Ormai da più di dieci anni lei gestisce e coordina a livello redazionale il Blog di Poesia di RAINEWS. Come è nato questo progetto? Che cosa significa cercare di parlare di poesia nel web attraverso un blog associato alla RAI (potenzialmente più seguito anche da un pubblico di non addetti ai lavori e di non – poeti)? Crede che negli anni Duemila i siti specialistici di poesia abbiano effettivamente ereditato la funzione che ebbero le riviste cartacee nel Novecento?

Il blog Poesia è nato nel settembre 2007. La mia intenzione era affermare, in rete, il seme di una presenza. Stabilire un luogo di confine nel quale custodire, difendere e proteggere, l’identità dei poeti e della poesia. Volevo, insomma, determinare un posto ove fosse riconosciuta l’identità dei poeti, dei reietti, sempre respinti e costretti a vagare nella solitudine e nell’isolamento. Desideravo un luogo di sguardi, di dialogo, di confronto… Depositare il seme di una presenza e mettere radici su un confine, su un margine. E lì, molti hanno lasciato la traccia, la traccia di volti emersi dal magma della parola poetica.
Il blog gestito e amministrato da me per la Rai, poi è diventato, negli anni, un luogo di contaminazione, uno strumento di trasmissione, di coabitazione della parola dei poeti. Per esempio, penso a quando fui mandata da Rai News 24 per un mese a lavorare a Rai Educational (N.d.r. oggi Rai Cultura), portai appunto, in una trasmissione intitolata “Scrittori per un anno” per la prima volta in quella rubrica, il volto di un poeta. Il poeta era Franco Loi. Per me fu come raggiungere un traguardo. Ora a Rai Cultura i poeti “sono di casa”, sono citati, ascoltati. Esistono. Sono usciti da una sorta di isolamento, hanno una voce. Sono diventati riconoscibili e percepiti, finalmente, in tutta la loro potenza espressiva. Il resto lo hanno fatto i social veri e propri luoghi di aggregazione per chi scrive poesie. E dunque il blog ha raggiunto il risultato: far diventare i poeti e la poesia finalmente visibili.
Per quanto riguarda la sua seconda domanda… Credo che non sia possibile paragonare i blog e siti specialistici presenti in rete alle riviste di poesia. Il modo di comunicare in rete ha determinato un profondo cambiamento: i blog “fotografano” la realtà della poesia presente in modo rapido, sferzante, diversificato, ma non sempre omogeneo, perdurante: la rivista invece, ha sempre avuto, e continua ad avere, la funzione di scavare e analizzare in profondità il lavoro del singolo poeta nel luogo in cui il poeta si trova. Penso a Poesia di Nicola Crocetti. E’ una rivista intramontabile.
Certo, è possibile che con il tempo i blog e i siti specializzati possano prevalere domani sulle riviste cartacee, perché è in atto un cambiamento radicale nel modo di comunicare, però non sempre positivo, perché conduce a una sempre maggiore frammentarietà, relatività dell’informazione… Insomma, non so dire se questo è un bene o un male. Oggi i poeti hanno molta più visibilità rispetto al passato, sono “riconoscibili” per effetto della rete, ma non è detto che la poesia che si legge in internet sia davvero il meglio della produzione poetica italiana e internazionale. Penso che la rete abbia contribuito a risvegliare una coscienza poetica che si era assopita negli ultimi decenni, anche se ora prevale la spettacolarità, il sensazionalismo, anche nel mondo della poesia. Per questa ragione, continuo a credere che forse la vera poesia può anche stare fuori da tutto ciò, e magari vivere e alimentarsi su un margine, in un luogo appartato e solitario.

 

Mi interesserebbe parlare un attimo del suo libro Inizio e Fine pubblicato da Stampa 2009 nel 2016. All’interno dei testi che compongono la raccolta lei parla diffusamente della necessità o dell’esigenza di nominare le cose quasi per dare loro una nascita, uno stare, per chiamarle a sé e alla vita e celebrarle nel loro mistero che si svela ( “la più grande/ fra tutte le cose nominate”, “pretendeva, dall’inizio alla fine/ ogni cosa che vive, il suo nome”, “chi aveva chiamato il tuo per primo?”, “chi ti ha chiamato con il tuo nome?” e altri versi). È un po’ come quello che accade nel dialogo tra Rilke e l’angelo all’interno delle Elegie duinesi, forse. Crede che la vera funzione della poesia e del poeta sia quella di nominare le cose per dare loro vita prima che scompaiano, che cadano in quell’opacizzare delle cose ultime di cui in altri momenti testuali della raccolta lei sembra parlare? E la poesia può ridare chiarezza e far rientrare la luce nelle cose ultime opacizzate?

Devo dire che non pensavo a Rilke mentre scrivevo Inizio e Fine, anche se è vero che in queste poesie c’è un mistero legato al “nominare” le cose e all’essere “nominati” da una voce altra che proviene da un mondo sconosciuto. Quando scrivevo Inizio e Fine ero entrata in un universo ultimo, in una danza della morte. Ma “il nome” con il quale la persona viene chiamata da non si sa chi, non è il suo vero nome; è il nome con il quale verremo chiamati, secondo me, prima di lasciare questo mondo… E io non so qual è questo nome. Non so dire se la poesia che stavo scrivendo era in una dimensione fisica, reale, o spirituale. Ero in un mistero e ogni cosa assumeva una portata gigantesca superiore alla realtà, all’immediatamente conoscibile. Penso poi che la parola poetica di Inizio e Fine metta proprio una patina opaca sulla realtà, che altro non è che l’opacità delle cose ultime.

