Alberto Marchetti è un musicista, giornalista musicale, fotografo, poeta e cultore della natura che ha recentemente pubblicato un concept album, La musica dell’onda, contenente numerosi elementi di interesse poetico, tra cui traduzioni e adattamenti musicali di testi ispirati al mare di anonimi rinascimentali e poeti greci contemporanei. Lo abbiamo intervistato per approfondire la dimensione di trapasso tra il testo poetico e il fattore musicale che ultimamente sta tornando tema emergente.

Alberto, il tuo ultimo album, La musica dell’onda, non è un semplice CD musicale: è un viaggio letterario, filosofico e dell’anima, che inizia con una citazione dalla Critica della Ragion Pura di Immanuel Kant la quale recita così: “questa terra è un’isola, chiusa dalla stessa natura entro confini immutabili. È la terra della verità, circondata da un vasto oceano tempestoso, impero proprio dell’apparenza…”. La vita, sembri dire attraverso questa citazione, è una grande avventura da cui non si può fuggire. Cosa ha ispirato il senso di questo lavoro insieme poetico e musicale?

È il grande tema della vita, la limitatezza oggettiva di quello che riusciamo a comprendere e l’enormità di ciò che resterà per sempre a un passo dalla rivelazione, e da lì all’infinito. Siamo un lume, al confine l’ignoto, l’immensità, la verità. Tutto, nell’esistenza umana, è poi frutto di quanta e quale spinta ci porta oltre quel labile confine, spesso timorosi non troppo distanti dal chiarore, altre volte più audaci così lontano da rischiare di perdersi. Ma per un passo almeno, tutti cercano di superare quella linea. La dimensione kantiana del noumeno la vediamo riprodotta in tono minore su questo pianeta, nel rapporto che ci lega indissolubilmente al mare. La maggior parte della popolazione mondiale vive in riva al mare, ma non sul mare, e il mare è l’ultima frontiera ancora aperta, l’ultimo luogo in gran parte sconosciuto, le profondità marine oltre l’eufotico ci sono ancora estranee. Nel tempo, quasi senza volerlo, mi sono ritrovato con moltissime scritture che giravano, per ambientazione esplicita o per metafora, intorno al concetto del mare: il viaggio di scoperta e la traversata, l’ignoto che fa paura e quello che dà speranza, i mutamenti minimi che portano tempesta e gli uragani che cancellano, la ricerca o l’annullamento di se stessi. Come scrivo nel libretto chi vive sul mare accoglie con comprensione perché, in quel vagare incerto, è stato egli stesso, in qualche altrove, un arrivo improvviso.

Il valore poetico delle canzoni dell’album è innegabile. Entrando nel dettaglio della vexata quaestio che riguarda il nesso tra poesia e musica, come nasce questa tua commistione di interesse musicale e poetico? Che cosa ispira la tua scrittura?

Ho sempre scritto con piacere estremo, e ho sempre amato, è evidente leggendo le mie cose, le forme poetiche ingabbiate che, paradossalmente, mi consentono una grandissima libertà. Intanto sono legatissimo agli improvvisatori in ottava rima che, quando ero ragazzo, ancora attraversavano i miei territori tra i monti a est della capitale. Purtroppo nel tempo sono scomparsi tutti e sfortunatamente si è persa l’abitudine del poetare in piazza. Per incontrarne bisogna arrivare nel reatino, ad Amatrice e dintorni, e ne vale sempre la pena. Le forme poetiche antiche erano già musica, mantengono nel nome una richiesta d’accompagnamento: ballata, canzone, sonetto. Ecco, d’abitudine scrivo testi che devono essere capaci di vivere anche senza musica, quindi padroni di senso, in caso contrario non procedo alla melodia per insoddisfazione letteraria. E adoro le storie, i racconti, le trame anche se solo accennate. Mi lascio portare dalla fantasia oppure da vicende del mondo reale da trasognare in versi, basta uno stimolo, una sensazione, un’intuizione. Ho anche scritto canzoni partendo dalla musica, che non mi sembrano inferiori come risultato finale, con la differenza che il verso risulta, per logica conseguenza, meno ingabbiato, più libero e sciolto. Ma non è il caso di questo album, qui tutto è passato dal verso alla nota e non viceversa.

All’interno di questo lavoro compi un’operazione patentemente letteraria, a cominciare dalla riduzione in settenari doppi del Racconto dell’isola sconosciuta di Saramago, proseguendo con l’elaborazione di un testo ispirato dal Romance del infante Arnaldos di un anonimo spagnolo del XIV secolo per arrivare alle traduzioni di tuo pugno di alcuni testi poetici di due grandi poeti greci contemporanei: Marabù di N. Kavvadias, ridotto in musica, e Nostalgia di Kostas Uranis. Come hai selezionato questi testi?

