Dalla prefazione di Fabio Franzin

Abbiamo compreso che l’urlo silenzioso di Greta Thunberg è un ultimatum accorato e disperato per arginare i cambiamenti climatici e ciò che comportano per il pianeta che ci ospita e per l’umanità; abbiamo vissuto, nel nostro organismo, nella sorte di alcuni cari o conoscenti, che un virus infinitesimale e invisibile può essere più micidiale di un’atomica, capace di scatenare una pandemia, bloccare il mondo intero, intere economie e la quasi totale gestualità dei nostri affetti, compresa persino la carezza dell’addio. E abbiamo voluto credere che tale prova, la tangibile crudezza resa plastica roulette del nostro essere misere barchette di carta in balìa degli eventi, ci avrebbe resi migliori, finalmente meno edonistici e più empatici, pronti ad aiutare il prossimo; e invece ci siamo chiusi ancora di più in noi stessi, barattando la fisicità, il calore della compagnia, nell’algida (in)sicurezza dei rapporti virtuali ove sfogare tutte le nostre ansie, il nostro insulso disprezzo e il nostro malsano rancore, o nell’onanismo delle serie tv Sky o Netflix («Adesso passiamo i giorni / davanti a uno schermo»), dove la spettacolarizzazione delle più turpi e aberranti pratiche sociopatiche sembrano ancora più nefaste e negative dei videogames cult con cui lasciamo “sfogare” i nostri figli; e invece abbiamo visto di nuovo, dopo un trentennio di pace, missili colpire scuole e ospedali, nel nostro continente, radere al suolo un terzo del territorio ucraino in nome di “esercitazioni militari speciali” da parte dei russi (come fu per le popolazioni nel conflitto dei Balcani, russi e ucraini si sono sempre sentiti fratelli, sono quasi tutti imparentati fra di loro!), abbiamo assistito, sgomenti e increduli, agli orrori di Bucha, alle fosse comuni, i corpi abbandonati per strada dopo il passaggio dei carri armati («e senza che nessuno / lo sapesse / ero stato colpito anch’io» recita a un certo punto il poeta nostro), a come la brutalità umana e la violenza cieca possano rigurgitare da se stesse nello stress di un conflitto, così come è stato in tutti i conflitti della storia. Allora, se il famoso e apocalittico assunto di Walter Benjamin, che «dopo Auschwitz, scrivere poesia è un atto di barbarie» si fosse rivelato vero, anche dopo Bucha scrivere poesia sarebbe come bestemmiare credendo di pregare. Invece Viti prega, come ha sempre fatto con la sua poesia, con le sue parole, prega anche per noi che non troviamo più in noi la fede per farlo, recita il salmo di una fiducia nell’altro e nell’amore, sia platonico che corporale, e così rincolla, come tessere di un puzzle, i brandelli di questa realtà violata. Con tenerezza e, al contempo, con fermezza. Non c’è bestemmia nel suo atto, ma solo la volontà di aprire con grazia i lembi dei panni che avvolgevano l’icona nascosta per proteggerla dalla violenza e dall’incuria, riesporre i suoi ori alla luce affinché splendano di nuovo.

 

da Dentro al petto mi si muove un canto (Arcipelago itaca 2022)

dalla sezione (QUESTIONARIO DI GRADIMENTO):

Ti piace questa poesia?
Prendila, usala come vuoi, lei è quello
che decidi che sia.
Ascoltala, zittiscila oppure lasciala
continuare, che sia la tua voce
quando non avrai più voce.
Sì, abbocca alle parole, falle tue,
una civetta
che sa sempre a quale luna cantare.
Prendila, questa poesia,
gettala alle ortiche, dalla in pasto
ai cani oppure tienila in un cassetto,
lasciala riposare.
Saprà lievitare
come le confidenze del vicino.
Come un autunno che arriva,
ma in tasca
ti lascia il garbo di un nodo.

*

dalla sezione (CHIAMAMI AMORE MA NON PROPRIO TUTTI I GIORNI):

Stamattina, mano nella mano,
in mezzo al granturco vorrei portarti,
per restare soli tra le piante…
Sì, lontano da tutto, credimi,
da quegli occhi che quando
giudicano diventano pietre,
da quelle dicerie strette
come abiti su misura.

