Recensione a cura di Claudia Mirrione

È stato recentemente pubblicato da Mimesis edizioni, collana Punti di vista, Il lascito lirico di Corrado Govoni. Dai crepuscoli del Po agli influssi emiliani, di Matteo Bianchi, filologo per formazione e giornalista culturale presso varie testate locali e nazionali.

È un libro certamente di lunga gestazione dato che il primo nucleo risale alla tesi di laurea in Filologia Moderna di Bianchi e, dopo un lungo periodo di revisione, ricerca e arricchimento, ha trovato la sua sede definitiva in un’importante collana di critica letteraria.

Il libro appare notevole per diversi motivi. In primo luogo si presenta come una riflessione aggiornata, dal punto di vista della storia degli studi, sulla posizione che Govoni ha avuto all’interno della storia della letteratura italiana, abbracciando vari movimenti, dal crepuscolarismo al futurismo, fino agli approdi maggiormente fuori dagli schemi degli -ismi del Novecento; una riflessione molto lucida che analizza nel dettaglio i picchi di originalità, il fauvismo poetico della sua vena crepuscolare – cosa che, ad esempio, lo differenzia da Gozzano – e la scelta del versoliberismo, ma anche i momenti più oscuri di Govoni come l’adesione, poi ritrattata, al fascismo.

In secondo luogo, il libro rappresenta anche una indagine sul rapporto, di pascoliana memoria, che Govoni intrattenne con il suo borgo natìo, Tamara, frazione di Copparo in provincia di Ferrara, e con la stessa Ferrara e la temperie culturale del suo tempo. Ma il libro va oltre, perché è anche una riflessione sull’immaginario collettivo suscitato da Ferrara, sia tra Otto-Novecento – una Ferrara in cui si percepisce tacitamente la presenza del Po maestoso, la “città dei silenzi” come la definì D’Annunzio, la città metafisica dai tetti rossi che ispirò la pittura del primo De Pisis e di De Chirico – sia in periodi più recenti fino ad oggi, attraverso gli sguardi dell’arte, della letteratura, del cinema e della poesia.

Infine – ma è a questo che viene dedicata la parte più corposa e di certo la più originale all’interno del panorama della critica letteraria italiana – il libro si propone di analizzare il lascito lirico di Govoni nella poesia contemporanea ferrarese. Un lascito particolare perché Govoni non fece effettivamente scuola, nel senso che rimase a Ferrara poco – si spostò infatti presto a Roma in cerca di migliori opportunità lavorative nel contesto politico fascista – sia perché non era poi adatto caratterialmente a condividere nel profondo il suo approccio lirico.

La scena contemporanea ferrarese, cui Bianchi dedica tre dei quattro capitoli del volume, comprende, tra molte altre sottoposte a scrupolosa analisi, figure di spicco come Roberto Pazzi, Rita Montanari Fabrizio Lombardo, Roberto Dall’Olio, Edoardo Penoncini. Come rileva  Bianchi, Roberto Pazzi, scrittore e poeta tra i più visionari di oggi, condivide con Govoni la predilezione per le cadute altisonanti che mischia con influenze provenienti da altre letterature. Soprattutto, la sua poesia, nota Bianchi, è pervasa da un senso di attesa che sembra richiamare a più riprese quella del tenente Drogo nel Deserto dei tartari di Buzzati:

«Aspettate gli ordini»
Forse quest’attesa è prevista da una mente
che da sempre ha pensato la città
con le sue bandiere di stanchezza,
con le sue porte aperte sul niente:
niente è più forte del mio sonno
se respira nelle parole di qualcuno,
dei miei sogni se vivono nelle decisioni di un altro,
di quel tanto della mia morte
che uno prevede nella sua veglia
mentre cammina e ride e scrive discorsi
e parla alla radio per annunciare
le nuove decisioni del governo.
Essere vissuti da chi non ha
la nostra immaginazione per vincere i nemici,
questa è la nostra partecipazione alla guerra,
il nostro posto, i nostri ordini erano questi.

Roberto Pazzi, Il re, le parole (1980)

Rita Montanari, invece, altra figura rilevante della scena poetica ferrarese, docente, storica e saggista, oltre che poeta, di Govoni sembra continuare l’intimismo dai tenui toni elegiaci: si interroga sul trascorrere del tempo e sulla partita che l’uomo ha con Dio e con il senso ultimo delle cose, aprendo la sua poesia a influssi cristiani, in particolare evangelici che sembrano rimandare a figure di primo piano della poesia di metà Novecento come quella di Cristina Campo:

Giochiamo, o Dio:
io ti do e tu mi prendi.
Di più. Giochiamo che
io ti do nel piatto
e tu mi togli.
La posta non è cosa.
È la tenuta della rosa
a Natale
colorato e ghiaccio.

Rita Montanari, Dal niente che ci resta (1995)

Sicuramente, l’erede più diretto della poesia di Govoni oggi appare Edoardo Penoncini. La sua poesia è intrisa di flânerie: il suo non è lo sguardo su Ferrara dello studioso, né quello del passante distratto o quello del turista, ma è lo sguardo di chi vuole abitarla e viverla, cioè possedere e trascorrere la propria quotidianità nei luoghi che frequenta. Con la poesia di Govoni, quella di Edoardo Penoncini sembra avere in comune molti elementi: sia il fatto di essersi spostato presto dal borgo natìo di provincia, pur rimanendovi fortemente attaccato, cosa che influisce sulla sua produzione poetica, sia la descrizione paesaggistica che si impreziosisce di riferimenti alle specie vegetali autoctone, che Govoni – come si sa – eredita da Pascoli, sia gli svariati e puntuali riferimenti testuali alla produzione govoniana, anche a quella futurista, certamente la più discussa:

LEGGENDO POESIE ELETTRICHE
a C. G.

Parole terremotate, passite
lungo i vicoli dell’ultimo secolo,
una sferzata improvvisa di suoni
e ritmi temperati dentro i fossi
di campagna, colori nei giardini,
parole del poeta nell’ascolto
di civettuoli campanili rosa.

Cammino: s’assomigliano le strade
le piazze e tutte le chiese di paese;
sono gli odori di muffa e granaglie
tra i campi di sterpaglia e di gramigna
fanno vivere i vecchi caseggiati
con i rintocchi di campane elettriche,
e l’ondulare lento di poesie
rincuora la notte di San Giovanni
mentre la luna perde la sua stella
oltre i campi tra Tàmara e Saletta.

Edoardo Penoncini, Vicus felix et nunc infelix. La luce dell’ultima casa (2015)

Certamente questi sono soltanto alcuni esempi di un accurato lavoro di ricostruzione del contesto poetico che, dalla città di Ferrara, si proietta senza dubbio nel più complesso scenario nazionale: se, infatti, Il lascito lirico di Corrado Govoni è di certo un sopralluogo dovizioso e aggiornato sul profilo di Govoni nell’ambito della storia della letteratura italiana, esso sembra essere soprattutto un’indagine doverosa sulla poesia contemporanea ferrarese, che se per certi versi si riconnette alla produzione govoniana (al suo crepuscolarismo, ai suoi toni elegiaci, ma con accenni al periodo futurista), poi si evolve, diventa altro e assume gli esiti più personali all’insegna di una varietas di influssi che contraddistingue questo milieu poetico contemporaneo e i suoi attori.

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