La conosci certamente anche tu quella fame del pensiero che ti porta a scorribande irrequiete dentro l’arcipelago dai mille profumi della letteratura. Sono attrazioni improvvise a volte, come per quel racconto meraviglioso di Saramago che rappresenta in forma di favola questa voglia incontrollabile di affrontare i marosi con la consapevolezza che l’isola da raggiungere ce la portiamo già dietro, siamo noi. Il finale è un coupe de theatre formidabile. Sui romance spagnoli invece sto lavorando da tempo, sono poemi carichi di mistero e pathos, carnalità e misticismo, morte e magia, tanto che altri ne appariranno, se sarà, sugli album futuri. Il Romance del infante Arnaldos ha un tema fantastico davvero sorprendente, il cavaliere viene rapito da uno sguardo sul mare che gli restituisce il sogno che la realtà della guerra aveva cancellato. La nave che arriva è guidata dal canto del timoniere e non dal timone, e in un attimo il guerriero, rapito dall’atto creativo, dimentico di tutto, si trasforma navigatore. E’ metafora di morte o di cambiamento, di trasformazione o di estinzione, lascia spazio all’immaginazione. Kavvadias è un vero marinaio per la vita, sui trasporti passa l’esistenza e dal mare e dai viaggiatori tra le onde trae le profonde e spesso amare metafore di vita dei suoi poemi, nella descrizione dei gatti di bordo, di un naufragio e di un capitano che non si dà pace, nell’amore che esalta e in quello che annienta. Era un uomo così indissolubilmente legato al mare che non appena decise di sbarcare definitivamente per prendere moglie e stabilirsi sulla terra ferma non sopravvisse un solo mese. In Uranis mi sono imbattuto navigando intorno al grande Kavafis e alla sua Itaca. Ho scoperto per esempio che ha scritto una poesia, Le passanti, tanto simile a quella di un poeta sfortunato, Antoine Pol che ispirò Brassens. Leggenda vuole che Brassens, durante la seconda guerra mondiale, trovasse questo opuscoletto in una bancarella di Parigi, ne rimaneggiasse insoddisfatto i versi più volte finché nel 1969 il musicista Bertola glieli fissò sulla melodia giusta. Da lì a De André il passo fu breve. Ma prima di tutti, fu Uranis a ispirare Pol o fu Pol a ispirare Uranis? I tempi di composizione sono davvero vicini, tra 1919 e 1920. E’ una curiosità, te la propongo:

Le Passanti

Donne che vidi sopra un treno appena
partito per un luogo assai lontano,
donne che vidi, mano nella mano,
d’un altro, andare allegre e senza pena;

donne ai balconi che contemplavate
il vuoto con lo sguardo spento, tetro,
o dal ponte di navi ormai salpate
col fazzoletto guardavate indietro;

se sapeste con quanta nostalgia
le sere, che la pioggia porta via,
nel freddo, vi riporto alla mia mente,

voi che passaste dentro la mia vita
per un momento, e avete ora rapita
l’anima mia in un altro continente.

(Costas Uranis)

Non manca nemmeno l’interesse per la poesia dialettale: hai infatti musicato S’idda tuccassi a mia su un testo del poeta siciliano Alessio Patti. Quali sono i tuoi poeti contemporanei preferiti?

Alessio Patti è un poeta siciliano dall’animo nobile e dalla penna sensibile, ha composto liriche che mi rimandano alla corte di Federico II, da una parte ha una carica sensuale straordinaria e dall’altra una spiritualità vertiginosa. I dialetti poi hanno questa capacità descrittiva e di sintesi assoluta che spesso manca all’italiano. Tradotta anche nel migliore dei modi questa poesia non restituiva lo stesso struggimento che offriva in vernacolo, perdeva incisività e potenza di erotismo estatico.
Seguo le evoluzioni della poesia, mi piace questo proliferare di Poetry Slam, c’è un gruppo molto attivo a Roma e sto pensando di partecipare. Tanti i poeti contemporanei che leggo con piacere, da Dario Bellezza a Pagnanelli, da Paris a Caproni a Penna, dai Poeti della Lontananza a quelli del Trullo. E’ un altro universo in continua espansione, anche i poeti cercano nuove strade, intense le serate di poesia orale organizzate da Domenico Ferraro della Squilibri Editore con Lello Voce e Gabriele Frasca, con la poesia che incontra la musica senza generare canzoni ma crasi e contrasti.

