Blotto o della desmesura – dall’introduzione di Daniele Poletti

La molteplicità della scrittura di Augusto Blotto, che si invera sotto tutti gli aspetti del dispiegamento linguistico, assolve più che ampiamente a quella eterna “funzione Gadda” (di continiana memoria) che va da Folengo e gli altri macaronici al Joyce di Finnegans Wake e oltre, sottoponendoci una visione della letteratura come atto di conoscenza e non come sua riduzione selettiva a uno schema metafisico. A livello gnoseologico Blotto attua paradossalmente ciò che Lévinas sosteneva in Totalità e infinito, vale a dire che la realtà non è mai del tutto determinabile come oggetto conosciuto, poiché essa continuamente sfugge alla definizione; l’Altro è sempre irriducibilmente “altro” e rinvia alla ricerca di un fondamento, atto a una ri-partenza conoscitiva del pensiero. La sfida di Blotto, pur nella titanica forgiatura di un sistema massimamente variegato, che ha lo scopo di restituire almeno una parte delle implicazioni del reale, è già persa in partenza e l’autore ne è cosciente. Ancora con Lévinas, “immiizzazione” traduce il francese “mise en moi”, “messa-in-me”: l’io riceve qualcosa che non potrebbe contenere in virtù della sua sola identità. Non per questo la visione tragica della vita, come inarrestabile coacervo caotico di segni, impossibile da dominare attraverso una soggettività unica, rimane ancorata a un immobilismo nichilistico, anzi: Blotto tenta in tutti i modi, con tecniche di accelerazione e iperstimolazione espressionistica della lingua, di riportare il senso del caos, del molteplice non dissipabile o ordinabile, dentro l’esplosione plurale della nominazione; e lo fa anche con una buona dose di ironia. Il risultato è verificabile in ogni parte della sua opera, ma al di là degli aspetti peculiari di questo sistema di scrittura, la cosa sorprendente è che “la forza grossa e varia” delle sequenze di versi, a una lettura liberata dall’ansia della comprensione immediata e protratta in un lasso di tempo prolungato, produce un effetto di secondo grado, un’unità sonora che è paragonabile al rumore bianco, comunemente conosciuto come processo aleatorio caratterizzato dall’assenza di periodicità nel tempo, con un segnale a spettro costante. Dunque una unitas multiplex che si produce per effetto fisico della parola, in una dinamica di perenne reciprocità, aspirando a un processo progressivo di deidentificazione, a un esperire primigenio privo del pregiudizio del significato. Rimanga chiaro che in Blotto la significazione non è affatto accessoria, la sua poesia è legata ai tempi e agli accidenti, ma è la modalità analitica destrutturata e anticontemplativa che si frappone come filtro al tempo storico, ottenendo un dettato non conforme all’economia spicciola del riconoscimento (da parte di chi legge), che troppo spesso viene confusa per protervia autoreferenziale.

da Ragioni, a piene mani, per l’«enfin!» ([ d i a • f o r i a / DreamBOOK Edizioni, 2021)

= = = = =

Le ragionevolezze, tampoco
bella-presenza, subiscono quel repentino
foscar malato che, per esempio, il vento
veniente, non ancora udibile, violàstra
di là dai monti di legnicelli e vista
(sornione biondo scorticato, sollevarsi)
esasperata per vicinanza di terriccio?

