Immagine di Kamil Vojnar

 

da L’avventura dello sguardo nella poesia di Alessandro Franci di Caterina Verbaro

Quest’ultima raccolta di poesie di Alessandro Franci ci presenta una scena ricorrente, quasi archetipica: quella di un soggetto che si aggira per gli spazi del mondo – strade, periferie industriali, boschi, ruderi – sperimentandovi una sintonia esistenziale che traduce gli stati interiori in immagini, luoghi, oggetti. È propria a questi versi una complessiva postura meditativa, la presenza discreta di un soggetto risolto nella funzione di un vedere rabdomantico, alla ricerca di una consonanza con il mondo che possa dare voce all’esistenza, di un rispecchiamento tra il dentro e il fuori, il materiale e l’immateriale, la residualità della parola e quella del mondo coi suoi dettagli e frantumi. Al centro di questa poesia c’è perciò l’esperienza dello spazio, composto e scandito secondo caratteristiche precise e ricorrenti da una parola indagatrice, che insegue le cose e ne nomina i misteri e le ambiguità. La scena sembra sempre costruirsi seguendo l’andamento, progressivo ma insieme occasionale, dello sguardo, accumulando oggetti, ingredienti, atmosfere cromatiche […]. Quali spazi, quali scene si aprono dinanzi a noi? Si tratta di luoghi segnati dal realismo dei dettagli minuti, degli oggetti residuali, ma insieme caratterizzati da uno straniamento che li rende misteriosi e irreali, sempre sospesi tra veglia e sogno: luoghi abbandonati, solitari, custodi di memorie, che svelano un «riparo» (p. 50), «nascondigli» (p. 69), «rifugi» (p. 60), in una generale claustrofilia che protegge e attutisce. […] La caratteristica forse più interessante di questi testi è la presenza di un io-sguardo peculiare, che non ambisce a restaurare un ordine, a catalogare e con ciò a dominare il mondo, ma piuttosto percorre lo spazio alla ricerca del segno, ovvero del montaliano miracŏlum, di ciò che deve essere visto, della salvifica epifania. […] La rappresentazione dello spazio, così attenta a riprodurne il «disordine» (p. 39) – uno dei lemmi tematici del testo –, sembra spesso indugiare in uno stato onirico: la parola circuisce ed esplora il «disordine» perché sembra sapere che solo in esso, nella resa fluttuante a questa «periferia dei bisbigli» (p. 40), è possibile individuare le immagini – o i miracoli – in cui si condensa il senso dell’esistenza. […] Le immagini emergono da uno sguardo di scorcio, mai frontale, spesso interferente col ricordo, uno sguardo rappresentato nel testo come sempre parziale, o situato, o riflesso, attentissimo alle variazioni cromatiche, come nella migliore tradizione simbolista di cui Franci è certamente erede. […] Un’incessante specularità agisce dunque tra lo spazio indagato e lo sguardo che lo attraversa di scorcio, e che in esso cerca la conferma del mistero, ma anche la salvezza dell’epifania. […] . L’avventura dello sguardo che fonda le poesie di Alessandro Franci – uno sguardo capace di scoprire il passato nel presente, l’altro nell’io, il mistero nella realtà – permette al soggetto, declinato non di rado in un «noi», conformato a quella postura meditativa di cui si diceva e che appare ora particolarmente debitrice della lezione luziana, di vivere la duplicità dell’esperienza, l’essere qui e altrove, in una sorta di posterità al mondo in cui si può essere insieme «remoti e vivi» […] Il titolo ossimorico apre alla speranza, se è vero che lo sguardo sapiente e straniante conosce l’irremovibile resistenza di ciò che sembra sempre in bilico e in pericolo, arreso alla propria fragilità: le vestigia del passato, la memoria, la poesia.

da La fragilità dei pesi (Società Editrice Fiorentina 2020)

