«Taci, dunque, e non borbottare su Dio, perché se borbotti su di lui, dici menzogne e commetti peccato». Per Meister Eckhart l’attività spirituale è un esercizio di negazione: «È il nulla, né questo né quello. Se tu pensi ancora che è qualcosa, non è quello»[1]. Mi pare che si possa riassumere così la poetica messa in atto da Claudia Di Palma nel suo ultimo Atti di nascita (Minerva 2021). Ci troviamo di fronte a una certa difficoltà, direi culturale, nell’approcciarci a libri come questo. In effetti la maggior parte dei tentativi in poesia di reimmettere il piano spirituale rischia di suscitare immediatamente forti disappunti; fede empirica che non ammette arretratezze di questo genere. Eppure, lo abbiamo notato negli ultimi articoli di questa rubrica, la tentazione, il bisogno, la necessità sempre più impellente è quella di un’evasione da un mondo sempre più definito e insoddisfacente; nell’indagine su un’origine impossibile o nella creazione di un mondo-altro dobbiamo allora essere in grado di riconoscere una stessa matrice, soprattutto nel caso di Di Palma, dove la fede corrisponde tutt’al più a un metodo di straniamento, non a un prontuario di risposte. L’autrice lo chiarisce subito, in apertura del libro, per cui il lettore è subito invitato ad addentrarsi in Atti di nascita senza pregiudizi di sorta: «Porto alla luce i diecimila nomi dell’essere/ ma ogni nome ti nomina invano» (p. 17). Sarà necessario chiedere un ultimo commento al teologo tedesco: «Significa innanzitutto che Dio è inesprimibile, innominabile, al di sopra di ogni parola nella purezza del suo fondo; che nessuna parola o asserzione può contenerlo, perché è inesprimibile per tutte le creature, ed indicibile»[2].

Non-nominare Dio serve allora a stabilire le condizioni per un’impasse ideale, una poetica del non-comprendere e del non-trovare che può dialogare con le poetiche più diffuse. Anche perché il percorso tracciato da Di Palma non segue un’unica direttrice, quella della verticalità: l’area di azione è ancora più ampia e arriva a toccare le manifestazioni più concrete del reale. L’altro grande tema di Atti di nascita riguarda, infatti, i rifiuti e gli avanzi, prodotti di scarto legati indissolubilmente all’attività umana: «E la mia preghiera era guardare,/ provare a vestirmi sul nulla,/ provare a compormi, e poi/ raccogliere gli avanzi,/ decifrare il mio nome» (p. 20). In questa prima fase del libro la questione dello scarto è ancora inglobata nella quête religiosa, dunque del soggetto come emanazione, riflesso di un’origine preclusa. Lo dimostra la seconda sezione ‘La conta dei respiri’, che indaga il mistero della nascita; essa non è trattata esclusivamente nei termini cristologici del dono e del mistero, ma sottolinea la natura casuale e imprevista dell’atto di nascita: «Come veniamo al mondo/ rigettati dall’onda./ Come la doglia ci spinge/ fino a riva/ e prima il grido poi la gioia/ dell’approdo» (p. 33). L’esperienza del mondo avviene per atti automatici, anche la relazione amorosa è un gioco di incastri, uno scambio di forze che prepara il discorso finale del dissolvimento e della frammentazione; l’essere umano per Di Palma (qui ci verrebbe in soccorso Bataille) tende a sfinirsi nel tempo, a dissiparsi e a liberarsi del sovrappiù. Ciò può avvenire esclusivamente nella relazione con l’altro, terreno di prova in cui si rivela maggiormente la propria condizione di essere mancante: «Corpo a corpo facciamo il rituale/ e non ci conosciamo mai/ e non c’è niente da conoscere./ È il rituale dello straniamento, l’amore» (p. 37).

La lettura del volume ci porta così a considerare la sua prima metà come un rito di passaggio del soggetto, che viene prima compresso al grado minimo e poi frazionato: «Un corpo indaffarato, inadeguato./ Un pezzo come un altro,/ del tutto uguale agli altri,/ sul banco del mercato» (p. 52). Solo così l’io può riconsiderare le cose nella condivisione di una stessa condizione di precarietà, e solo giunti a questo punto può rientrare il tema (concretissimo) dello scarto materiale. Non si tratta solo di prendere in considerazione gli oggetti nella loro realtà plastica, ma di includere in questo ciclo di nascita ed espulsione il genere umano. ‘Atto di nascita’ è venire al mondo ed essere espulsi, con la morte, dal mondo stesso, e ciò è parte fondante del meccanismo; in un’ottica infinitamente più ridotta (ma, giunti a questo punto della storia umana, tristemente tangibile) gli oggetti vengono plasmati e introdotti in un ciclo economico che, basandosi sul ricambio costante e sull’obsolescenza degli stessi, intacca la realtà quotidiana e i suoi ritmi. Tutto può essere destinato alla logica del rifiuto: non solo i corpi di plastica ma anche quelli umani, e qui Di Palma sceglie di abbandonare il poetare allusivo e mistico, perché le storture del mondo vanno rivelate con estrema chiarezza: «Tutto è a galla, tutto è a fondo/ ogni migrante scampato alla guerra/ è morto, e vivo nel groviglio delle onde» (p. 50). Si tratta di un’umanità di scarto che, come il corpo plastico, non si dissipa mai del tutto: se lo fa, ciò avviene al costo di un impatto ambientale sproporzionato, capitale umano che si nasconde sotto il tappeto, che si è cercato per troppo tempo di rinchiudere in cantina (impatto ambientale che chiede con sempre più forza di essere considerato impatto morale, se mai esistesse).

