Concordanze e approssimazioni (Il Leggio 2019, prefazione di Marco Sonzogni e intervista/postfazione della curatrice di collana, Gabriela Fantato) è un libro denso di immagini e significati, il cui disegno architettonico fornisce al lettore un trittico nel quale viene celebrata la parola. Parola che può curare come un incantesimo o – al contrario – diventare un mantra, una preghiera da ripetere nonostante il nome del lutto, nonostante l’ardere dell’assenza.
Siamo di fronte a una poesia che coinvolge tutti i profili dell’esperienza empirica quotidiana, atteggiandosi a risultato dello scontro ideale tra giusto e reale, traducendosi talora in un vulnus (“la donna, la sposa, poi la madre, […]” “si frantuma piano il mio taglio di donna”) il cui esito, se non vittorioso, si conferma sufficiente a proporsi come farmaco lenitivo del male più profondo, quello in cui “ci sono addii impronunciabili” mentre “si resta abbandonati /senza opporsi alla corrente e torna il freddo”.
È questa una poesia che si intreccia e cresce “dove vive l’acqua”, impastata di “risposte, simboli, intuizioni in un dialogo a più voci”. “In fondo si conosce solo quello che è già stato immaginato” scrive Marica in un verso di spietata ferocia e il suo dettato si mostra sin dal principio proteso fra “la forma assoluta e vicino allo zero” e la quasi annichilente delusione degli elementi che compongono la realtà, talora insufficienti persino “a riconoscersi in un nome”.
E il nome, inteso come attività di messa a battesimo del mondo (Alighiero Boetti docet), sembra investire ogni momento significativo dell’esistenza: siamo chiamati a “dare un nome ai desideri sbagliati/ festeggiando in ritardo quelli mancati”, perché “ci sono banchetti che predicono attese” ed “ognuno riscrive la propria biografia come può”. Siamo chiamati per nome a gestire “l’intuito che è dei vivi”, col monito di “mai farsi confondere dalle acque”, perché l’obiettivo ultimo è “riparare lo spazio con la calma della parola”.
Il pensiero a cui si rivolge il trittico poetico a cui Marica dà forma si manifesta come esercizio professionale ed eroico della parola che riesce, oltre l’attesa e il compianto, oltre il doloroso – perché consapevole – nos canimus surdis virgiliano (che si può dedurre, magari in modo parziale, dalla dedica in incipit al libro stesso: “A chi sa ascoltare / il gesto delle mani sugli occhi. / Ai tanti senza nome. / A quelli che un nome ce l’hanno”) a perimetrare una poesia che vuole elevarsi al di là dell’impotenza consapevole del mezzo comunicativo.
Se “la verità è che le storie le raccontano i silenzi”, sembra potersi dedurre che possiamo solo realisticamente soppesare ciò che resta tra “l’ironia di chi crede il contrario” e le “ombre che riscattano attese”. Siamo chiamati tutti in un atto corale di civica presa di coscienza, a esporci come “testimonianza” imitando “il gesto dell’acqua”, nonostante la consapevolezza che “l’esilio è una prova di resistenza”, e che “l’infanzia ritratta / intorno a un filo di promesse” ci accompagnerà per sempre con il peso della sua ombra.
Il dettato di Marica, “senza opporsi alla corrente” si immerge continuamente per poi risalire nella snella fluidità dei versi, imbevendosi della forza necessaria per aver cura delle cose, per maneggiare gli eventi che si incardinano nel tempo, nella trimurti del suo disporsi. Siamo condotti dai versi “nell’assenza dei corpi”, e successivamente accompagnati in un passato per cui il “tempo che perdeva la trama /e lasciava al buio l’ultima voce sfuocata” cede il passo a “la recita” – quotidiana – “per dare una forma alle cose”, per trovare lo stimolo di “raccontarci le vite precedenti / e dirci che mancano le cose viste insieme”.
Ed è così che si assiste al “diventare forma” delle cose, all’alchimia per cui acqua e tempo si uniscono in un unico circolare – le cui increspature non trovano modo per spiegare “l’origine” propria, e non a caso, infatti, “di quello che è stato non resta ricordo” – e della quale l’unica certezza è il peso dell’attimo, perché di esso si percepisce il trascorrere istante per istante.
Si sopporta tutto il graves saturnino “nella totale imperfezione del momento” e lo sforzo tonico dell’autrice di sublimarlo nell’eterno ritorno dell’uguale nicciano – perché se “la storia si ripete e lascia andare”, “nulla verrà ancora veramente per essere visto con occhi nuovi” – senza lasciar traccia, in quanto “non si può ingannare il tempo dell’attesa”.
Acqua e tempo ma anche bianco, come assenza e necessaria simultanea compresenza di ogni spettro di colore; “Bianco che, malgrado tutte queste accumulate associazioni con tutto ciò che è dolce e venerabile e sublime sempre cova nell’intimo qualcosa di elusivo che incute più panico all’anima di quel rosso che atterrisce nel sangue”, come scriveva Melville nel capitolo di Moby Dick intitolato “La bianchezza della balena”.
Lezione, questa, che Marica conosce, e molto bene: la traccia del suo “bianco verticale” si alterna e lascia progressivamente il posto al “bianco che non […] trattiene più”, “ai decisivi minuti di bianco prima del risveglio”, al “bianco” che si vuole “torni ad essere familiare”, al bianco di cui dobbiamo “imparare la resistenza / la capacità di dire”, al “bianco” della “neve” che altro non è che “la salvezza degli invisibili/ un legame di piccole mani bianche”.
“L’inverno è spostare il bianco con la mano, / per andare giù nel profondo, con le dita” : così l’autrice ci invita a solcare la profondità tridimensionale – quasi materica e tendente all’abissale – del bianco che “finalmente ha la sua ora” sulla pagina, per cui il verso si presenta pregno dell’atto “per aiutarsi a crescere ancora”, evocando la figura della madre a cui appartiene il gesto amorevole dell’accompagnare nello sviluppo, perché “dobbiamo imparare la resistenza del bianco, / la sua capacità di dire”.
Bianco che si dota di concretezza, quasi corporeità, nel manifestarsi invernale nella composizione, perché “torna il freddo” e si consegna come fisicità in grado di superare ogni candore e caratteristica verginale, che suggerisce – perché di questo necessita – ed invita di essere attraversata con la stessa sostanza di cui i corpi son composti.
Facilis descensus Averni, ma è in questa discesa che la poesia diventa e si qualifica in Marica come strumento complesso, atto a razionalizzare lo scorrere degli eventi per fornire una cura allo strappo nel tessuto del quotidiano, per “fare pace con la misura tra le cose mai dette”.
“Meglio ascoltare prima di capire” scrive Marica auspicando un dialogo, un contraddittorio costante tra le parti, consapevole che dovrà essere il tempo a indicarci come sopravvivere per rammendare “tutti i brandelli” di ciò che rimane trovando, se non la pazienza di ricomporre l’opera, certamente l’amore di “proteggere le cose / solo tenendole per mano” – quelle cose che nonostante tutto possono concordare, approssimandosi a loro stesse.

