Il tempo che trova (I Quaderni del Bardo Edizioni di Stefano Donno 2021) di Pierluigi Lanfranchi comincia con la parola “Niente” e finisce con la visione di una sponda in dissolvenza. Non è necessario ricordare che il precedente libro di Lanfranchi s’intitolasse Acheronta movebo per individuare le coordinate di quella riva.
Oltre al poeta, io lirico esplicito o implicito punto di vista, il libro ha due grandi protagonisti. Il primo è il tempo che campeggia già nel dimezzato adagio del titolo e che nei testi ristagna, si ferma (premendo il tasto stop), prolunga tragitti e soste o inverte il proprio corso, si sfalda, disarticola e riduce in frammenti. L’altro è il poeta russo Iosif Brodskij, presente non solo nella filigrana di alcune similitudini, ma anche come personaggio vero e proprio degli unici brani in prosa, malinconico e autorevole come un Virgilio dantesco. Ecco un esempio:

Incontri onirici con Iosif Brodskij
II.
Brodskij mi parla dell’estetica barocca. Parla in russo. Non so il russo, ma lo capisco. Non le singole parole, però le frasi sì. Riesco a seguire il suo ragionamento. Parla veloce e si ferma solo per dare un tiro alla sigaretta che pur essendo quasi finita sembra non consumarsi mai. Un custode – siamo in un museo – ci passa davanti e io ho paura che faccia una scenata perché è vietato fumare. Invece non ci vede e passa oltre. Ci fermiamo davanti a una tela di dimensioni spropositate. La cornice coincide con i limiti della parete. Dando le spalle al quadro Brodskij sta dicendo che il barocco è disimmetria, mancanza di centro, dispersione, escrescenza abnorme, horror vacui, cupio dissolvi, memento mori. Ci siamo solo io e lui nella sala, ma le sue parole non sono rivolte a me bensì a un pubblico vasto e invisibile, come se stesse parlando per la tv. La sigaretta adesso è davvero finita. Brodskij dà un ultimo tiro socchiudendo gli occhi e poi getta il mozzicone a terra. I russi mi dico sono davvero dei barbari e una porta sbatte.

Per le filigrane adduco gli esempi del topo nella chiusa di Lasciando una casa

Ormai sicuro di essere da solo
il topo sfrega l’unghia sul parquet
rosica soddisfatto un filo elettrico.

imparentato con quello di Torso (trad. di Giovanni Buttafava)

Mille anni dopo abiterà qui un topo, ma,
l’unghia rotta sul granito, uscirà una sera,
squittendo, zampettando oltre la strada,
per non tornare a mezzanotte in tana.

e le esitazioni tra “arrivederci” e “addio” presenti sia in Verso il mare della dimenticanza (Lettera per A.D.) di Brodskij che nell’Elegia che apre la raccolta di Lanfranchi; ma molti altri esempi potrebbero essere indicati, più o meno evidenti.
Tre protagonisti e una folla di figure femminili (madame Guizard, Ursula, Psyche, Betta, Véronique S. e Feline S., la donna che passeggia per Roma in Vacanze romane…) salvifiche o sfuggenti, amiche, amanti, modelle, muse proprie o altrui; tutte eventuali candidate ai ruoli di Francesche, Pie e Beatrici. Hanno nomi sconosciuti o cangianti e cangianti persino le forme. Il sogno è uno dei territori in cui avvengono questi cambiamenti – la metamorfosi di Ursula o la notte d’amore di Psyche per esempio – e non è un caso, perché il sogno e il mito, per la loro dimensione atemporale, permettono di sottrarci per qualche istante alla ghigliottina delle lancette. Altri provvidi ancorché provvisori rimedi sono la spazializzazione e l’ecfrasi. Latitudini era il titolo del primo libro di poesie di Lanfranchi e conteneva testi ambientati a Siviglia, Amsterdam, Washington, Grecia; anche in questo è presente un’escursione geografica a grande scala: da Parigi a Vilnius, da Roma alla Provenza, da Venezia al Québec. Come se aumentando il fattore “spazio” il fattore “tempo” potesse essere diminuito e diluito e quindi attenuata la sua forza corrosiva (“Se si chiude / come sotto un coperchio / lo spazio, ci si illude // di fare altrettanto / con il tempo.”).