Per questo l’ultima sezione ‘Altrove immondo’ (senza dubbio la più interessante) è un rovistare continuo tra resti e prodotti inutilizzabili, quindi estromessi dalla logica dell’utile. Allo stesso modo si concepisce la scrittura, merce senza valore: «Non saprò mai le gerarchie./ Che cosa è più, che cosa è meno./ Tra me e la plastica non c’è/ competizione, non c’è vittoria» (p. 60). Il suo altrove Claudia Di Palma lo ricerca allora nel «rituale/ quotidiano della monnezza» (p. 66) in cui si reifica il discorso della perdita: essa può riguardare i propri rifiuti materiali («Immagino che la somma di tutti/ gli ombrelli che ho perso/ faccia un gigantesco ombrello, che ho perso», p. 62), oppure quelli organici che richiamano al disfacimento del corpo («Qui tutto cade – e accade – nella carne,/ nella raccolta differenziata dei corpi./ Bidoni di sinapsi, unghie e capelli», p. 63), e perfino l’insondabilità di Dio si fa più certa nell’immondizia («Ed io con le mani nel sacco, scarto/ dopo scarto, sgrano il rosario/ e prego», p. 67). Atti di nascita istituisce un metodo della verticalità in grado di proiettare linee di tangenza tra l’altrove e l’immondo (sguardo orizzontale); ‘mercescenza’, quest’ultima, che ci interroga costantemente sul rapporto degli uomini col mondo e che (sembra dirci Di Palma) testimonia l’adesione incondizionata a una nuova orribile fede.


da Atti di nascita (Minerva 2021)

Aspiravo alla grazia:
un involucro superfluo,
il trucco sul volto di una donna,
il rossetto sbavato sulle labbra.
Così immaginavo Dio, così lo sognavo.
E la mia preghiera era guardare,
provare a vestirmi sul nulla,
provare a compormi, e poi
raccogliere gli avanzi,
decifrare il mio nome.

*

Come veniamo al mondo
rigettati dall’onda.
Come la doglia ci spinge
fino a riva
e prima il grido poi la gioia
dell’approdo

*

Un corpo indaffarato, inadeguato.
Un pezzo come un altro,
del tutto uguale agli altri,
sul banco del mercato.
Funziona bene – dice il venditore.
Serve come un orologio o un calendario
a ricevere il tempo. Serve
come qualsiasi altro prodotto
a mandare avanti l’economia.

*

La vita si celebra qui:
nel negozio dei residui,
nel residuo dei negozi.
Vado a fare la spesa.
Vado dal parrucchiere.
Vado al mare. E ripeto
sempre lo stesso giro
come una mosca.

*

Immergo le mani nel vuoto (primordiale).
Sul fondo le buste piene di grazia,
residui alimentari, fazzoletti
umidi. Il volto dell’uomo è qui raffigurato
a immagine e somiglianza del cielo.
Il buio: tanti piccoli roghi prima dell’alba.
Poi il grande inceneritore.

*

Ecco l’altrove. Ecco l’immondo.
Non è una stanza immacolata, ospedaliera.
Non è una tavola imbandita a festa,
il piatto caldo della domenica.
È la mensa per i poveri e i barboni,
un simulacro di pane a macerare sotto il sole,
una lattina, un pezzo di carta.
Quando le cose perdono la loro identità
vengono qui, nel bidone dell’indifferenziata.
Porgono l’altra guancia, quella opaca, dismessa,
e ci perdonano.
Per questo spreco, per tutta questa luce.
Per ogni mano che mendica l’inferno.
È qui, ai margini del cielo, sull’asfalto bollente,
l’altrove. È un sacchetto per la spazzatura,
dove le cose stanno vicine, strette
in un abbraccio, per non finire.  

 

 

[1] Meister Eckhart, Sermoni tedeschi, a cura di Marco Vannini, Milano, Adelphi 1985, pp. 54 e 245.
[2] Ivi, p. 223.

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