 

Lei ha intitolato la sua raccolta Inizio e Fine cercando dunque di sottolineare i due limiti fondamentali e le due soglie di qualsiasi esperienza terrena e umana, ovvero il nascere e il morire. Questi due poli esistenziali tornano diffusamente poi nel testo (come già detto, alle cose ultime e morte è associata spesso l’opacità, al nascere la luce che entra e il nominare). A me interessa ora però analizzare versi come “c’è una solitudine nella morte da vivi/ l’assenza del tempo nel laccio che stringe/ le mani –“ o “stasera mi hai parlato del terrore/ l’invernale cammino del corpo/ in quell’accadere del mondo” o ancora “ti ho amato, ricordalo, ora che sei stanco” dove mi sembra che la sua attenzione si sposti a considerare quel momento intermedio tra la nascita e la morte che è il vivere o in generale lo svilupparsi di un’esperienza.
Come si può scrivere di quanto sta in mezzo tra il momento del nascere e quello del morire? In quale maniera? Necessariamente vincolando un percorso alla sua fine?

Tutta la mia poesia è caratterizzata da questa esperienza duale: la nascita, la morte. Del resto sappiamo: quando si è nella dimensione della nascita, si è già nella dimensione della morte. Una fine determinata da un orologio biologico, o da altri accidenti che possono capitare a un individuo nella vita. Ma in realtà nascita e fine, sono la stessa cosa, portano un mistero difficile da decifrare, da decodificare. La solitudine della morte da vivi è proprio la condizione di chi viene al mondo. A volte mi chiedo “siamo vivi a cosa”? “Che cosa ci rende vivi, consapevoli di quello che siamo?” Credo che l’avvicinarsi alle cose ultime ci metta di fronte alla risposta a questo interrogativo perenne.

 

Le vorrei porre a questo punto una domanda che forse può risultare scontata ormai (su questo tema hanno già ragionato Celan e Adorno). Che cosa può oggi una poesia che pone tutto il suo significato nelle possibilità e nella speranza della parola di affermare, di dare un nome alle cose e alla realtà? Come si può dare un nome a quello che ai tempi di Adorno era l’Olocausto e oggi è (con le dovute proporzioni) un vivere quotidiano composto dal morire dei migranti in mare, da stragi terroristiche come quelle di Parigi, da conflitti come quello siriano? È ancora così vivo il potere della parola e il conseguente mandato dei poeti o al contrario tutto il fare poesia andrebbe ripensato nei suoi significati teorici e funzionali (come effettivamente da alcuni autori è stato fatto)?

Ogni giorno mi confronto con il pensiero di Adorno: credo che ogni poeta sappia che scrivere poesie dopo Auschwitz è praticamente impossibile. L’esperienza di Celan ce lo insegna. Lui ha sempre combattuto attraverso la lingua della poesia la contraddizione della sua condizione umana e lo ha fatto con atti di poesia estremi, violentissimi, come denuncia di una vita a fronte di un’altra vita, di un’altra lingua… Questo suo continuo assillo, questa rarefazione del significato e del senso della parola, l’intraducibilità della sua poetica, lo ha portato alla fine, a perdersi totalmente nel dolore della perdita della sua identità ebraica.
Penso poi, che nessuna strage è paragonabile veramente alla Shoah. La vicenda dei profughi siriani, la questione dei migranti, gli attentati di Parigi, sono vicende diverse che devono essere – dovrebbero essere – risolte dalla comunità internazionale. Una volontà che ancora non c’è di farsene davvero carico. Non siamo in regime di “leggi razziali”, ma c’è un’incapacità sostanziale da parte degli stati membri di prendere provvedimenti seri nei confronti di vite umane allo sbando. I poeti conoscono questa incapacità della politica, ma non possono sostituirsi alla politica, non possono trovare soluzioni pratiche se non attraverso l’elegia, il canto, la denuncia di diritti civili. Ma le soluzioni spettano ad altri. Il poeta può solo tentare di decifrare l’ingiustizia sostanziale, ma non può sostituirsi al potere politico.

da Inizio e Fine (Stampa 2009, Azzate 2016).
II
per tutta l’estate gli alberi piansero
sangue vischioso
l’occulto si era disciolto sulla corteccia
bruna

venne a renderci omaggio
l’opacità delle cose ultime

l’ultima stagione ci lasciò
in un’angoscia secca
eravamo caduti nell’ordine
della fine

***

VI
quello che vedi è solo luce
un sole remoto espone il lembo
nel quale sei entrato

solo la luce scoprirà il mutato
colui che ignorava la propria fine

nell’alba di un nuovo inizio
avevi chiamato il mio nome

– chi aveva chiamato il tuo per primo? –

***

VII
poi arrivò l’inverno, la luce
non ebbe più alcun luogo sicuro
tutte le strade
da ogni distanza direzione o fine
portavano lì

la miriade diventò minacciosa
più di se stessa
inondò il tenue chiarore della stanza
l’immane richiamo

 

Luigia Sorrentino è giornalista professionista e poeta. Attualmente lavora per il sito del canale Rainews24 e, dal gennaio del 2011, cura attivamente il blog Poesia, di Luigia Sorrentino, il primo blog di Poesia della Rai, da lei ideato e seguito. Il primo riconoscimento di tale attività divulgativa è arrivato nel luglio del 2011, quando le è stato assegnato  il Premio “Prata” (Premio Donna, Cultura e Comunicazione). Tra le sue  pubblicazioni si segnalano: C’è un padre (Manni, Lecce 2003) La cattedrale (Il ragazzo innocuo, Milano 2008), L’asse del cuore (Almanacco dello Specchio Mondadori, Milano 2008) e La nascita, solo la nascita (Manni, Lecce 2009),  Olimpia (prefazione di Milo de Angelis; postfazione di Mario Benedetti; Interlinea, Novara 2013) e Inizio e Fine (Stampa 2009, Azzate 2016).
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