Fotografia di Dino Ignani

Tavole e stanze (Oèdipus 2019), la più recente raccolta di Ivan Schiavone, sin dai primi componimenti, ci pare rientrare tra quelle narrazioni in grado di intessere un discorso relazionale tra umano e non umano («tutto nel tutto s’intrica e compenetra», p. 6), di incentivare la coscienza ecologica di una responsabilità dell’uomo – la creatura dell’Antropocene – portandolo a usare, prima che sia troppo tardi, il suo «scarno lume contro le ampie volte della notte» (ibidem). Dalla prima breve sezione, Postulati e apostasie, si partecipa alla genesi di uno sguardo poetico espanso che rilascerà per tutto il corso della raccolta un canto-mappa. Si tratta di un’azione sottendente, in primis, la messa in discussione di una narrazione totalizzante e pericolosamente antropocentrica, la quale cerca e ha cercato attraverso un «gioco di riconfigurazioni» (p. 8) di giustificare una visione rivelatasi (auto)distruttiva («amplesso in cui predando anneghiamo», ibidem). Una visione responsabile, colpevole di un fraintendimento («scambiando per il sole / ciò ch’è soltanto lingua», p. 22) e un allontanamento dal non umano («non sappiamo più nominare il fuoco / per non essere noi da tempo prossimi / al fuoco», p. 16). Veramente – e positivamente – responsabile, viene ad essere allora il canto di questa raccolta, che, riconosciuti i suoi limiti e le sue potenzialità, viene scelto per creare una nuova visione-mappa espansa, coraggiosa e porosa («Mapping reality is always already a multidimensional journey in the landscapes of porosity», S. Iovino, Ecocriticism and Italy Ecology. Resistance, and Liberation, Londra, Bloomsbury Academic Press, 2016, p. 40).

La mappa inizia a prendere forma dalla sezione Tavole da un atlante, dove l’uomo viene cantato non meno randagio delle altre creature («randagio sotto il sole della mutazione va l’uomo», p. 13). Il lettore stesso, umano, viene immerso, per non dire invaso, da un coacervo di eventi – direbbe Lyotard «piccole storie» – che restituisce un paesaggio al di là di qualsiasi meta-narrazione unidirezionale. Non viene neppure data una nota di orientamento, una legenda, perché essa rinvierebbe a un solo percorso e a una comprensione-riduzione antropocentrica. Si susseguono in questo modo tavole affrancate, di un atlante copioso di landscape e mindscape da cui è possibile, ci pare, cogliere le diverse istituzioni di questa poesia. La prima è di certo la volontà di ricostruzione di un panorama disseminato e polimorfo («quando un vaso si rompe, / in Giappone, connettono le crepe con dell’oro», p. 12) attraverso, ad esempio, descrizioni asettiche della natura più selvaggia e / o minima, di percorsi corporali che ricordano alcune tematiche biaginiane («lungo le traiettorie del corpo paranoico / traslato da proiezioni a blocchi e incroci / in sentieri interrotti», p. 19).

In tale opera di disseminazione-ricostruzione, l’autorialità di Schiavone è volutamente – e coerentemente – messa alla prova, come se si cercasse di realizzare lo sguardo di un nuovo pronome personale dilatato il cui occhio ci possa tutti ri-guardare. Per un tal motivo si mantengono vive e cooperanti in questa poetica una forza centrifuga e una centripeta. La prima rifugge la concentrazione in un dominio delle materie, la seconda tenta una tenuta faticosa, eminentemente poetica e necessaria. Così la voce vaga – nella duplice funzione di aggettivo e verbo – intavola il suo canto, tenuto insieme anche da un sapiente gioco di tratti d’unione, dislocazioni e rime («dal leviatano al lavello / dalla fenice al fornello / l’aspirapolvere, la macchina da cucire, l’anello», p. 23), frutto di una ricerca stilistica e linguistica che sfocia non di rado anche in meta-poesia contrastiva («la lingua / che è qui ciò che fu e non è / se non deiezione e rammendo», p. 26).