Tu sei anche giornalista e critico musicale. In quale panorama ti orienti e come vedi la situazione della musica d’autore italiana in questo momento?

Non mi oriento, mi lascio trasportare, non ho un genere privilegiato, ho una predilezione per chi sa versificare con padronanza di lingua, per chi libera l’estro nella composizione musicale, per chi rischia e non si pacifica nel consentito. Il panorama musicale italiano è in continuo fermento e mi ritrovo spesso per le mani album di eccelsa qualità. Il problema vero è quello che gli sta intorno, ovvero il vuoto. Non ci sono più né produttori né talent scout, ogni artista va alla ventura senza riferimenti, la distrazione dei media è assoluta, paradossalmente mancano i canali di promozione e il 90 per cento degli album muore d’inedia nel giro di pochissimi mesi a prescindere dalla qualità. Le radio sono una sola top ten ad libitum, le poche di valore hanno ascolti risibili. C’è un risveglio del vinile ma i numeri sono da accanimento terapeutico. Sono sempre più convinto che per la musica il futuro sia il live, bisognerà, appena il virus sarà sconfitto, realizzare un circuito alternativo di condivisione artistica su tutto il territorio nazionale. Bisognerà poi trovare altri modi per far viaggiare la musica, e con il mio album un po’ ci abbiamo provato. Con la Ondamusic e la Vibrisse Studio abbiamo applicato la realtà aumentata alle illustrazioni che, inquadrate col telefono attraverso una app dedicata, si animano e consentono l’accesso a contenuti extra aggiuntivi: video, racconti, performances. In questo modo un album continua a essere vitale anche per anni aggiungendo, cambiando, postando sempre nuovi materiali sonori. La smaterializzazione della musica dovrà essere affrontata non già come una disgrazia ma finalmente come compresa mutazione del tempi. Tanto indietro non si torna, mai. Per restare al tema dell’album meglio cavalcare l’onda che esserne travolti. Perché probabilmente sparirà il cd, presto o tardi anche l’elleppì, di certo non sparirà la musica.

Una volta mi dicesti che non apprezzi il termine “cantautore”. Per quale motivo?

Non mi scandalizza che se ne faccia uso, ma è una definizione che, utilissima e necessaria un tempo per valorizzare un modo nuovo e dirompente di fare canzoni, ha perduto nella mutazione della creazione artistica la sua validità. Forse arriveranno altre definizioni più calzanti, forse no. Non è importante. Si potrà anche continuare a usare questo termine, perché no? Siamo dentro un flusso magmatico, difficile comprendere la direzione delle correnti, delle discese ardite e delle risalite. Quello che conta è la bellezza di questo miracolo chiamato canzone, e la perfezione di questo prezioso non è garantita da schemi, originali o pregressi che siano. Ma anche l’imprevedibilità fa parte del fascino che continua ad avere la canzone, non trovi?

Quali sono i tuoi progetti per il futuro, Covid permettendo?

Il prossimo album intanto, che è in lavorazione, passerà dall’elemento acqua all’elemento aria, e lì dove il mare era metafora del viaggio in tutte le sue accezioni, l’aria sarà quello del volo, dei sogni, degli ideali, del pensiero illuminato ma anche delle sue degenerazioni perdute, della speculazione creativa ma anche delle sue devianze. Probabilmente farò una pubblicazione dei miei scritti, credo sia arrivato il momento. Poi devo assolutamente vivere.

dal CD La musica dell’onda (OndaMusic 2020)

Alcione

(Alberto Marchetti)

Il mare è spesso ostile,
dimentico, violento,
nessuna cicatrice
di traversate e lutti.

Ma resta di ogni viaggio
d’un tragico naufragio
un’eco di racconto
sulla spuma dell’onda.

L’aveva vista in sogno
montare da occidente
una tempesta tenebra
veloce da tribordo

che stravolgeva i piani
sfasciando la trireme:
Re Ceice non avrebbe
mai più fatto ritorno.

Ma lui le sorrideva
baciandole il corruccio,
ancora salutava
da poppa lontananza.

Si perse ogni speranza
alla seconda luna
mentre fioriva il pesco
nell’orto imperturbato.

Alcione sulla riva
vagava, disperata,
stracciata nelle vesti
donava sale all’onda.

Non so il momento esatto
che lei lanciato un urlo
scattò dentro i marosi
chiudendosi sul corpo.

Però, tutti raccontano,
nell’attimo seguente
due martin pescatore
volarono nel sole.