La fragilità dei pesi

Ha un colore di osso secolare, brunito,
di reliquia, la capriata che regge il tetto,
prediletta nei sogni, nelle sere di sciami,
di guano, che il fare del caso ripresenta;

eterno approdo delle ore, rifugio
di ombre disposte dai tramonti e
se l’ora ritarda solo di poco gli istanti
se la luce si sofferma ancora,
un lembo oscura, graffia i margini
rimasti tra puntone e staffa,

fruga la fragilità dei pesi, i punti di rottura,
al rintocco di campane dai sentieri
dimenticati, all’urto dei ferri e dei tiranti
e si rivela indubbia la sua forza nel sonno
improvvisato, poco più che il lenire
d’analgesico per l’insaziabile dolore.

 

A margine del tempo

Ma poi alla fine qualcosa rimane
tra rimasugli di idee, di prese di
posizione, tutto quel dire,
di contrasti di accordi fatti…

un accumulo sufficiente,
scorta per i giorni a venire,
passa così la storia sul panorama
che non varia il suo profilo
che non si scosta dal tempo.

Cammino per queste strade
che rivedo, che gli anni hanno leso
con crepe e squarci sopra i muri
e ora tutto sembra uguale
anche se la vita non raggiunge più
quello che prima era solo lontano.

 

Contrasti

In controluce come masso nero – opulenza
da monumento di piazze e di contrade –
la polo che indossa si gonfia
al ritmo del respiro, le ossa monito di
scheletri schierati per carni sollevate;

è sasso di lava piombato dai vulcani in
questo andarsene e venire con il flusso
lento, da controcorrente come salmoni,
risalendo le ragioni e i trascurabili fatti,
a seguire tappe di pietrificati istanti
sull’asse che collega
il primo dei passi all’orlo dei crepacci,
dei pozzi, delle tane da poco abbandonate.

 

Remoti e vivi

La foto ritratta il tempo
trafigge l’istante e il suo destino, solo
la carta lo deteriora, il suicidio nei contorni
e nelle crepe rinsecchite;

attraversata la soglia il cielo torna
luminoso, carico del suo futuro,
l’osso bianco ritrova la sua carne,
l’aria sfiora l’acqua senza un confine,
su questo pendio lungo l’asse in equilibrio
per noi che siamo in questi anni remoti
e vivi, pietra di colonne pericolanti,
noi stessi codici miniati quasi illeggibili.

 

Linee orizzontali

Le metafore delle strade e delle vie
non hanno esche così nitide
e quanti colori e quante polveri antiche
quando sfiorano ogni passo.

Il mare è fermo come
una lingua morta a contatto
con il cielo e camminando dritti
ai lati tra erbacce e lattine,
rivedo l’acne sulle guance
le fiacche uscite dai riti
smanianti nell’indolenza
di generazioni;

l’orizzonte basso che schiaccia
la discarica e i capannoni
sopra le teste dei viandanti,
affanna in gole secche di calura,
tra ronzii e scatti di lucertole tra i rovi
e quel fondo quasi rovesciato
di una linea da righello
che attraversa la strada vecchia
come quella nuova nel suo mistero
grande quanto il mondo.

 

Alessandro Franci è nato a Firenze nel 1954 dove si è laureato in architettura. Nelle Edizioni “Gazebo libri” Firenze, ha pubblicato: Senza luogo (1985); Delitti marginali (1994) e La pena uguale (2009). Presso la rivista online «Larecherche. it» gli e-book Il fermaglio (2011); La Luna è nuova. Poesie 1980-86 (2012); Sbagliando strada (2017). Nel 2013 il romanzo Il mese della Luna (Bologna, Gingko edizioni). Nel 2014 alcuni brani tratti da La pena uguale sono stati inclusi in Traducir leteratura ocho escritores italianos edito da Universidad de Malaga a cura di Alessandro Ghignoli. È presente in alcune antologie, pubblicazioni collettive e redattore del semestrale di letteratura e conoscenza «L’area di Broca» (già «Salvo imprevisti»).

(Visited 451 times, 1 visits today)