A questo punto possiamo chiederci: qual è l’ideale istituzionale-causale di Schiavone? Ci pare che l’autore abbia avvertito l’urgenza di rimediare poeticamente a una carenza umana, quella di non percepire ciò che è «manifesto», esponendolo in tutta la sua gamma ontologica, nonostante il terrore dei tempi («non mi sembra essere il terrore / ciò che manca a questi giorni / quanto piuttosto la capacità di percepire il manifesto», p. 19). Non è affatto però un mero intento di riconsegnare un dettato cronachistico o storiografico. Di fronte a queste composizioni-tavole la sensazione piuttosto è quella di vedere apparire una policroma gamma di ciò che è manifesto, appunto, e che riesce, grazie alla funzione disseminatrice-ricostitutrice della poesia, a distribuirsi sapientemente come vero e proprio atlante.

Questa scelta del soggetto autoriale gli procura uno sguardo “diffuso” e, con esso, un riavvicinamento al non umano («rimessosi all’istinto del cavallo», p. 12) e a una prospettiva infantile e spontanea («la mia mamma dice che i bonsai le fanno impressione / è come se stessero strillando», p. 19). Una postazione autoriale assai distante dalla figura del giardiniere che vuole assoggettare la natura, plasmarla. Schiavone usa uno strumento umano come la poesia per tentare di dis-imporsi, per “orizzontalizzare” la visione e togliere efficacia a consolidati dualismi e alla posizione eretta e di dominio-intervento sul naturale («o come il giardiniere / che al ritmo circadiano della cura / contrasta con la forma il naturale», p. 16). Le gerarchie antropocentriche iniziano a sfilacciarsi e lo si evince anche nella rappresentazione trasversale del dolore, della disperazione («al C.I.E. di Ponte Galeria otto migranti si cuciono le labbra / con un ago forgiato con la testa metallica di un accendino e il filo di un materasso», p. 13; «A Esperance / 450 miglia a sud di Perth, in Australia / migliaia di uccelli sono caduti morti dal cielo», p. 17) e nell’approcciarsi al minuscolo, protagonista di tavole e resti di umani banchetti («formiche che si agitano / tra i decori floreali di tovaglie impressionate / dalle cene e dagli avanzi», p. 16).

Ci pare nascondersi, altresì, la lezione di Leopold nella scelta di Schiavone. Tanto è vero che si fa spazio, componimento dopo componimento, un’etica ecologica che porta a rivendicare e rafforzare l’idea di un paesaggio composto dall’interconnessione tra natura («tornano i delfini / tornano morti al Mar Nero / tornano a giocare / con le radiazioni delle scorie nucleari», p. 28) ed esseri umani, con tutte le loro responsabilità («noi / la misura esterna del perimetro / nella definizione dell’attacco / che compitiamo in una lingua incerta / noi la barbarie / nell’ebbrezza della devastazione / tra la corruzione di tutti i lasciti / per l’estatica inerzia di chi attende l’autoannientamento», p. 28). Il paesaggio viene cantato senza centro e, parallelamente, per questa intenzione etico-ecologica, si espone la responsabilità dell’uomo auto-assoggettatosi a una teleologia distruttiva e distruttrice («per nostalgia di un futuro terso / ci siamo consegnati a vicenda testimonianze d’orrore», p. 12). L’orrore diventa un bersaglio («ferocia che dilania questo tempo», p. 16), mentre si esalta il bene e chi sa prestare ascolto («prestasti ascolto al suono e il mondo scruti / di quel dolore avendo pena / per compassione / all’ascesa rinunciasti», p. 16). È indubbia una premura nello sbilanciare il canto nel contemporaneo, perché è proprio lì che v’è bisogno di una presa di posizione urgentissima («il mare interno / ultimo inverno dei migranti o oceano atlante dell’ecatombe della tratta / e ancora acqua / spirare in massa lungo i tragitti della guerra / ancora terra», p. 24), reimmettendo l’uomo nella natura, in uno stesso mare comune («il tuo memoriale corporale / non l’avrà la terra / bensì il mare», p. 30).