*

Fievole un cielo soffiato dal forno
aspettante dei monti il corallo
tartaglio duro, turchese
zagaglia, sovra la gromma di calma
che possiedono certi acrocori cremisi
secco, all’improvviso, quando spegne
in conforto la cenere stracci noi
e non ci diamo ragione d’una guancia,
direi, che coli, fece giuliva
riverberata dal vermiglio, zitta
così, qui nel platiccio dell’ombra
Il fatto vero che si emettesse da spalla
e occhio questo frontal di programmi
sorregge ebben nella disperazione
imminente che pare armeggi i suoi sciacqui
in tal periodo disidratato e quieto
da far sorgere fieri dubbi; ricordo,
poi, che bruiva un chè di coperta
superiore, manona (elittra), il cavo
pomeriggio da tacchi silenti in cui morte
mi colse (o quasi)
Sono persuaso
dunque dell’in-gioco cui forza è far tasca
dritta, come se ci si avvicinassero altri attori
Ma non è quello…
Che tipo di fiuto
al vestito – di lana, si sa, però individuo
il suo chiaro, marcato, pied d’poule –
osò avanzare la personcina ch’….
or colgo in scorcio, tra galleriette di roccia,
verso Elva? Meglio, in che tempo,
fermo così?
Ha proprio articolato,
da pollo, gambe in quel giorno là;
lo si è potuto vedere.
Poi scriveva.
Poi toccava magari parti nece-
-ssarie alla vita d’ogni giorno. Un pettine,
sarà stato usato. Un caldo
stazionava dove non posso dire: lana,
ma come davvero nettata, senza
aderenze (che fungan rimorchio)
Fu
movimento, profilo, eternità
peritura. Non riesco a stoppare
quell’andamento da sogno grande, avventura
gladiolata d’azzurro per sminuzzarlo,
che portò un nome e cognome a usare mezzi
di trasporto
Capisco veramente
ora e trèmolo sempre: nessuna
relazione con il percorritore
d’istanti, vestito, è il verticino implume
del trionfar [un] lampo, condizione bennata
affinché si dia un quadro preciso della storia
come si svolse in quel 14 settembre
’58, ad esempio, di Elva rivelazione
ma anche di logistica che potrei compitare
passo per passo, criticandola in quel
di ceduo ingenuo ci fosse stato
A lontanissimo,
come in vero e reale si è, soltanto
è concessa la franca minuzia del costituire,
testimonio complicantesi, gli atti d’aria che un
solo ma guarda giorno bonariamente eccelsero,
o sia pur epoca, volendolo (sciolti)
Occupandomi
finalmente, di questa biografia che appunto
conosco, potrei liberare nuvolette
di interessanti conoscenze, palla leggera
che va a centrar po’ lo spiegare. Di certo
conquisterei una libertà così giogo
sotto-tripudiante, simile a grasso di guanciotto
che si soddisfi, tiepolesco;
lo scanso
di responsabilità, agognato, d’ora
– con tutto lo stupore che ciò trascina,
rinnovellar sorprese in vate o speme,
cantucci continui d’incontrar qual fede –
in avanti potrà comodamente
picchiettare i miei passi, sourcillo uniforme
che se ne va, rettilineo che obeso sfuma
(così il celestino a Dazi, a traslochi veteri)
Ma io, veramente, dov’ero, dove mi trovavo?
Sono semplicissimo a segnalarmi

Val Curone, Staffora
Val Maira
ottobre 2002

*

LA MEMORIA DEL PASSATO… E DEL FUTURO…
LA FOLGORE DEL PRESENTE ECC.
(SI DISCORREVA)

