Dalla presentazione di Antonio Bux

In questo libro dal titolo Maritmie, seconda prova poetica dell’autore di origini nocesi Giovanni Laera (qui alla sua prima pubblicazione quasi esclusivamente in lingua, dopo l’esordio dialettale con Fiore che ssembe del 2019), la forza lirica che sprigiona dai versi va a comporre un autentico canzoniere esistenziale che fa del paesaggio (tanto interiore quanto esteriore) una sorta di linguaggio sotterraneo che si riallaccia non solo al paesaggio stesso, e dunque all’origine esperienziale dell’autore, ma soprattutto alla vita intesa come materia ed essenza. E se la mescolanza tra lingua italiana e dialetto rafforza questo legame tanto da creare veri e propri “intralci” semantici, il risultato, in generale, di quest’opera, è l’espressione di una dimensione forgiata dal poeta che, tramite un uso delicato ma allo stesso tempo rigoroso della parola, attua un corpo a corpo con la musicalità del senso per fornire al lettore un panorama inedito, per certi versi, rispetto all’attuale scena della poesia contemporanea, proprio per l’invenzione di questa lingua che, innanzitutto, non disdegna la rima, sia interna che puramente baciata, ma soprattutto gioca tra vari “prestiti” tra le due forme espressive, plasmandole vicendevolmente fino a formare assonanze, echi, reduplicazioni che ben stanno a dimostrare l’influenza che certi poeti novecenteschi (si potrebbe pensare, con le dovute diversificazioni, ad autori come Campana, Saba, Penna, Caproni, ma anche allo stesso corregionale Bodini) hanno avuto sulla formazione poetica dell’autore. Poetica che qui è asservita, come si evince dal titolo, al movimento ondulatorio del mare, al suo essere onda ma anche suono di vita, ispirazione e struggimento, moto a raggiera di profondità nascoste e pure silenzio, così come possibilità di distanza e mistero. E sono queste sensazioni che si incontrano e si avvicendano felicemente tra le poesie che compongono questa struggente e sincopata silloge.

Da Maritmie (Marco Saya Edizioni 2023)

Spiaggia di tartarughe senza testa
il tuo arco azzurro-morte, se si deve –
intanto il cielo beve sangue, solca
sull’acqua griglie rosa e rughe: aspetta.

Essere assorti in alti mari, dire:
noi – errare verbi e sogni all’infinito.
In quelle spiagge persi polsi e dita
e forse anch’io ti amai. – È il sole: sei.

*

Per dare un nome al soldatino azzurro
che danza mentre il cuore balza a pezzi
avresti i sostantivi della plastica
brulli nel giallo estivo e i cani
cromati in un’infanzia senza fine.

Quando tu mi dicesti: Giovanni –
io non pensai che al nulla
che oscilla tra le labbra in pochi suoni
composti dal tuo fiato celestiale.

Stavo mirando a un cielo di cartone –
sorridimi se vuoi salvarmi.

*

Questa che ricompare in noi dopo anni
di mare contro il molo di San Vito
è l’ala ultramarina del dolore.

Il volo delle pòddole risale
tra i capelli bruciati nella sera:
spegni il treno che spera, avvampa un fiore.

Come morire sarebbe perfetto.
Ma è l’ala ultramarina del dolore.

*

Ti aspetto, gloria luminosa, sono
qui. Preparami un lampo di bellezza
parlami sottolingua, palpebra alta
sulla mia artificiale lacrima, ultima
o prima o prossima o perdutamente
inapparita o inesistente, tra le ossa
soffiami che ti aspetto, che io ricordi
qualcosa oltre me stesso perché il cielo
che trasvoli tremando di paura
e gelo è tutto mio. Ti aspetto, portami
solo lo scintillio che tu hai serbato
nelle pupille comeazzurre a un altro
mi illuderò di un temporale in cui non sono.

*

MUTISMO
Stai muto, mi dicevano i miei fiori
fioriti e neri, i topi in corpo, i funghi
mezzo infradiciati dai fragni all’erba.
Macchine rosse dentro raggi d’acciaio
che andavano e venivano da addosso
mi ungevano piedi e petto, dicevano:
stai muto, tu, silenzio, tu e i difetti
di tua madre, di tuo padre, tu e i tuoi morti
azzurri sul comò, e adesso scordati:
il tubo non è nostro, e l’acqua parla
come il mattino quando i fiori neri
facevano i colori: zitti, zitti.

MUTEGNE
Mutegne me descèrene sti fiure
fiurite e nere, i surge nguérpe, i funge
mminze abbagnete d’e’ fragne inde all’erve.
Màchene rosse ind’e’ rosce d’azzere
ca scèvene e venèvene da nguédde
me jungèvene pite e pitte, descèvene:
mutegne, tu, mutegne, tu e i defitte
de màmete, d’attànete, tu e i muérte
azzurre suse u comò, e mu scerrete:
u tubbe nan é u nuéste, e l’acque parle
com’a matine aqquanne i fiure nere
fascèrene i chelure: citte, citte.

 

Giovanni Laera (12 novembre 1980) è un poeta originario di Noci. Dottore di ricerca in Linguistica italiana presso l’Università degli Studi di Torino, è autore di diversi libri e articoli su lessico, onomastica e folklore nei dialetti apulo-baresi. È caporedattore di «Avamposto – rivista di poesia» e collabora con «incroci – semestrale di letteratura e altre scritture». Nel 2019 ha pubblicato con Pietre Vive Fiore che ssembe, la sua prima opera poetica (segnalazione di merito al Premio Bologna in Lettere 2020). Nel 2020 è tra i vincitori del Premio letterario nazionale “Giuseppe Malattia della Vallata”. Nel 2022 figura tra i poeti delle antologie I cieli della preistoria (Marco Saya Edizioni) e Sotto traccia. Per un umanesimo della terra (Edizioni Latitudine 41). Suoi inediti sono apparsi su riviste, blog e quotidiani.

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