Marabù

(Nikos Kavvadias, marinaio e poeta greco, Manciuria 1910 – Atene 1975; traduzione di Alberto Marchetti)

Raccontano di me i marinai
che sono uomo ruvido e perverso,
che le donne disprezzo in modo truce
e me le porto solamente a letto.

Che fumo marjuana e tiro coca,
che mi possiede orribile passione,
che una rete di tratti repulsivi
mi copre ogni centimetro di pelle.

Quei marinai raccontano menzogne
tremende, esagerate, immonde, assurde,
quello che mi ferì fino a morirne
né dissi io, né alcuno capì mai.

Ma mentre cala l’ombra tropicale
e nel grecale volano gli stormi
mi preme riversare, nero inchiostro,
quest’eterna segreta mia ferita.

Viaggiavo in prova, al tempo, su un postale,
tra il Nilo e il meridione della Francia,
lì la conobbi che sembrava un fiore
e un solo sguardo ratto ci comprese.

Sottile, melanconica, elegante,
figlia d’un ricco che s’era ammazzato,
con se portava il suo dolore in viaggio
sperando le accadesse di scordare.

Leggeva libri di buone maniere
e le passioni di santa Teresa,
citava versi di quei maledetti
e stava a lungo a contemplare il mare.

Io conoscevo solo le puttane
e il cuore mio, da tanto mare affranto,
la gioia ritrovava dell’infanzia
nell’ascoltarne estatico la voce.

Le misi al collo una graziosa croce,
lei mi donò un portafoglio in pelle,
e mi sentii assai triste quando al porto
giungemmo: non l’avrei mai più rivista.

Ma la pensavo dal ponte di un cargo,
quasi la mia custode protettrice,
era un sollievo la sua foto a prua,
un’oasi nell’oceano deserto.

Dovrei fermarmi qui, e farei bene,
la mano trema, l’afa mi stordisce,
un afrore di fiori tropicali
sale dal fiume, gracchia un marabù.

Continuerò! In un porto lontano,
in una notte fradicia di whisky,
di birra e gin, ottuso e vacillante,
presi la strada del peggior bordello.

Lì donne spudorate lusingavano
i marinai colpendone il berretto
ridendo, fan così le troie in Francia.
Svogliato, a noia, mi lasciai portare

in una stanza lurida e angusta,
i muri dall’intonaco sbrecciato,
lei straccio ormai di donna, voce roca
e sguardo perso, oscuro, che ti affoga.

“Spegni la luce” dissi. Fu l’amplesso.
Potei contarle le ossa sopra al cuore.
L’assenzio l’impregnava. Mi svegliai
con l’alba a sparger petali di rosa.

A quella fioca luce del mattino
mi parve tanto triste e dissoluta,
così, a disagio, quasi spaventato,
mi venne fretta di pagarla e andare…

Dodici franchi. Lei cacciò uno strillo
guardando il portafoglio spiritata
e io restai di sasso quando quella
movendo mostrò penderle una croce.

Scordai il berretto uscendo come un pazzo,
un folle che barcolla eternamente,
mi porto dentro un sangue avvelenato
che mi tormenta, affanna, mi punisce.

Raccontano quei marinai giù al porto
che sono con le donne rude, ostile,
che sono un brutto ceffo, tiro coca…
sapendo scuserebbero, di certo.

La mano trema, ho febbre, mi abbandono
nell’osservare un marabù che fisso
giù dalla riva immobile mi guarda:
io pazzo e solitario gli assomiglio.

Nostalgia

(Kostas Uranis; traduzione di Alberto Marchetti)

Somiglio ai vecchi marinai rugosi
visti in Olanda, dal volto di sfinge
seduti accanto ai fari, che curiosi
seguono ogni nave che si accinge.

Cogli occhi colmi di naufragi e vento
la seguono, con brama e nostalgia,
quando risale l’ancora in lamento
e scricchiolando poi se ne va via

passando, calma e immane, accanto al faro.
Lenta si spinge nell’oceano immenso
perdendosi a ovest nel meriggio

col fumo che nel viola si fa raro.
Ma i vecchi marinai, lo sguardo intenso,
la pipa in bocca, restano al miraggio.

 

Alberto Marchetti è nato il 16 marzo 1963 a Ciciliano (Roma). È musicista e critico musicale, pittore e fotografo, scrittore e poeta, sommelier e cantante, regista e attore teatrale. Finora, nel campo musicale, ha pubblicato gli album Lettere smarrite (Penthar Music 2011) e La musica dell’onda (Ondamusic 2020).

 

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