Immagine di Luca Pizzolitto

Nota di lettura di Pietro Romano

Il canto come focolare di misericordia e luogo di intima preghiera: la coscienza della finitudine, di qualcosa di prezioso perché fatto di tempo, recupera all’incanto, desta inaspettati bagliori. La poesia di Francesca Serragnoli si staglia in una zona senza tempo, che fa dell’invisibile non un’astrazione, ma tangibile raffigurazione. Non è mai notte non è mai giorno (Interno Poesia, 2023, prefazione di Isabella Bignozzi) restituisce al lettore i riverberi di un mondo interiore in cui è possibile scorgere la dolcissima grazia delle cose minute, prossime al sacro. E nondimeno, proprio l’accadere, in cui si inscrive l’imminenza e, con essa, la non-permanenza, induce a una pietà profondissima, mista al desiderio di dare presenza e forma all’eco del limite oltre sé stesso.
Isabella Bignozzi scrive, nella prefazione, a tal proposito: In quest’ultima silloge “Non è mai notte non è mai giorno”, il portamento che pervade l’opera è, ancora una volta, l’innocenza intera di chi si affida: deliberata innocuità e ostinata duttilità all’accadere convergono in cifra assoluta: lo sguardo della petite Châtelaine di Camille Claudel. Tenue e risoluto messaggio creaturale, postura sublime di schilleriana memoria, che si restituisce in intatto incanto di parola. Ne consegue, ineluttabile, una precisione timbrica e icastica che s’affila in trasparenza, perché pervasa d’intima misericordia: in quel punto di strappo tra la perdita di una pienezza aurorale – l’essere amati per pura esistenza – e un asimmetrico, saldo persistere in amore. Angolare pazienza della privazione, esile timidezza dell’esserci, e un senso di umiltà profondo e toccante, che diviene perla silenziosa del togliere, rammarico disarmato in una dolcezza senza margine. Dove l’ala prende dimora sul dorso della creatura che non s’arrende al male, quello è il luogo in cui la poesia di Serragnoli sente sé stessa: nei rari nidi di verità del mondo sensibile, attimi trapuntati al sopramondo: nell’istante in cui il quotidiano con la sua zavorra di materia muta leva a vertigine nell’aria, s’apre in volo in immagine che rapisce per caducità ed effimera assolutezza.
Echeggiano nell’opera risonanze dell’oltrelimite, che dispiegano piccoli e grandi eventi verso il loro punto di svolta. Interessante è, in epigrafe, il rimando a Peguy, che suggerisce un senso di umile creaturalità:

A colei che è con noi,
perché il Signore è con lei
C. Peguy

L’opera si apre in modo significativo con un componimento dedicato a Cristina Campo:

All’amore che hai fatto rinascere
negli atri senza bifore
di pianerottoli
dove serrate porte marroni
aprono lentamente le braccia
infilano nei letti
gambe di gigli di santi

All’amore,
sapiente vilipendio al nulla
sarto suono
della penna che cade in terra

erotico atlante di gialle gondole
che percorrono canali color vinaccia

l’amore dei passi morti giovani
della pendolare giostra d’incensi
del darsi la mano

A chi importa? Dicevi
incrinando l’asse terrestre nella voce.

Serragnoli si affida alla metafisica della propria interiorità: le cose del mondo le appaiono per quelle che sono, figlie della stessa sorgente, figure d’amore annesse a un’umilissima grazia. Esse sono convocate intorno a una salda volontà di conoscenza e di stupore, sorrette da uno sguardo gentile che «percepisce tutto aumentato in potenza»:

Lasciami entrare nel fondale
dal collo d’incenso

se ti muovi
si sfalda come una scala

lasciami scendere
dalla rupe d’argento
di una teiera

il gesto di versare la sera
una miniera d’acqua.

Girati ancora
lasciami la tazza

e se brucia e se ghiaccia
fa’ o Signore che la mia mano
si sciolga in cera
si apra come una cerniera,

mentre soffio via
la cenere
dai tuoi capelli

e gli occhi come falene
risalgono le loro schiene,
tu poni l’astro in terra
come un pezzo di giornale
o una rondine strappata
con le ali come coriandoli.

Tutto è annesso a un sapere creaturale, che esorta all’intima comunione tra il Sé e le cose:

Il tuo sorriso
stringe una spugna
di mare caldo sul ventre

non sai quando apri e chiudi

cosa sia

cadere in quell’acqua
che ti cade dalle mani.

