Laboratorio di Poesia, a cura di Alfonso Maria Petrosino, esce l’ultimo venerdì del mese su ‘Poesia del nostro tempo’. Vengono commentati i versi degli aspiranti poeti del Laboratorio online e scelta la poesia del mese.

Si è sempre molto tentati di usare in una poesia parole come “faro” o “farfalla”, forse perché indicano cose che sembrano avere una particolare affinità con quello che comunemente s’intende per poesia. In un certo senso adoperarle è quindi una mossa facile; il paradosso però è che più la mossa è facile e più difficile è eseguirla in modo da sublimarne la facilità. Nelle sue poesie Alessandra Cella utilizza come contrappeso all’estrema poeticità tematica il minimalismo del dettaglio anatomico (in un’altra poesia la curva del collo, in quella qui riportata mani nodose e spalle scarne) o la descrizione di un movimento (qui ad esempio il foulard che imita quasi la frusta del domatore di leoni).

IL MARE NEGLI OCCHI

Mi chiamavi Mirandula
che eravamo sul faro.
Piccola,
in punta di piedi
gettavo oltre l’azzurro
lo sguardo.
Le tue mani nodose
cingevano
le spalle mie
scarne.
Restavamo in silenzio
con il mare negli occhi
fino a quando era l’ora
di andare.
Ora torno
già donna,
un inciampo inatteso
il ricordo
a ogni passo.
Il foulard
fa una ruota,
ammansisce l’assenza
che brucia
le ossa.
E ti aspetto
nel vento,
con il mare negli occhi
fino a che
viene l’ora
di andare.

Le poesie di Pino Sgromo hanno spesso una contorsione interna: il discorso, di suo chiaro e diretto, subisce una contrazione di dolore, disappunto, rabbia; una contrazione che produce quasi una distorsione. La mente viene descritta più volte come non allineata alla realtà. I versi sono spasmi cupi provocati dal cupio dissolvi. Pullulano gli aggettivi negativi: in quest’agratiana ultima lettera di un suicida, i sette composti con il prefisso in- (irrimediabile, irredimibile, immobile, impietosa, inimmaginabili, immeritato, insensate) risuonano come sette peccati capitali.

COLPEVOLE DI SUICIDIO

Ognuno degli sbagli commessi
Ti è sempre sembrato
Irrimediabile, irredimibile.
Stavi là, immobile, senza scampo,
Aspettavi già l”impietosa
Scure abbattersi,
La voce degli altri,
Redarguire e sedurti
Con colpe inimmaginabili
Che tu sommavi, quasi con consolazione,
A quelle poche
Di uomo che riconoscevi.
Sentivi immeritato l’affetto,
Anche il bene dato
Era una pena
Perché lo sapevi
Fragile, precario,
E lo distruggevi
Infliggendo disperazione,
Relegandoti nell’offesa.
Ne avevi sentito parlare
Di indulgenze, pietà
Ma le temevi, come insensate speranze,
E non sapevi che fartene!
Perché per averle
Avresti dovuto perdonare il tuo vivere..
Tutto ad un tratto così diverso
Da quello atteso
Ché non riuscivi più nemmeno
ad immaginarlo.
Così in una resa compiacente
Ti sei appeso
Ad una pace cruenta.

Come poesia del mese scelgo Procida di Nunzio Di Sarno, una specie di cartolina multipla: per il contrasto tra l’anafora del toponimo e la folla dei personaggi anonimi evocati e per quello tra un discorso piano e descrittivo da una parte e il fraseggio franto e anacolutico dall’altra, come se fosse appunto l’incrocio di questi contrasti il modo migliore per presentare una – riadatto parole presenti nel testo – visione corrosa.

PROCIDA

Procida
Un monte t’annuncia
Lega la vista e allinea
Il groviglio di accenti
Figli della navigazione

L’antipasto tra le onde
Col pastello dei colori
Da lontano ammalia
E confonde chi appena
Scende si ritrova scisso
Merécòppa e mérevèscio

In un nugolo di dedali
Tra cui ti snodi nuda
A chi dà il tempo
Agli occhi
Di ascoltare

Senza i soldi per spiegare
Senza un posto dove stare
Solo ospite finché dura
Per guardarti da dentro

Procida ti ricordi
I diari segreti dei marinai
L’amore sigillato dal vento
Le rimesse a tener buono
Chi restava e s’adattava
I poeti e i filosofi sbarcati
Per svernare sotto il sole
Profumato dei limoni
Le mura diventate galera
E dentro e fuori le sbarre
I nervi delle schiene tesi
Dall’antica dignità indigena
Rinfrancata dall’ombra
Della sessualità promiscua
Chissà se è il ricordo
Dei sopravvissuti ad
Addolcire miserie
E ridipinger barbarie
D’eroismo e tenacia
Di sicuro sono quelli
Gli unici a ricostruire
E riscrivere la storia

Procida non piangere più
Per le tue veggenti morte
Sparite senza il cambio
E l’argento delle cornici
Piegato e arrugginito
Che nonostante l’olio
Al sole non brilla più
Tanto corrosa la visione

Procida dove sono
I tossici segnati nel volto
Ripuliti per la vita nuova
I libertari perduti e soli
Dismessa la patria galera
Gli artisti che scappano
Troppo a lungo soffocati
Dal peso delle tue tette
Dure di lava e ferro

Procida li vedi
I tuoi figli ancora in mare
Negli alberghi e ristoranti
A far quadrare i conti
E i nipoti arrapati marci
Dal moderno bisinìss
Del turismo della cultura
Incastrato e consumato
Tra gli scogli inalgati
Delle beghe di paese
Arginati si spera almeno
Dalla tua costituzione

Procida come se la passa
Chi torna per le vacanze
Chi per ritrovare pace
Affetti e dimensione
Forse una soluzione
Che affonda nella
Sabbia nera che
Non si stacca
Più

Note
Merécòppa: Parte superiore del paese.
Mérevèscio: Parte bassa del paese, più vicina alle tre Marine.

Alfonso Maria Petrosino ha pubblicato quattro libri di poesia, Autostrada del sole in un giorno di eclisse (OMP 2008), Parole incrociate (Tracce 2008), Ostello della gioventù bruciata (Miraggi 2015) e Nature morte e vanità (Vydia 2020). La sua poesia, che descrive luoghi e situazioni in relazione a un paesaggio urbano e all’umanità che lo abita, si avvale di una metrica precisa e raffinata. La redazione di Poesia del nostro tempo ha scelto Alfonso Maria Petrosino per impersonare la figura del maestro, capace di leggere attentamente e suggerire soluzioni, anche ai neofiti della poesia, proprio per la sua capacità sia di aderire al “canone”, alla tradizione, che di frequentare i nuovi palcoscenici della poesia, dagli happening e performances al poetry slam, essendo stato campione indiscusso di queste scene per molti anni.

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