La neghittosità, a lungo tenuta lontano,
si ammanta delle piacevoli svolte
che la sorpresa cala, nelle notti d’inverno
lunghe di luna lampone, quietine del cedro
respiro filinato, quasi angolo di bocca
Sono così fuori dal cognome
che benissimo inquadro la pochezza
se si dà il caso anche con allegrezza
Vien ricompor pian piano l’idea o storia
di tutta quest’avventura, torsionata
in crema di luoghi appen toccati a-cedere,
che per tutti gli anni di una vita obbligo
indusse, di non accorgermi, corsa
di frequenza in eventi avanti allo stolido
edificatore, attutito nel commuoversi
“Questi punti di vita che presto
attraverserò non hanno niente in comune
con il cencio di gomito o biancheria
ch’è solito comitar con me” dicevo
Ed era anche tutto un ricostituire
di come mi mettevo a scrivere tal pezzo
nel ’75, cioè com’ero vestito
e quale treno ospitava la lietezza
dell’aspettativa antimeridiana, solitudine
ispirata a desideri modesti
Le migliaia e migliaia di personaggi
che s’inerpicarono per vie e viottoli, correndo
setolosi d’arsura, un minimo comùn
possedevano: sembianti, preferenze;
però quanto estranei, vertigine! nemici
perfino, sul piano agonistico.
L’altro
ieri, chi si affidava alla dorsale
del Monte Boglello? non aveva, in rapporto a chilometri
e velocità, se non antipatia, discordia,
rispetto a quel simile che, quindicina o più prima,
beotava aggredire, un po’ dall’altro lato,
una analoga predeterminazione di giorno
(il qual ha suo fungere nel compiuto anello)
Questi vermetti che per decine d’anni,
dunque per centinaia in anno, ansarono
in disparate direzioni (crinale
solveva, sovente; mirabile ferraglia
di bivio a cappella a occidente) in nulla
li possa captare, che mi rendan felice
alla raccolta del ricordo, o per influire:
non conservo alcuna ideologia, o ascella
chiarata di amidato, con individuo
raggruppato così; un subito dopo
mi susseguenta, trattini indipendenti
che si ricordano sì, ma non ne voglion sapere
dei ramificatissimi mezzi nemici con il mio nome
e le mie fattezze; talora bersagli, talora
avversari da battere (nel tempo record
a cronometro individuale), incubo
imperio tal’altra, fèrrean zhdanovisti
Perciò, evviva!, che futuro preoccupa?
Le stanze isolate di chissà chi come
sente sorprenderanno una
per volta, intensamente forse, e aggiustarsi,
nel palato, occhio, o situarsi, non darà pensarci
se non in quella sede di profittarne;
quanto a patire, saran sempre tipi
variati, che non si rammarican quindi.
Se non nel filino appartato di poggiarli
con il creare dal nulla, che la glauca memoria
precisissima nitida in dettagli, sovrastando nuboso
oboe o buccina, camera vitrea del tutto altro
(famoso e ora proprio arrivato qui)

Valli Curone, Staffora
ottobre 2002

*

= = = = =

È strano, esser seguiti in quel capire
quanto sia necessario le cose legno
ricevano, a taglio e penetro, nel doveroso
loro spaccarsi, fatte come sono
di un dentro oltre il quale [lo] spazio è nullo
Le grandi arie bianche che ventagliano,
graduale palmoso, da un mediocremente
vicino mare, corrugano preoccupata
fronte, o abbagliata, in colline provviste
del pomeridiano di un fico o cortile
(vena di muro, crespa di grondaia),
cultural parapetto di granito
fingendo distribuir le accigliate
decisioni di chi trascurabile
non sa il suo pre-pupillare sonni (o giudizi)
semi-inghiottiti, verso pianura: glauca,
germi
Itinerario granettato
di rosari di ghiaie in curve quasi
sponde tanto le si mira sinuo
in alture prestantisi a strategica
analisi con magari colpo
di genio o almeno simpatico
ritrovarsi in famigliar riuscita,
per certo fiancheggiato da un conoscere
permanente fendeva lieto, cinto
da bava d’aria, l’innumerevole
degli attorni, perfino perplessi al vedersi
così importanti, come pare affermi
il purpureo in udito (e vista)
verm’infinito, temporato andare
Soprassalti d’interessarsi a una,
risvegliano in mazzata il circostante
che di botto può assumere il color
guaito o dedizione; gesto di giacca
corcata là in fazzoletto e levarsi,
il tutto-cambiato cala paratia
del suo oscuro talmente determinante
i rialti delle cose da appellar
[eco da lupo o vagone ferrato]
stranezza
il fondo d’aula lunga nostro
calibrare un’esistenza dolce
di trovarsi slargate dita in cavo
della mano, quelle che provengono
dal capire, forse legate in steli
tenaci a una campagna d’epoca swing
L’eversione impeccabile, tutta al
di qua dell’esterno, segue in occhi
filati l’estrema soddisfazione
d’un mondo aperto nei pezzi (timone
di carro? o Ravaillac?) simile in appuntino
all’esilaro o elio che imprecisava
rifugio del grande amore alla mia fedeltà

Cravanzana-Gorrino
maggio 2017

Augusto Blotto, nato a Torino nel 1933 è considerato il poeta italiano più prolifico della sua generazione: «titolare di un’opera in versi ove l’abnormità della dimensione fisica convive con una stupefacente invenzione verbale» (Stefano Agosti, La lingua dell’evento). Per la sua sterminata bibliografia, rimandiamo alla pagina a lui dedicata su Wikipedia.

(Visited 189 times, 1 visits today)