L’atto poetico dunque origina da un’intimità di sé con l’esperienza del mondo e dell’altro:

Il tuo sorriso è una fiamma sigillata nell’ambra
pendente caro cadere
del fiume nel bicchiere
schizzo di tè fra i capelli

quando ridi si girano i bambini
un venticello muove i ricami
delle loro mani

quando ridi tocco col dito il fuoco
per sentire la tua mano
riprendere la mia
per sentire soffiare via il dolore

e quando tra le mie braccia
il lago abbandona l’acqua
dormo nei tuoi occhi verdi

come una vecchia radice sdraiata
ricorda sbocciare i fiori
guarda il cielo azzurro
coprire le gambe all’aria
con il lenzuolo di lino di Cristo.

Nello spazio dell’interiorità ospiti sono figurazioni del tempo, che medicano il dolore e danno luogo al presente come orizzonte di apertura all’ascolto e all’essenza stessa del vivente:

Non sono abituata a dare le spalle al cielo
a guardare il rossore
intrattenersi
sulle tue labbra viola

ti scuoto per vedere gli occhi
fermare una mora in gola

quando ti trema addosso la sera
che luce che buio lentissimo
non tocca terra non tocca cielo

vertebrale congiunzione musicale
di candele che fissano la lepre

l’amore, sentinella di ogni addio
di ogni smorfia d’ombra di ciglia
catino di chiarore di madre

l’amore, ultimo gradino di Bach
levante le braccia al cielo.

La vita è ascensione perenne. Essa unisce e separa la terra dal cielo e, in tale distanza, un altro tempo si apre, nel quale l’amore, «sentinella di ogni addio», armonizza i vuoti d’ombra e lega a minutissime vibrazioni dello spazio riverberi improvvisi. Il canto di Serragnoli è liturgico, originato da acque che si annunciano per evocare l’impercettibile e l’ignoto e dimostrarne l’intima connessione alla vita, anche quando questa è sul punto di incrinarsi:

Apro gli occhi
l’acqua cola
dalle scale di un condominio
con lo stupore dei disastri
esco a prendere terra
riempio la bocca d’impasto vivo

dalle tue labbra
una bava d’edera
poggia in terra
la nera scia del mare.

Nelle stanze di Serragnoli «non è mai giorno non è mai notte», perché è sempre attesa e devozione altrove:

Camera 4

Le mani

Dentro una grotta in un angusto canyon presso Tassajara
sulla volta rupestre si vedono impronte di mani.
Molte mani in penombra, un nugolo di palmi, tutto qui,
nessun’altra pittura […]
queste accurate impronte sono come un messaggio cifrato:
“Guardate! Eravamo uomini anche noi […]”
C. Milosz

Molte mani si sono appoggiate su ogni cosa. Alzate da chi non poteva parlare, si sono aperte con le cinque dita distanti, come una balbuzie, una benedizione, una foglia. Quei lembi hanno stretto sponde di letti, maniglie, tubi. A volte sono laghetti blu. Mani, infanzia del nome. Agricoltura dell’infanzia. Lavoro in coda ad altro lavoro. Cosa hanno fatto le tue mani? Quando il medico mi toccò il piede, da lassù, dalla boccia bianca cadde nel sangue un’ochetta gialla, un gioco di Dio.

Nel loro spalancarsi, queste stanze costituiscono una regione immensa di esplorazione, dalla quale osservare la malinconia del declino con occhio vocato alla smisuratezza e al segreto della vita. I riferimenti cristici, che permeano l’opera, ma anche quelli all’acqua – un’acqua battesimale, dove immergere le parole- danno il senso di una liturgia che si compie tra l’interiorità e lo sconfinato, tra la terra e il cielo.

 

 

Francesca Serragnoli (Bologna, 1972) è laureata in Lettere Moderne e in Scienze Religiose. Ha pubblicato le raccolte Il fianco dove appoggiare un figlio (NCE, 2003; Raffaelli, 2012), Il rubino del martedì (Raffaelli, 2010), Aprile di là (LietoColle-Pordenonelegge, 2016), La quasi notte (MC, 2020). È stata tradotta in varie lingue, suoi testi sono apparsi in antologie estere e in volume in Argentina, Spagna e in Romania.

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