Confrontarsi con la poesia di Stefano Dal Bianco significa osservare un percorso di scrittura che copre più di vent’anni, dai primi versi da «Scarto minimo» (NdR, Rivista fondata assieme a Mario Benedetti e Fernando Marchiori) e de La bella mano (Crocetti 1991) fino a Prove di libertà (Mondadori 2012). Stupisce, in questo arco di tempo, l’esiguità di raccolte pubblicate: oltre alle due citate, anche Stanze del gusto cattivo (in Primo quaderno italiano di poesia contemporanea del 1991) e Ritorno a Planaval (Mondadori 2001). Quindi, solo quattro pubblicazioni separate da intervalli di tempo ampi.
Da questa constatazione di rastrematezza si può trarre qualcosa a proposito di un’esperienza di scrittura dell’autore. A riguardo, nel 1998 egli scrive:

«Allora l’imperativo può essere questo: rinunciare alla poesia in quanto riparo. Rifiutare di adagiarsi nella culla della scrittura, che non è e non sarà mai l’esperienza più importante del vivere. Non è possibile vivere seriamente il fatto di scrivere come un mestiere. Sento che la vera scomessa è quella di vivere senza scrittura. Ma a questo punto cado in un’incertezza».

Occorre soffermarsi su due parole, esperienza e incertezza. Come chiarito nel prosieguo del testo, l’incertezza a cui Dal Bianco si riferisce deriva dalla constatazione che, di fronte a una personale rinuncia alla scrittura, non gli resterebbero che due strade: spostare il fare poesia nella vita, sostituendo il testo come luogo dove si concretizza l’agire poetico con la propria biografia; lasciare perdere per davvero la poesia, compiendo una forzatura prima di tutto contro sé stessi. Considerando però la parola esperienza, ci si accorge che i due poli di un’incertezza non sono altro che un fraintendimento. L’esperienza in questione, Dal Bianco lo scrive chiaramente, non è da intendersi in alcun modo con la scrittura in sé per sé, né come gesto formale né come momento dai risvolti sociali per l’individuo. Esiste, infatti, «l’esperienza più importante del vivere» che è poesia come fare conoscitivo ma lo è prima di ogni babele del segno. Precedente a ogni luogo formale e a ogni distinzione grammaticale realizzata a posteriori, è presente un fare esperienza che riguarda l’uomo in quanto tale e in cui ogni schematismo risolutivo ha poca pertinenza. Di questo l’autore ha intuizione in diversi momenti della sua opera, se non altro in una domanda mantenuta aperta. In «Scarto minimo» scrive:

«Ma esiste un’introspezione pura, non avente a che fare con l’esterno? Ogni distinzione tra Io e mondo, dilatandosi la dimensione soggettiva fino a comprendere tutto. Sarebbe il momento dell’Io – mondo, dove la poesia è di casa.»

Questa introspezione, che condurrebbe l’autore a una non esternalizzazione dell’agire poetico, è però lasciata da Dal Bianco a condizione intuitiva, in un permanervi incerto. Egli, a riguardo, resta in un’empasse che cerca di risolvere intervenendo proprio su quell’«esterno» di cui si domanda. In La lirica, il silenzio, la nausea del verso afferma:

«Nel senso che c’è un sapere che è puramente nelle forme: sta negli incontri fra le vocali, nei ritmi, nelle intonazioni. Sono cose che per tanti anni ho cercato di individuare in Zanzotto, in Petrarca, in Ariosto.»

Un «sapere», dunque, che è «nelle forme» del poetico. Che cosa intende qui l’autore? In Lo stile classico o Il suono della lingua e il suono delle cose, Dal Bianco sviluppa una riflessione sulla soggettività e sull’Io in poesia che, se in una prima parte rimanda a Maurice Blanchot quando afferma «lo scrittore che definiamo uno scrittore classico è colui che sacrifica la propria parola per dare voce all’universale» e argomenta riguardo allo scoparire dell’Io autoriale nel egli, in un secondo momento viene risolta in strategie apparentemente chiuse nel piano formale, più precisamente nel rapporto tra stile personale e Grande stile. In altri momenti, questo agire nella forma è attuato mediante soluzioni testuali raffinate, come il lavoro metrico/ritmico di rallentamento del verso e di variazione di intensità lirica in Ritorno a Planaval. Rimane però aperta la domanda: che cos’è una sapienza nella forma, in relazione a quell’«esperienza più importante del vivere» da cui si è partiti? È puramente una risoluzione di quest’ultima mediante un esternalizzazione formale? In Cinque pensieri, Dal Bianco scrive:

«All’inizio, la conformazione del testo in versi – nel canto, e poi nella scrittura – costituiva il momento di unione ipostatica fra la durata del respiro (l’attaccamento alla fisicità dell’esistenza) e un violento principio formale, che nella sua tendenziale antisemanticità proclamava il diritto a un sapere dei sensi e del corpo, contro la crescente egemonia della mente, della volontà di potenza, del potere del Senso. […]»

O ancora in Manifesto di un classicismo:

«Il corpo è importante perché io sono io. […] Non hanno niente a che fare con una scelta i procedimenti ritmico sintattici, che sono più facilmente emanazione del corpo, che sfuggono all’appiattimento della langue con molta più disinvoltura dei significati lessicali.»

Una sapienza nella forma, dunque, ha il suo apparente luogo di partenza in altro, ovvero nell’Io-corpo: «il corpo è importante perché io sono io», similmente a come Jean – Luc Nancy ne L’intruso sviluppa la questione del «che cos’è Io rispetto all’Altro» nella dimensione del corpo. Più che da un’esperienza, però, a questo punto una sapienza nella forma sembra fondarsi a partire da un concetto – limite, quello di corpo (inteso anche come “celebralità”, come evidenza che “si sta pensando”). Un concetto, però, non è un fare esperienza, tanto è vero che lo si scrive dialetticamente, senza realmente indagarlo. A questo punto è lecito chiedersi: una sapienza nella forma può essere un conoscere di tipo esperienziale che vada al di là del riducibile a dialettica? Se «l’esperienza più importante del vivere» è davvero un conoscere che riguarda l’uomo nella sua totalità, e di conseguenza anche il fare poesia è questo, allora la risposta potrebbe essere positiva. Amelia Roselli in Spazi metrici scrive:

«Generalmente la parola viene considerata sì come definizione di una realtà data, ma la si vede piuttosto come un oggetto» da classificare e da sotto-classificare, e non come idea. Io invece […]avevo proprio altre idee in proposito, e consideravo perfino «il» e «la» e «come» come «idee», e non meramente congiunzioni e precisazioni di un discorso esprimente una idea. Premettevo che il discorso intero indicasse il pensiero stesso, e cioè che la frase (con tutti i suoi coloriti funzionali) fosse una idea divenuta un poco più complessa e maneggiabile, che il periodo fosse l’esposizione logica di una idea non statica come quella materializzatasi nella parola, ma piuttosto dinamica e «in divenire» e spesso anche inconscia.»

 

da La bella mano (Crocetti 1991)

Che ci sia l’esatto. Non di rado
più vicino al cuore e qui capelli bocca naso ancora
sperando di averli più vicini.
Nuovo liquore interno, sangue.

da Stanze del gusto cattivo (in Primo quaderno italiano, Guerini e associati 1991)

Io sono nascosto dalle piante, ogni giardino
copre altre persone, e io conosco male
chi cammina con il vento sulla strada.

Di notte la casa è scoperchiata
e con il buio entra la polvere
e io sento precisa la mia vita.

da Ritorno a Planaval (Mondadori 2001)

IL VETRINO

Una sera, ero in ritardo, con un asciugamano inavvertitamente, ho urtato una preziosa bottiglietta di profumo, che è caduta. I pezzi sono stati raccolti, quasi tutti in un primo momento, altri nel corso del tempo, a mano a mano diminuendo le proporzioni dei reperti. Dopo un mese in un anfratto del pavimento è comparso un vetrino trasparente, ma nessuno l’ha raccolto.

È passato altro tempo, ogni volta che entravo nel bagno
lo vedevo e mi ripromettevo: «Prima di uscire
lo raccolgo e lo butto»,
e nelle mie faccende lo tenevo d’occhio
perché non se ne andasse o scomparisse
tra le frange del tappeto o altro.

Ma il bagno libera i pensieri e al momento
di uscire dalla stanza un’altra
memoria ne prendeva il posto,
e il vetrino è rimasto e negli ultimi giorni
è diventato un’ossessione, un’ossessione
all’ultimo secondo regolarmente rimossa.

E oggi mi sono impuntato,
mi sono concentrato più di ieri
e più dell’altro ieri e ce l’ho fatta:
è stata una vittoria graduale
di una memoria su altre memorie.