… Perché noi non siamo
semplice storia, giorni del lunario,
anniversari che dimentichiamo,
siamo i punti d’un lungo itinerario

che Urania unisce tra loro sul globo.
Siamo io e te geografie sentimentali
di posti visti con quattro occhi deboli,
con otto se si includono gli occhiali.

Un altro rimedio, più o meno illusorio, alla voracità del tempo è, dicevo, l’arte. E più ancora dell’autoreferenzialità della scrittura, in Lanfranchi ricorre la pittura. In Latitudini veniva descritto il caos dell’atelier di Bacon, qui l’infinita posa di un modello di Giacometti, una modella di Freud che “eternamente invecchia sulla tela” o l’esperienza maestosa ed extracorporea – anche in questo caso onirica – di Lorenzo Lotto.
Il tono è sempre in bilico tra una sensualità ironica e una composta disperazione.
La metrica regolare non è mai ostentata, non ha stravaganze neometriche e non suona mai giocosa o giocherellona: sembra che venga usata per quello che fa meglio, ovvero arginare l’ego e suscitare musica. Alle rime perfette vengono spesso preferite assonanze e consonanze, espediente che permette di ampliare il repertorio delle possibilità di rima, rendendole meno vincolanti e più discrete all’orecchio. I versi sono quasi esclusivamente endecasillabi e settenari; l’unica notevole eccezione sono i novenari pascoliani di Ritorno.
L’Io quando si affaccia a una superficie riflettente invece che moltiplicarsi si dissolve, come se lo specchio fosse un segno di sottrazione:


Così mentre la radio stamattina
ritrasmetteva il meteo di un posto
dove non vivi da più d’un decennio
e il tuo doppio assonnato, spazzolino
in bocca, barba incolta, l’aria sfatta,
a corto di argomenti per convincerti
che siete un’unica e sola persona,
si arrampicava ormai penosamente
sullo specchio, qualcosa s’è inceppato.
Una battuta saltata, un singulto.
Sì, l’hai sentito, ma non sai decidere
quanto è durato. Hai trattenuto il fiato.
E l’universo ha fatto leva: il senso
del tempo è stato invertito. Un istante
brevissimo, un secondo, meno, niente.
Poi per riflesso si è chiusa la palpebra,
una goccia cadendo nel lavabo
ha sollevato sette perle d’acqua,
ha suonato una tromba dalla radio,
hai tolto il tappo, il vortice è ripreso.

Le virtù principali dei versi di questo libro sono l’equilibrio tra l’andamento naturale da una parte e lo slancio lirico dall’altra, tra un discorso coerente e costante e la fioritura delle immagini, ingegnose ma mai bizzarre; la dolcezza con cui i modelli (oltre a Brodskij sicuramente Montale) sono ripresi, imitati ed estesi; il modo in cui alcuni versi suonino memorabili evitando formule o gerghi alla moda – altro tentativo questo, forse, di schivare un colpo sul fianco e parare un affondo del tempo.

Pierluigi Lanfranchi (Bergamo, 5 dicembre 1973), insegna lingua e letteratura greca all’università di Aix-Marseille. Ha pubblicato la plaquette Canicula (Battelo Stampatore 2007) e la raccolta Latitudini (OMP 2008). Sue traduzioni di poeti olandesi sono uscite su Testo a Fronte e l’Almanacco dello Specchio. Il tempo che trova (I Quaderni del Bardo Edizioni di Stefano Donno 2021) è il suo ultimo libro.

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