da Concordanze e approssimazioni (Il Leggio 2019)

Cominciava veramente quando,
sempre più veloce, veniva il tempo
dei film muti, delle gambe in alto
a sfidare le ortiche, dei chilometri tritati nel digiuno.

Era la favola della periferia lontana,
con i porti sepolti a picco
e la vergogna degli inganni.
Nessuno che supplicava di perdersi tra quelle strade,
la disattenzione del giorno a fare il foglio bianco.
Io vi avrei amati tutti, uno a uno,
nella totale imperfezione del momento.

Serve un gesto di molta precisione
per aiutarsi a crescere ancora.

Gettarsi a terra è appena l’inizio della parola pace.

 

*

Tra le clavicole
la casa rifugio di ieri,
con la terra nella bocca e le braccia sospese.
Non è più tempo e le nostre parole
finiranno, finiranno a breve.
Ci guarderemo da lontano,
come si guardano le cose che ci hanno attraversato
senza lasciare un segno.
Ma poi bisognerà alzarle le braccia,
alzarle in segno di resa, anche dopo.

Alzarle in modo visibile che non resti dubbio.

Stesi sotto il peso dei corpi di poca importanza,
rimpiangeremo il rosso intorno:
urlerà la sera dentro le forme e saranno incompiute.

 

*

La donna, la sposa,
poi la madre, quella che non scorda.
Tremano le mani dove
la pelle tiene alta la scommessa, davanti.
L’assenza dei corpi e la recita
con gli occhi rimasti.
Si parte nei giorni di festa
le orecchie fisse sulla pancia sono fantasmi sottili.

Quello che resta
è racchiuso nella incertezza
dello sguardo. Meglio non dire
dove si fermano le gambe per paura di cadere.
La vertigine è reale, si sente con gli occhi.

Si frantuma piano il mio taglio di donna,
quello vivo, nascosto nelle ossa,
quello che non si lascia vedere.

 

*

C’è il morso della sera
dentro ai giorni in cui si compie l’anno
ed è una marcia di ritorni.
Non conosco l’ordine delle mani
il loro tentativo di esistere.
Si può spiegare tutto
anche l’approssimarsi di una bocca,
il suo preciso mormorare
con i sensi in caduta intorno.

Tutto chiaro mentre sale.
ma domani non sarà più qui
e ci vergogneremo dell’attesa.

Batterà la testa sul tempo un poco mosso,
batterà la lingua. Tutto previsto, senza sosta,
senza sapere dove.

*

A me sembra di proteggere le cose
solo tenendole per mano
nel tempo dell’inizio dove è ridotta la distanza
e tutto il resto viene dopo,
viene nel luogo in cui non ci si tocca.
La verità è che le storie le raccontano i silenzi,
i rossi accesi dei rilievi,
le forze avvinte all’acqua cieca.
Del peso dei corpi si può anche stare senza
se si è quelli destinati a ritornare.

*

A Fiammetta che una volta aveva camminato a pelo d’acqua
perdendo l’equilibrio e il lago l’aveva risparmiata

 

Francesca Marica (Torino, 1981). Vive a Milano dove esercita la professione di avvocato dedicandosi prevalentemente al disagio e alla marginalità giovanile, alla violenza sulle donne e alla tutela delle fasce deboli.
Redattrice e curatrice di riviste letterarie, si occupa di critica poetica. Cura su Carteggi letterari la rubrica Segni, cifre e lettere e la rubrica La poesia del giorno. Ha collaborato con Argo, Poesia del nostro tempo. Traduce dall’inglese; scrive di teatro.
Suoi testi sono apparsi su diversi blog e riviste, Concordanze e approssimazioni è il suo primo libro (segnalazione al Premio di poesia e prosa Lorenzo Montano, XXXIII edizione).

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