Ho allungato la mano e con sorpresa
il vetro non ha opposto resistenza:
è stato docile, si è fatto raccogliere
come se per tutto questo tempo
avesse atteso me, il mio intervento.

Adesso non so se per pietà, per un senso del dovere
per rispetto o per amore l’ho posato
sul nero della scrivania, davanti a me,
e scrivendo lo contemplo e raccolgo
la sua storia di cosa legata alla mia,
uno stesso appartamento ci contiene.

Sono orgoglioso di averlo salvato
e lui risponde alla luce e manda timidi bagliori.
Ma io ci vedo dentro il firmamento e questa notte
lo metto all’ aperto e me lo guardo
perché c’è la luna, perché ritorni,
nella chiara altezza di cobalto, il cielo.

*

I SENSI

Il pesco che vedo fiorito tra i cumuli della città di Milano non è l’idea della vita che vince il cemento ma solo un’aria di cemento, una vita di cemento nel pesco, la mia vita. La nostra vita elusa sopra i tetti.

Allora guardo la forma del pesco,
scavo nella sua chioma piccola di ladro
la parola pianta, la parola parola
che lo possa salvare
che mi possa salvare e provo a dire: sì,
per la forza di una parete, sì,
perché il tempo ripeta
tante volte la stessa stagione
e mai nella mia casa.

Sono sul muro sette sensi
legati l’uno all’altro a due a due, consolidandosi
l’uno, l’altro sparendo senza paura di sognare…

Sono disposti in forma di poesia, che dice:

«Il primo senso
è il senso della gioia, senza scopo, come quando
si rivela una cosa.

Il secondo è quella cosa, resa vicina,
di cui non devi mai parlare.

Il terzo senso è notturno,
dove nessuno vede niente
dove la mente resta uguale.
Il quarto senso è con l’amico fiore,
e tu e lui siete una cosa
abbandonata sotto un cielo chiaro.

Il quinto senso è lontano dall’amore.

Il sesto senso è non di te.

L’ultimo senso è tutti quanti,
settimo senso inespiabile,
indurisce
la parola in parola, il muro in
muro».

Umanità minuta,
della stessa sostanza del mio cuore,
fammi dei morti e io sarò salvato.

da Prove di libertà (Mondadori 2012)

DALLA GABBIA

Vi sono giorni di debolezza estrema
poiché – dice qualcuno – la pressione
atmosferica di fuori,
che ha potere sui corpi, essendo bassa,
si consustanzia a noi fin dentro il sangue
con la sua tenera virtù di morte.

Ma altri vi potranno assicurare
(e oggi io sono tra quelli)
che tutto questo spossamento, in certi giorni,
non procede dall’aria né dal corpo
ma è soltanto dolore
di anime costrette,
solitudine di molti,
vuoto vissuto male,
mancanza o assenza di uno scopo.

 

Stefano Dal Bianco è nato a Padova nel 1961. Dal 1986 al 1989, con Mario Benedetti e Fernando Marchiori, ha dato vita alla rivista di poesia contemporanea «Scarto minimo». Nel 1992 si è laureato a Padova in Storia della Lingua Italiana, relatore P.V. Mengaldo. Dal 1992 al 1994 è stato redattore di «Poesia», presso l’editore Crocetti di Milano. Nel 1997 ha svolto un Dottorato di Ricerca in Filologia Romanza e Italiana (Retorica e poetica italiana e romanza) presso l’Università di Padova. Nel 1998 ha ottenuto una borsa di studio post-dottorato e nel 1999-2002 un assegno di ricerca in Scienze della Letteratura all’Università di Siena. È membro del consiglio direttivo del Centro Studi Franco Fortini. È nella redazione della rivista «Stilistica e metrica italiana». È curatore dell’opera di Andrea Zanzotto presso Mondadori. Ha tradotto da poeti angloamericani, francesi, tedeschi e neerlandesi, fra i quali M. Moore, M. Hartnett, B. Simeone, M. van Daalen, E. Spinoy, W. Stevens, E.E. Cummings, G.M. Hopkins, H. Jackson. Ha pubblicato quattro libri di poesia, ovvero La bella mano, Stanze del gusto cattivo, Ritorno al Planaval e Prove di libertà. Sue poesie sono state tradotte in neerlandese, tedesco, francese, inglese, spagnolo, russo, serbo, sloveno, cinese.

La fotografia di copertina è stata realizzata durante la quindicesima edizione del festival La punta della lingua

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