Tu mi chiederesti
perché arrivare fin lì,
quando a casa i cuori possono sconfinare.
Io ti risponderei che già da piccolo
sognavo qualcuno da portare tra le spighe
per strofinarci piano,
bisbigliando a un orecchio
che in quei momenti
gli alberi tremano,
che dentro al petto mi si muove un canto.

*

Cosa non ci fa dormire,
cosa ci assilla stanotte.
Non le risate dei monelli
con gli sguardi a infrarossi sui social.
Non i camion sulla statale,
il rantolo delle ruote nel piombo di un asfalto.
Non la frenesia di un latinoamericano,
che da lontano sfrega le paillettes di una gonna,
avviluppa bacini avambracci nel barocco
di un’estate. Niente di tutto questo.
Sarà forse un buio da cui non si sa uscire.
Il fondaco di tutti i pensieri.
Quel sottovuoto che elica il fiato
e lascia bottoni al posto degli ombelichi.
Un chiodo fisso che perfora.

Allora, proprio in quell’attimo,
io e te ci allacciamo in un abbraccio
che sconvolge la materia
le leggi della fisica gli atomi con tutte le particelle
e al risveglio il mondo sembra più buono:
nessuno odia più nessuno,
l’amore è prodigio elementare.

*

dalla sezione (VARIE ED EVENTUALI):

Se penso agli anni in cui
sono stato cavia di me,
a quanti ultimi treni ho perso,
al risiko di una vita
mai stata in pareggio…

Ecco, se penso a tutto questo,
apparecchio la tavola
e mi siedo.
Poi, verso un bicchiere di vino,
e sì, lo ammetto, avrei dovuto passare
più tempo a scrivere
o a bere vino
o a guardare lucciole in riva al lago.
Poi, pensandoci ancora,
mi dico che pure gli altri
a volte, avranno pensato,
che, alla mia compagnia,
avrebbero preferito
scrivere leggere Nietzsche o bere vino.
Allora, insisto,
sarebbe meglio proprio non pensarci,
non perdere altro tempo
sul tempo già perso,
e piuttosto osservare i cerchi
che il bicchiere ha lasciato sulla tovaglia,
giotteschi, perfetti
proprio come certi giorni
vissuti senza scuse,

a viso aperto.

*

Da bambino, telecomando in mano,
inciampavo spesso nella tv croata.
Sbirciavo i video dei cantanti
dalle improbabili pettinature,
i sorrisi a ghigno
di annunciatrici con l’aria marziale
oppure finivo per perdermi
nei fermoimmagine di un intervallo,
tra i lapislazzuli dell’Adriatico.

Poi, all’improvviso, negli anni Novanta,
ecco la guerra.
Le annunciatrici
purgarono ogni sorriso,
i palinsesti
si affollarono di reportage:
immagini di cannoni, mitra, fosse comuni…

Allora, smisi di guardare Hrvatska Televizija.
Dalla cristalleria
o da dietro la gerbera,
un mirino aveva centrato la mia tempia
e senza che nessuno
lo sapesse,
ero stato colpito anch’io.

 

Piergiorgio Viti è professore di lettere e scrive da sempre. Come poeta, ha già al suo attivo diverse pubblicazioni ed è uno dei poeti italiani maggiormente tradotti all’estero. È presente nei principali siti di poesia, italiani ed esteri, e in numerose antologie. Ha anche scritto per il teatro: La fiabola di Virginio e Virgilio, con Tosca protagonista, e I sogni di Ray, con Carlo Di Maio. È andato in scena a teatro come autore e voce recitante per La voce dell’uomo, un tributo al cantautore Sergio Endrigo. Come traduttore, ha tradotto I Preludi di Alphonse de Lamartine, con lettura di Ugo Pagliai e Paola Gassmann per il festival “Armonie della Sera”. Collabora con artisti di tutto il mondo, come Ilario Fioravanti, Cécile A. Holdban, John Hewitt, Rita Vitali Rosati, per progetti di commistione tra parola e immagine. Come divulgatore culturale, ha ideato “Versus”, un festival di incontri poetici, e tiene seminari e incontri sulla lettura e sulla scrittura.

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