Dalla postfazione di Augusto Pivanti

Rodolfo Cerè da sempre opera, nella vastità di un agire multiforme, per confer­mare il titolo della sua “vera” opera prima in poesia. Lo stato emotivo delle cose è, infatti, il modo esposto con cui Rudy (abbreviativo per gli amici, molti) co­struisce cibo e parola, gli ambiti creativi nei quali più intensamente esprime i propri talenti; uno stato emotivo che lo vede coinvolto e partecipe in ogni pos­sibile occasione, purché si tratti di lavoro sul profondo, non di sola superficie. Sento la ricerca degli spazi. / Tra le cose, tra le parole, / tra le persone ed i lin­guaggi / si assottigliano gli interstizi. // Essere appartenuti ad un posto / forza l’appariscenza dell’animo / il cui appartare, fa spazio / al donarsi che diventa piacere. // Serate riscaldate da cuori elettronici / accondiscendono ai rancori, / nei rigori linguistici, che suonano / come un tiro scagliato sul palo. Così il Nostro, in una stagione che lo vede deliziosamente fuori moda rispetto ai coetanei, con l’efficacia della metafora che Cerè costruisce con la consumata abilità dell’aforista, altro suo riconosciuto talento. Ho mani da contadino, da panettiere, / da muratore, ma non mani da signore. / Ho dita svelte, da sarta e da lavandaia / si muovono per amore e per memoria. […] Ho mani per esprimere, per imprimere / segni sul quotidiano. Scoprono mondi / rincorrono nei secondi, le parole del pane / che comunico invano, tra i gesti ed i sogni. Rodolfo è cibo preparato con esattezza chirurgica, eppure con tutto il calore di mani che sanno consapevolmente sporcarsi nella farina di ogni giorno. Ed è parola che sa generarsi da un desiderio di rappresentazione generosa di un sé personale e collettivo: Cerè gioca di pathos e nostalgia, quando – uomo di confine, di attraversamenti ripetuti all’infinito – dice con tenerezza a chi lo ac­compagna (la città è Zurigo, ma potrebbe essere un’altra delle molte mete cere­siane; lei (sei il tepore) è la sua compagna): […] Arrivare, significa destinarsi / per trovare la pace alla fine del viaggio. / Splendore di mattina assolata, / sei il tepore, dinanzi al focolare. Infine, last but not least, Rodolfo Cerè “è una persona buona”: condivido que­sta convinzione con Alberto Casiraghy, altro “panettiere” come l’appellava Vanni Scheiwiller a proposito dell’edizione del Pulcinoelefante realizzata in giornata, al pari del pane del fornaio. Nell’occasione di una memorabile conver­sazione, l’“Alberto” sentenziò: “Non so se del Rudy preferisco l’ultima lasagna o l’ultimo l’aforisma”. Com’è nella tradizione dell’osnaghese più famoso dopo sua eminenza Monsignor Ravasi, Alberto ha colto la verità di un uomo che non è diviso tra fornelli e pagina bianca, ma vive di entrambe le fonti con una pas­sione unente e pulita, come puliti dai commensali sono i piatti alla fine delle sue cene e come sono i suoi modi limpidi di poeta chef (o chef poeta, non saprei decidere la prevalenza).

 

Da Il giorno del panettiere (LietoColle, 2019)

L’impasto

Le regole precise d’amalgama
le lascio ai farmacisti e ai pasticceri.
L’impasto ha a che fare con l’anima.
Le ricette fatte dalla massa
forzano ingredienti in loco
mischiano il troppo, con poco.
Acqua farina e lievito, aprono stanze sul tavolo
nonostante l’aumento delle intolleranze,
danno costanza al lavoro del pane,
la danza del povero diavolo.

*

L’affanno riempie gli spazi
nella sera l’afa satura l’aria.
Scie di numeri e fame di voli,
sospirano le cose tra noi.

Non ammettere gli scalpi
appesi all’attaccapanni,
mentre le lampade sono,
la luce che cerchiamo.

Sfaldate le cartelle,
i rigurgiti del passato
portano ancora afrore,
dove spirano aliti ed anèliti.

*

Il rientro accade ancora,
a stridore di rotaie.
Programmi di svago obbligatorio
favoleggiano, verso l’onirico
sapore mattutino.
Il ritorno è eterno,
attraverso paesaggi e recinti,
il prosiéguo. Accorgersi,
guardando lo ieri dall’oggi
che contrasta in avvio.

*

Le paure sono approssimative,
difettano degli estremi.
I lineamenti affannano sugli spazi,
concessi alle solitudini.
Rumori della porcellana,
rivelano presenze attorno.
Tra i piatti da lavare nell’acquaio,
resti scrostano parole di ieri.
Un detersivo al limone profuma
questo rito, di grattare sul tondo.

*

Si è soli nella disfunzione dell’essere, nel distacco
dal significato della parola vivere, che include il morire
nei tramonti scorsi a ovest, nel sorgere nuovamente a nord.

Gli elenchi dei dolori, sono sepolti all’ufficio
delle reclamazioni scontate, imbrigliati dalle scartoffie
accettano la polvere come compagna fedele.

Non vorresti sentire le notizie, gli annunci
le voci di paese paiono allontanarsi,
nelle bocche colme, di cioccolata d’oltre confine.

 

Rodolfo Cerè nasce a Mendrisio nel 1979. Ha trascorso la maggior parte della sua esistenza in quel territorio tra laghi e monti che si estende da Como a Lugano. Chef di professione, coltiva l’espressività creativa nel quotidiano, attraverso la ricerca poetica del cibo e nel nutrimento delle parole. Vive, cucina e scrive a Zurigo. Ha pubblicato: L’alba delle nuove idee (LietoColle 2008); Debolezze (Pulcinoelefante 2010); Lo stato emotivo delle cose (LietoColle 2012); Crisma di Aforisma, nell’antologia Geografie Minime (Joker editore 2015). Dal 2017 collabora con il settimanale ticinese “Cooperazione”.

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