a tratti, compare fra i versi, è un’azione pratica, una sommossa aggraziata, un tentativo di permanenza nella transitività della vita, è la liturgia del ricordo e della speranza, “la scintilla che si accende al risveglio”.
Ecco che, verso la fine dell’opera, ricompare la creatura disadorna, silenziosa testimone del detto e del non detto: una falena, notturna e misteriosa, vive nel messaggio che i morti portano ai vivi, nonostante la comune consapevolezza che “Saremo solo cenere senza redenzione”. Una redenzione di cui, forse, per provocazione o per volizione, l’uomo contemporaneo non ha più bisogno, o desiderio.

da Disadorna (peQuod 2022)

Bruciano le ferite sulle mani
la polvere confonde controluce
– non guardarmi, non toccarmi
sono soltanto un essere sgualcito
diceva la fanciulla
coi capelli intrecciati
e un segno leggero sulla scapola
la punta di una fioritura, un’ala.

*

Intorno è solo un grigio di falena
la cenere che sfoglia oscura il giorno
nella fuga le parole incompiute
ancora gemiti a distanza di anni.
Raccontami del tempo senza fiori
dei passi ripetuti all’infinito
del buio che preannuncia altro buio
del canto intonato per l’addio.
Siamo stati stranieri
e non lo sapevamo.
Per il pane e una coperta di lana
abbiamo ringraziato, per il fuoco.

*

Disadorna falena
quieta voli accanto
mentre mi porti il saluto dei morti
stanotte una nenia antica, più dolce.

Rossella Renzi vive in provincia di Ravenna, insegna materie letterarie negli Istituti superiori. In poesia ha pubblicato: I giorni dell’acqua (L’arcolaio 2009), Il seme del giorno (L’arcolaio 2015), Dare il nome alle cose (Minerva 2018), Disadorna (Italic Pequod 2022) e il saggio in eBook Dire fare sbocciare. Laboratori di poesia a scuola (Pordenonelegge 2018). È redattrice di «Argo» e di «Poesia del nostro tempo». Per la casa editrice Argolibri dirige la collana «Territori» per cui ha curato il volume Argo 2020 L’Europa dei poeti. Con altri autori ha curato L’Italia a pezzi. Antologia dei poeti italiani in dialetto e in altre lingue minoritarie e numerosi Annuari di poesia. Lavora per approfondire il dialogo tra la poesia e le diverse forme artistiche. Collabora con l’Associazione Independent Poetry attiva nell’organizzazione di eventi sul territorio romagnolo. Si è laureata nel 2003 all’Alma Mater di Bologna col Professore Alberto Bertoni, scrivendo la tesi «Eugenio Montale e la poesia del secondo Novecento».

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