Veri e propri sbilanciamenti nel presente sono le ultime sezioni dove si stabilisce una ricostruzione più “lineare”, temporalmente e spazialmente, e le tavole si concentrano nell’intorno della voce. Dopo aver sparso-intavolato il canto-mappa, qui si creano coaguli dal materiale meno disseminato, ma non meno denso. Se prima una concessione esplicita alla propria individualità veniva restituita solo dalla dedica delle liriche a persone care – come ad affidare i propri versi a figure-totem affettive -, ora, nelle ultime parti, le figure – ma non solo, anche i paesaggi – sono più approcciate e riconoscibili, disvelate in quanto parti della vita individuale della voce, come la donna amata. Tutta la sezione Cantico piano, in particolare, contiene un inno amoroso per una creatura vicina e pare esaltare l’idea che anche l’amore è / deve essere forza che governa il creato (Empedocle). Si tratta di una sezione di bilanciamento rispetto alle precedenti, un modo per confessare cosa in quell’atlante a dir poco devastato tenga viva la voce che fino a quel momento si è impegnata “solo” a consegnarci più “plurali” visioni. Si tratta di un’altra creatura, umana, appartenente al mondo naturale. Proprio l’esaltazione della natura e dei suoi movimenti, accostata a un sentimento amoroso che pure ne fa parte, rende la fine di questo canto un’indicazione di un possibile ricongiungimento-pacificazione nel / col presente. Una forma di resistenza.

 

da Tavole e stanze (Oèdipus 2019)

come forse la grazia
tra sponde di acciaio e flebo di plastica
lo sguardo docile vinto dall’anestetico — la testa superba del cervo
per cattività arresa a sonnolenza, alla definizione geometrica dell’erba
all’eco franta di foreste e prati spenti
archetipi
esausti — sulla schiena delle mucche han montato degli oblò
se ne stanno mammalucche
quando l’aprono, ohibò —
recida la lama la giugulare immolando a un lento dissanguamento

— la mia mamma dice che i bonsai le fanno impressione
è come se stessero strillando — lungo le traiettorie del corpo paranoico
traslato da proiezioni a blocchi e incroci
in sentieri interrotti
deviazioni impreviste
per aritmie e tragitti delle batigrafie somatiche — nel traffico
drappelli di impiegati si destreggiano
tra i gorghi provocati dai risucchi ascensionali
di torri e grattacieli conglobati — lo sguardo reticolato dalla zanzariera
anelante la sfera oltre la coltre
irradiata per dovizia di deserto
inferta per vezzo
alla vedovanza della terra — al primo precipitare dell’inverno
volse al suono il greto secco — non mi sembra essere il terrore
ciò che manca a questi giorni
quanto piuttosto la capacità di percepire il manifesto
— non giunse angelo alcuno ad impedire il gesto della mano

*

d’intorno all’albero di là degli embrici che spaia e inerpica tra apici floridi
i propri, aridi e sterili, volano gli aironi, esuli tra i rami esili
o vi si posano taciti e attoniti dopo gli aerei transiti, immobili
auspici lepidi del nostro intimo stabile fremito, nel riconoscerci

 

*

mansueta m’apparve ed estranea
una cerva
auree le corna e lucide nell’ora per l’estate incerta del crepuscolo
picchiettata di lentiggini la spoglia candida
brune le ciglia
le pupille nere — aggrappata con assillo agli argini
l’eco edilizia di una periferia iterata
silenziata infine
in parte
dallo scrollarsi del fiume all’ampio slargo
l’Hudson innevato
vagoni che percorrono l’alzaia — urina una bambina accovacciata in un canneto
sorpresa dall’avvicinarsi di alcune barche
ignara di un serpente

 

Ivan Schiavone (Roma, 1983) è un poeta italiano. Ha pubblicato: Enuegz (Onyx, Roma 2010 e, in versione ebook, 2014), Strutture (Oèdipus, Salerno/Milano 2011), Cassandra, un paesaggio (Oèdipus, Salerno/Milano 2014), Tavole e stanze (Oèdipus, Salerno/Milano 2019). Ha curato diverse rassegne letterarie tra cui Giardini d’inverno e Generazione y – poesia italiana ultima (da cui il documentario omonimo realizzato da Rai5); ha diretto, con la poetessa Sara Davidovics, la collana di materiali verbali Ex[t]ratione per le edizioni Polìmata. Dal 2016 dirige per la casa editrice Oèdipus la collana di poesia Croma k.

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